Quirinale, che sorpresa!

Stefano Di Michele

Felici gli anni, quando c’era la riserva sottomano – il Gran Notabilato, i Cesare Merzagora a disposizione, i Giovanni Leone sottomano, persino Scalfaro nell’emergenza bombarola e stragista, e l’europeista Ciampi, per ben figurare con Azeglio continentalmente. E anche Napolitano – sempre il sublime raffinato notabilato, cui il Palazzo che fu del Papa e poi del re quasi sempre si consegna (non abbastanza consegnato al ruolo, né ancora votato alla vigna umbra, era allora D’Alema, come invece il sublime notabile numero due della storia repubblicana, Luigi Einaudi, che poteva vantare applicazione al barolo in quel di Dogliani: la proprietà di qualche filare sempre a un’aura di benemerito Cincinnato avvicina).

    Felici gli anni, quando c’era la riserva sottomano – il Gran Notabilato, i Cesare Merzagora a disposizione, i Giovanni Leone sottomano, persino Scalfaro nell’emergenza bombarola e stragista, e l’europeista Ciampi, per ben figurare con Azeglio continentalmente. E anche Napolitano – sempre il sublime raffinato notabilato, cui il Palazzo che fu del Papa e poi del re quasi sempre si consegna (non abbastanza consegnato al ruolo, né ancora votato alla vigna umbra, era allora D’Alema, come invece il sublime notabile numero due della storia repubblicana, Luigi Einaudi, che poteva vantare applicazione al barolo in quel di Dogliani: la proprietà di qualche filare sempre a un’aura di benemerito Cincinnato avvicina). La riserva – dove partiti e istituzione stipavano nomi e storie per i giorni di magra e di imprevisto politico: presidenti del Senato, come Spadolini e Marini, sempre invocati; personalità del calibro di Bobbio e Valiani, o il sempre presente Amato, da tutti stimate e da nessuno elette; icone dell’antico impegno femminile, così che sempre la Iotti alta teneva la bandiera dei voti comunisti e la democristiana Tina Anselmi veniva invocata dai satirici sinistrosi di Cuore; o personaggi che carsicamente tornano, e nel loro ripresentarsi hanno attraversato i decenni fino a esaurirsi, come Emma Bonino, nientemeno “Emma for president!”: ognuno li vuole e mai qualcuno se li piglia. La riserva si è modificata, renzianamente mutata da pregevole luogo di conservazione in area di rottamazione, di deposito, di antiche carrozzerie da smaltire casomai pezzo per pezzo (un commissariato europeo qui, un posto alla Nato lì, qualche defilata authority dove i destini hanno termini di paragone con Antonello Soro piuttosto che con Giuseppe Saragat).

    Quando verrà il momento – a riforme instradate, a semestre europeo passato: che tra rimpianti lettiani e aspettative renziane, lo stesso si è ormai mutato in una specie di goldoniana “smania per la villeggiatura” – e Napolitano sottobraccio a donna Clio saluterà arazzi e corazzieri, là si volgerà lo sguardo, e là le meglio affilate menti della politica italiana (da Lotti a Casaleggio, da Quagliariello a Toti, si presume) andranno a ravanare alla ricerca del sostituto. E stavolta sarà meno facile delle altre volte. Primo: rottamato il notabilato che fu, confusamente accatastato ai margini della politica, tra la nobiltà vintage della soffitta e quella un po’ più hard della cantina, bisognerà spingersi verso territori inesplorati – hic sunt leones, e magari sperare in un decente, sorprendente presidente. Secondo: con machiavellica furbizia (è questo che ora si porta, dopo l’epica del cumenda brianzolo, del democristiano sempre autorevole ma di seconda fila, del liberale di ottima caratura, del compagno partigiano) non potrà la politica fare a meno di un “effetto Francesco”, trovare qualcuno “alla fine del mondo”, farlo insieme redentore e icona – incoronato e, si spera, incoronatore. Un po’ padre, o meglio fratello della patria, un po’ Monsieur Malaussène che canti e aiuti a portare la croce negli anni che verranno: “Pianga, Malaussène, pianga in modo convincente”.

    Bisognerà sorprendere. Non avendo, purtroppo, un padre gesuita sotto mano, si dovrà fare con quello che si trova: un esimio intellettuale, persino un cantante insigne, un celebre attore, un illustre artista, uno stimato giurista, un degno personaggio, comunque un personaggio – e qui il primo rischio: la ricerca del personaggio, invece del mutarsi del presidente stesso in personaggio (Cossiga, per dire). Il terreno è sterminato, ma è pure minato. Da scegliere tutti insieme, il presidente che verrà? Da intronizzare solo con la maggioranza? Roba di pura sinistra? Più schiettamente conservatore? Uno lento? Uno rock? (Forse meglio lento, che già si esibisce l’Elvis di Pontassieve a Palazzo Chigi). Con discrezione – la bolgia dei rottamati mormora e sospira e sempre spera – le più sensibili antenne sono già allertate, pur se, come in certi film di Moretti, il set è sbarrato, innanzi tutto per rispetto a Napolitano.

    Per cominciare, se a tenere il mazzo per il nuovo inquilino del Quirinale sarà Renzi, dovrà abbassare (cioè, alzare) le sue pretese giovanilistiche. Lì servono minimo cinquant’anni, e nessuno dei pischelli della sua segreteria pare adatto o in età. A guardarsi bene intorno, forse il nome più spendibile – donna/novità/prestanza – risulta alla fine quello di Roberta Pinotti, nuova ministra della Difesa. Ben fornita in altezza, benissimo figurerebbe in mezzo ai corazzieri. Il mattutino jogging, con appositi atletici carabinieri di scorta, svecchierebbe di colpo l’immobile solennità dei giardini del Quirinale – mentre in cuffia ascolta, da abitudine, la rassegna stampa. “Per me correre è un’esigenza, è un qualcosa a cui non è davvero possibile rinunciare” – perfetto accredito renziano. C’è l’Agesci, oltre la militanza nel Pci, nel suo passato – che mai guasta. C’è la domenica che somiglia tale e quale a quella del suo premier: “Messa, corsa, pranzo con i miei”. C’è il fenomenale accredito estetico-stilistico su Moda 24 (sito Sole 24 Ore): “Alta, svettante, nei dettagli quasi futuristici rivela un certo amore per il decisionismo che la farà apprezzare come prima donna ministro della Difesa della Repubblica italiana: il suo taglio di capelli sferzante, il tailleur pantaloni neri (poche storie), la silhouette della spilla appuntata sul bavero che sembra un simbolo versione glam di un corpo armato, la scollatura che dà ancora più slancio alla sua figura”.

    Ma certo il momento – e non meno sarà per gli anni a venire – soprattutto richiede attenzione all’economia. Così non minore senso estetico, e forse ancor più uso di mondo, nel caso, potrebbe garantire Lucrezia Reichlin, che tutti davano per ministro del Tesoro (“Perché Lucrezia Reichlin sarebbe il ministro perfetto”, titolava Europa). “Studiosa seria e donna di carattere, pugno di ferro in guanto di velluto”, certifica Michele Salvati – perfetta combinazione per la moral suasion, pratica che all’inquilino del Quirinale è sempre richiesta. “Lucrezia può andare in qualsiasi posto del mondo e trovarsi a casa”, assicura l’economista (di scuola marxista, scrivono) Marco Lippi, che fu suo maestro all’università. Bruxelles e London School of Economics, Corriere della Sera e “Ballarò”, sempre ben figurando davanti alle telecamere, Banca centrale europea e board di Unicredit, Centre for European Policy Research e European Economic Association eccetera – che, sempre con questa fissazione di ben figurare all’estero, siamo a posto. “Non so se ho fatto bene a partire per gli Stati Uniti e non tornare più nel mio paese, per me è stata la risposta al senso di soffocamento che l’Italia mi aveva dato in quegli anni”, ha scritto nella prefazione del libro di sua madre, Luciana Castellina, “La scoperta del mondo”. Secondo molti, adesso, farebbe bene a tornare – ’o Quirinale aspetta a te.

    Ma ci sono anche altri nomi, uomini stavolta – con giusta età, giusto curriculum, auspicata competenza – che di conti sanno, le lingue conoscono, il mondo frequentano. Come Tito Boeri – per primo alla Bocconi ha introdotto un corso interamente in lingua inglese, da immaginarsi che roba con Obama, un affastellare di Banca mondiale e mondiali università, festival dell’Economia di Trento e lavoce.info. “Parlerò solo di calcio” – ha pubblicato un paio di anni fa con il Mulino. Calcio, si capisce, come metafora dell’Italia mesta e sbandata, “si tende a investire poco nei giovani, escludendoli in modo sistematico da posizioni di rilievo”. Figurone con Obama e figurone ai Mondiali di calcio che verranno: per il Brasile di sicuro toccherà al presidente Napolitano, per quelli in Russia nel 2018 (se intanto non si sarà un po’ troppo allargata, ché potrebbero pure svolgersi in Ucraina) ci si può pensare. Ma, economista per economista, per il Quirinale non minori accrediti può vantare Luigi Zingales, che ha avuto la ventura di partecipare alla Leopolda del 2011 – il Big Bang che ha prodotto “il buco nero”, a chiedere ai compagni Fassina e Camusso, di Renzi. Chicago e Mit, Sole 24 Ore ed Espresso, secondo Foreign Policy uno dei cento pensatori più influenti del mondo, con l’unico altro conforto italiano di Mario Draghi (il quale Draghi, si capisce, è un altro che al Quirinale secondo molti potrebbe a ragione aspirare). La lista “Fermare il declino”, certo, non è stato il momento più felice di Zingales – ma del resto lui si è opportunamente fermato al momento giusto, sul bordo dell’altrui cazzeggio.
    Poi, si capisce, non mancano banchieri disponibili sul mercato – sul mercato politico italiano, da qualche anno, di banchieri si registra insolita abbondanza, come le fragole di Terracina a maggio e i meloni invernali a dicembre. E – sarà l’abbuffata, sarà l’esperienza – non che se ne senta in giro gran domanda. Chissà allora se qualcuno farà – o se il diretto interessato farà – un pensierino su Corrado Passera. Non è stata travolgente l’esperienza di ministro nel governo Monti, e il movimento battezzato il mese scorso, “Italia Unica”, per il momento, in attesa della preannunciata “start-up politica”, ha fatto qualche mossa soprattutto sulle pagine dei giornali. Ma per giugno si preannuncia “squadra formalizzata” e organizzazione territoriale – e solo il Cav. sa quanto da penare c’è per simili obiettivi. “Si può, quindi si deve”, dice Passera. “Questo paese è una casa bellissima, però sta crollando”. Ecco che, allora, pure un architetto al vertice delle istituzioni non sarebbe inutile. E se autorevolissimi settantenni come il senatore a vita Renzo Piano e Massimiliano Fuksas sono forse troppo storia per farsi cronaca politica, ci sarebbe da tener d’occhio Stefano Boeri (i fratelli Boeri, in questo frangente politico-istituzionale, appaiono kennedianamente evocativi, i nostri John e Bob), che è stato assessore alla Cultura con Pisapia, e pure lui dirige un apposito festival – di architettura, si capisce, come Tito di economia: il Festarch. Due fratelli, due festival, due possibili presidenti. Se valorizzata, la famiglia sempre valorizza.

    Ma l’Italia, fin sopra al pennone del Quirinale, è l’Italia – “santi, navigatori e poeti…”, artisti insomma. Se il maestro Abbado è da poco eroe compianto, ci sono almeno un paio di eccelsi direttori musicali, poco più che cinquantenni, ma già carichi di glorie e riconoscimenti, che degnamente potrebbero occupare quei grandi saloni. Per primo Antonio Pappano, alla guida dell’orchestra di Santa Cecilia, umili origini, ma creato baronetto dalla regina Elisabetta. Un Sir, di ottimo orecchio, che ha diretto le maggiori orchestre del mondo, sul Colle, che con quello che gli toccherà sentire… A Roma, giusto in rischio di vederlo linguisticamente mutato in “Sor Pappano”, ma è rischio che si può tranquillamente correre. Però è inglese, la Regina non lo molla. Appena più giovane Daniele Gatti – che Sir non è, ma la sua eccelsa figura tra orchestre e grandi teatri l’ha sempre fatta. Sarebbe una gran bella soluzione, ed è certo una bellissima tentazione, quella di eleggere sul Colle – mentre Pompei crolla, mentre per (non) vedere la maestosità del Colosseo senza gladiatori finti e bancarellari invasori bisogna aspettare Obama con tutto il suo Secret Service (tranne gli agenti che aveva dovuto rispedire a casa ciucchi da Amsterdam) appresso. Per non rassegnarsi a sperare solo nel soccorso di un battaglione di marine, una possibile candidatura per la successione a Napolitano potrebbe essere quella dell’architetto Gisella Capponi, che dirige l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro – tra i suoi predecessori Argan, Brandi e Giovanni Urbani. Tutti a dire che il valore primario dell’Italia, i veri tesori, sono le sue opere d’arte, e allora al vertice delle istituzioni un presidente che della loro difesa si occupa (difesa dai vandali, difesa dall’incuria, difesa dai tagli di bilancio) potrebbe trovare generale consenso. Dei due spaesati bronzi di Riace, tanto per cominciare, di sicuro. E siccome l’arte va (andrebbe) d’accordo con il turismo, c’è un imprenditrice napoletana, cavaliere del lavoro, che di turismo ad alto livello si occupa da decenni: Teresa Naldi, presidente del Royal Group Hotels and Resorts. “Sì, ho le sembianze di una manager – ha raccontato a Repubblica nel 2009. Ma resto comunque una mamma. Ho quattro splendidi figli, due per matrimonio. Adesso sono anche nonna. Siamo tutti una famiglia unitissima, che adoro”: da immaginarla sul Colle. Certo, ha confessato in passato: “Per me, il problema è indossare la maschera, essere costretta a quei lunghi scambi di sapore politico. Non mi piacciono, non appartengono al mio temperamento” – ma non serve avviarsi sul crinale spericolato di Yukio Mishima (“Confessioni di una maschera”): la causa è nobile, l’interesse del paese è alto. E poi, prova a trovarlo un resort migliore del Quirinale.

    Neanche uno scrittore c’è mai stato, al Quirinale. Ce ne sarebbero, da candidare. C’è Alessandro Baricco (un altro che, come la Reichlin, era stato per un periodo in odore di ministero: Cultura, of course!), che degnamente sul Colle più alto, e con ben altra classe, reggerebbe il confronto sulle maniche di camicia (camicia bianca, of course number two!) con Renzi. Né l’impresa potrebbe considerarsi particolarmente gravosa, avendo Baricco stesso rimesso brillantemente mano, anni fa, all’“Iliade”, mica al “Giornalino di Gian Burrasca”. E con Baricco, va segnalata la possibile candidatura di Walter Siti, vincitore dello Strega, autore di “Exit strategy” – che giusto al Giornale possono prendere per un libro antiberlusconiano, essendo invece l’èra berlusconiana massimamente esaltata insieme ai muscoli dei palestrati al centro dell’opera letteraria (non meno che dell’opera pratica) di Siti. Neppure le residue forze berlusconiane in Parlamento potranno negare apprezzamento a valutazioni come queste: “Il mago Silvio è ancora il nodo ineludibile, è lui che ha in mano lo switch per passare da un paradiso pieno di diavoli (o diavolesse) a un inferno formicolante di santi” – altro che fare da compare di battesimo insieme a Renzi alle riforme elettorali!, piuttosto è il Cav. tale e quale all’anagramma del suo nome, dallo scrittore svelato: “L’unico boss virile”, figurarsi allora se Berlusconi gli nega il sostegno. Ed essendo pure uno che per pratica e interessi potrebbe dispiacere al cardinale Bagnasco (e magari ad Alfano: a gloria sua) e compiacere un po’ di sinistra, l’intesa per le riforme mirabilmente intorno al nome di Siti si ricomporrebbe. Coppia memorabile alla disputa del Quirinale, sarebbe, quella formata da lui e da Baricco. Coppia che, con fantozziana feroce cronaca lo stesso Siti rappresenta così in una pagina del suo libro, a narrazione di una fiera letteraria, “davanti a Baricco c’è la fila, da me non si ferma nessuno”.

    Infine, due candidature più azzardate – due eroi italici che ancora più degli altri innoverebbero teoria e prassi (e si suppone inni) istituzionali. Intanto, Jovanotti. Da Veltroni, nel suo ormai famosissimo film su Berlinguer omaggiato e sullo schermo elevato – solennemente sta, tra Napolitano e Scalfari e Gorbaciov, unico tra tanti cantanti/attori/scrittori possibili. E quindi, oltre allo scontato apprezzamento all’artista, anche una non trascurabile unzione sentimental-democratica. Ma siccome il momento massima unità della nazione intorno alle sue istituzioni richiede, forse nessuna candidatura meglio risponde a questa esigenza di quella di Fiorello. Non c’è nessuno – da Ignazio La Russa, col fratello Odoacre e il nipote Vercingetorige, insieme a fratelli e sorelle d’Italia tutti, fino a Nichi Vendola – che gli potrebbe negare il suo consenso. Unanimità al primo colpo. Fiorin Fiorello, il presidente è quello… E coi corazzieri, là nel cortile del Quirinale, sai che selfie a raffica, dalla mattina presto: “Dài, che mandiamo la foto alla tua fidanzata… Non ce l’hai? Allora a Baldini. O alla Boldrini… Macché, alla Boschi no… A Matteo, anzi… Così, guarda qui! Selfie act, Matthew!”.