Speciale online - Il buono e il cattivo

La rinascita di Colantuono e l'involuzione di Marchetti

Sandro Bocchio

Oggi Colantuono è a quota sei, un successo di fila dietro all'altro in A. Una serie che ha permesso all'Atalanta di salvarsi con largo anticipo e ha obbligato lui a non cambiare le scarpe delle domenica: per scaramanzia le indossa anche il giorno successivo a una vittoria. Ma è la sua unica concessione alle manie del calcio, perché Colantuono è tutta sostanza, negli atteggiamenti come nel lavoro. Federico Marchetti aveva avuto il momento di gloria nella poco fortuna esperienza in Sud Africa: preso il posto del dolorante Buffon, era però naufragato insieme con la squadra azzurra tutta. Ma era rimasto nel giro dell'Italia. Fino a quando i problemi fisici non avevano colpito anche lui, fino a quando anche alla Lazio avevano cominciato a nutrire qualche dubbio, con promozione sul campo dell'albanese Berisha.

    Molto probabilmente Stefano Colantuono avrà l'impressione di essere salito su una personalissima macchina del tempo. Un salto indietro di una decina di anni, quando Luciano Gaucci lo toglie dal campo per piazzarlo direttamente in panchina: quarto allenatore di stagione per la Sambenedettese, come d'abitudine per l'imprenditore umbro. Sul conto del difensore i dubbi sono parecchi, lui li spazza via con nove vittorie consecutive per chiudere la stagione e arrivare ai playoff promozione in C1, persi contro il Pescara. Oggi Colantuono è a quota sei, un successo di fila dietro all'altro in A. Una serie che ha permesso all'Atalanta di salvarsi con largo anticipo e ha obbligato lui a non cambiare le scarpe delle domenica: per scaramanzia le indossa anche il giorno successivo a una vittoria. Ma è la sua unica concessione alle manie del calcio, perché Colantuono è tutta sostanza, negli atteggiamenti come nel lavoro. Da lui non ci si deve mai aspettare la dichiarazione accomodante, non lo prevede un dna romano geneticamente modificato dal rapporto diretto con la costellazione Gaucci, quando papà Luciano si divertiva a collezionare società da gestire in prima persona oppure da affidare ai figli Riccardo e Alessandro. Colantuono, dopo San Benedetto del Tronto, è passato anche a Catania e a Perugia: impossibile uscire indeboliti da simili esperienze. In provincia ha infine trovato la terra d'elezione, dopo le fatiche con il Palermo e con il Torino. Gli è capitato a Bergamo, in due fasi distinte ma entrambi esaltanti, cominciate sempre con una promozione in A. La prima volta ha preferito lasciare, anche per un rapporto non sempre sereno con il presidente Ivan Ruggeri. Nella seconda ha scoperto un nuovo referente in Antonio Percassi e le cose sono cambiate: "Osserva con equilibrio – ha raccontato in un'intervista ad Avvenire – Parla poco, solo con il diretto interessato, pur con una carica impressionante: l'ideale per un tecnico". L'ideale perché il capo non lo mette in difficoltà, con dichiarazioni bellicose. L'ideale perché, da ex giocatore, Percassi sa che a un allenatore servono serenità e tempo. E a Colantuono lo ha concesso, consapevole che non solo avrebbe risollevato la squadra dalla B, ma le avrebbe dato un'identità, fatta di gioco e dedizione. Quella dedizione servita a conquistare due salvezze consecutive pur in presenza di penalizzazioni dovute ai vari casi scommesse (-2 la scorsa stagione e -6 in quella precedente). Ora che Colantuono e l'Atalanta sono liberi da pressioni, sono come rifioriti. Lo sottolineano le sei vittorie, una classifica che ha condotto a ridosso di quell'Europa frequentata un paio di decenni fa, una squadra che fa riscoprire giocatori bocciati altrove (Denis e Cigarini a Napoli), che ne lancia in Nazionale (l'ottimo Bonaventura), che propone giovani in continuazione. L'ultimo esempio? Giuseppe De Luca, titolare nelle ultime due giornate per una fiducia ripagata con altrettanti gol.

    Ultime generazioni che spingono anche tra i pali, a dimostrazione di quanto il calcio (e chi ne scrive) non siano scienza esatta. Per capirlo basti andare a rileggere le parole di quanti lamentavano un paio di anni fa la fine della scuola italiana dei portieri: dopo Gigi Buffon, il diluvio. Oggi le alternative sono ottime e abbondanti: da Leali a Perin, da Bardi a Scuffet, tutta gente sotto i 22 anni. Tutti in lotta per un posto in Brasile, sempre che Cesare Prandelli non provi a convincere De Sanctis per motivi di spogliatoio. Tutta gente che Federico Marchetti guarderà con malcelata invidia. Lui aveva avuto il momento di gloria nella poco fortuna esperienza in Sud Africa: preso il posto del dolorante Buffon, era però naufragato insieme con la squadra azzurra tutta. Ma era rimasto nel giro dell'Italia. Fino a quando i problemi fisici non avevano colpito anche lui, fino a quando anche alla Lazio avevano cominciato a nutrire qualche dubbio, con promozione sul campo dell'albanese Berisha. Forse Reja aveva nutrito l'ambizione di solleticare la concorrenza tra portieri, per averne due dello stesso livello. L'esperimento è stato però fatale per Marchetti, che ha aumentato in maniera esponenziale la spettacolarità dei propri errori. Prima quelli che avevano contribuito all'eliminazione in Europa League contro i non trascendentali bulgari del Ludogorets, quindi la sinfonia degli orrori visti contro il Parma. Certo, sul secondo pareggio degli emiliani ha contribuito in maniera decisiva Ciani, un difensore di cui ci si domanda tuttora il senso della sua presenza. Ma vedere quel pallone sollevarsi da terra, ricadere con parabola storta e infine infilarsi tra le gambe di Marchetti sapeva tanto del "Portiere!" di fantozziana memoria. E il sorriso del perfido Antonio Cassano era anche il nostro.