Mal di Moviola
Enzo Tortora era innocente, ma frugando bene una piccola colpa gliela si trova. E’ stato lui, quand’era conduttore della “Domenica sportiva”, a inaugurare il longevo rito nazionale della moviola: era il 28 febbraio 1965, e l’occasione era un gol di Rivera. Nasceva, quasi inavvertito, un nuovo registro della conversazione pubblica, che s’innestava su antiche inclinazioni del costume italico ed era destinato a propagarsi ben al di là dei campi di calcio; in esso s’intrecciavano il gusto tutto avvocatesco per la controversia regolamentare, l’attenzione maniacale al dettaglio, ingigantito fino a eclissare il quadro generale, la fissazione perdurante su qualche episodio traumatico, la sete mai appagata di verità e di riparazione, una sconfinata permalosità.
Enzo Tortora era innocente, ma frugando bene una piccola colpa gliela si trova. E’ stato lui, quand’era conduttore della “Domenica sportiva”, a inaugurare il longevo rito nazionale della moviola: era il 28 febbraio 1965, e l’occasione era un gol di Rivera. Nasceva, quasi inavvertito, un nuovo registro della conversazione pubblica, che s’innestava su antiche inclinazioni del costume italico ed era destinato a propagarsi ben al di là dei campi di calcio; in esso s’intrecciavano il gusto tutto avvocatesco per la controversia regolamentare, l’attenzione maniacale al dettaglio, ingigantito fino a eclissare il quadro generale, la fissazione perdurante su qualche episodio traumatico, la sete mai appagata di verità e di riparazione, una sconfinata permalosità. Qualche anno dopo, sulla Nazione, Tortora inneggiava alla “libertà di moviola” – le sue origini, diceva, sono nella narrazione al rallentatore di Proust – auspicando che l’analisi domenicale delle partite fosse un luogo di educazione intellettuale delle tifoserie. I decenni successivi gli avrebbero dato ragione.
Avendo io gettato le mie passioni di tifoso sulla pira, come una vedova indiana, dopo l’addio al calcio di Platini, sono forse il meno titolato a metaforeggiare in materia. Ma solo un distratto non si accorgerebbe del filo invisibile che lega assieme, quanto allo stile della discussione pubblica, episodi per il resto incommensurabili come il gol di Turone, l’agguato di via Fani, il rigore di Iuliano su Ronaldo, l’uccisione di Carlo Giuliani, la strage di Via D’Amelio. E’ la moviola, simbolo di un modo tutto distorto di accesso alla storia recente, che trova il suo complemento ideale, o meglio il suo alibi ideologico, nella diffusa superstizione secondo cui finché non si fa piena luce sul passato non si può andare avanti. Senza queste premesse si faticherebbe a capire l’ennesima commissione d’inchiesta sul caso Moro o la lenta trasformazione della procura di Palermo in un dipartimento di archeologia giudiziaria.
Ora rispunta la vicenda dei due misteriosi motociclisti del commando che rapì Aldo Moro, e di nuovo si passano al microscopio i pochi, concitati minuti dell’azione brigatista, dilatandoli fino a farne una “Recherche” disseminata di dettagli rivelatori: da quale paese oltre cortina veniva la pistola, che tipo di colpi sparava, e per conto di chi. La controversia è destinata a tenere banco fino alla prossima soffiata postuma o anonima. Opportunamente si è riaffacciato il regista Renzo Martinelli, autore dieci anni fa di un thrillerone cospiratorio, “Piazza delle Cinque Lune”, dove uno dei due ex brigatisti che era a bordo della Honda consegnava un vecchio Super8 amatoriale dell’agguato di via Fani a un magistrato in pensione, il quale lo percorreva fotogramma per fotogramma svelando la grande trama atlantica. A una prima occhiata si poteva pensare a Kennedy, Zapruder e “JFK” di Oliver Stone, ma fidatevi, era il moviolone di Biscardi. E qualche traccia mnestica del “Processo del lunedì” è affiorata anche, l’anno scorso, in tutto quello scrutare tra i caotici filmati dopo l’attentato a Borsellino in cerca di avvistamenti dell’agenda rossa o del parasole rosso.
Non è necessaria la presenza materiale di un video per mettere in moto la mentalità moviolistica, che si regge su uno schema semplice e a suo modo rassicurante: c’è stato un incidente che ha deviato il corso della partita, o del campionato, o della storia nazionale; a esso occorre tornare, con luttuosa minuzia, per individuare i falli, le simulazioni, gli spintoni assestati in segreto, le torbide complicità dell’arbitro e dei guardalinee. E però nella moviola, come nel Parsifal, il tempo diventa spazio: è dilatato fino all’immobilità, e in questo “nunc stans” non c’è posto per il caso e per il caos, perché in un mondo al rallentatore gli uomini hanno tutto l’agio per tramare, pensare e ripensare, ponderare gli effetti di ogni azione, portare a buon esito piani intricatissimi. E’ tutta qui l’illusione ottico-storica.
Disgraziatamente si vive in tempo reale, e per lo più in fuorigioco. Non resta che attendere un Nietzsche che voglia metter mano a qualche considerazione inattuale sull’utilità e il danno della moviola.
Il Foglio sportivo - in corpore sano