Da Letta a Renzi, gli investitori esteri si galvanizzano ma restano esigenti

Alberto Brambilla

Le intenzioni riformatrici del governo guidato da Matteo Renzi hanno contribuito a migliorare la percezione dell'Italia agli occhi degli investitori esteri che tuttavia restano guardighi in quanto consapevoli della enorme mole di drastiche riforme da realizzare per rendere il paese realmente competitivo e quindi attraente. Questa riflessione emerge da un sondaggio condotto da Ispo per conto dell'Associazione italiana banche estere (Aibe) tra ventiquattro operatori esteri tra cui fondi d'investimento privati, fondi sovrani, Camere di commercio, banche d'affari e anche opinion maker (direttori di giornali). Il risultato dell'indagine pubblicata ieri si riassume nell'Aibe Index: l'Italia risulta un paese “non attrattivo” con un punteggio di 35 punti su 100. 

    Le intenzioni riformatrici del governo guidato da Matteo Renzi hanno contribuito a migliorare la percezione dell'Italia agli occhi degli investitori esteri che tuttavia restano guardighi in quanto consapevoli della enorme mole di drastiche riforme da realizzare per rendere il paese realmente competitivo e quindi attraente. Questa riflessione emerge da un sondaggio condotto da Ispo per conto dell'Associazione italiana banche estere (Aibe) tra ventiquattro operatori esteri tra cui fondi d'investimento privati, fondi sovrani, Camere di commercio, banche d'affari e anche opinion maker (direttori di giornali). Il risultato dell'indagine pubblicata ieri si riassume nell'Aibe Index: l'Italia risulta un paese “non attrattivo” con un punteggio di 35 punti su 100.  Meglio di Spagna e Francia – notevole viste le affinità spesso sottolineate (in negativo) tra paesi mediterranei dell'Eurozona – ma dietro a Stati Uniti, Germania, Cina, Gran Bretagna, India e Brasile. Dalle risposte al questionario emergono poi tutte le criticità ben note dell'asfittico quanto ingolfato sistema economico nazionale. Tra le “priorità di intervento” – in ordine di urgenza in base alla ridondanza con cui si ripetono – ci sono l'eccessivo carico burocratico, la scarsa flessibilità del mercato del lavoro, l'incertezza del quadro normativo, i tempi lunghi della giustizia civile, l'eccessivo carico fiscale e il costo del lavoro, mal distribuito tra quota destinata allo stato e quota destinata alla busta paga del lavoratore. “Tutto è noto – dice uno degli intervistati sotto anonimato – sappiamo bene cosa dev'essere fatto ma il sistema corrente blocca un'efficiente realizzazione”. L'impressione più diffusa, nella maggioranza del campione, è che non esista una strategia politica già definita e finalizzata a rendere competitivo il paese. Nei rari casi in cui essa viene percepita è considerata “inefficace”. E' però interessante notare che l'opinione di molti è cambiata da quando Matteo Renzi si è sostituito a Enrico Letta lo scorso 14 febbraio. All'epoca il sondaggio Aibe iniziava ad arrivare sulle scrivanie degli operatori e mano a mano che questo “young man in a hurry” (un ragazzo che va di fretta), come l'ha definito il settimanale britannico Economist, ha cominciato ad annunciare riforme su riforme, il tono delle risposte è cambiato: “I primi contributi – si legge nelle slide Aibe – appaiono più disillusi e controllati. Più assertivi e spronanti all'azione, gli ultimi”. Un cambiamento, per la verità, lo si è già notato in Borsa. In meno di un mese sono affluiti capitali per diverse centinaia di milioni attraverso grossi fondi, soprattutto americani (Black Rock, Vanguard, Invesco, Fidelity) che hanno investito in società quotate, soprattutto nei titoli bancari, preponderanti nel nostro listino. Un'apertura di credito nei confronti del riformatore Renzi da colmare, forse, con il “sangue” delle riforme più difficili  mai riuscite ai governi che si sono susseguiti negli ultimi vent'anni. Infatti l'afflusso di capitali è da ricondurre in buona sostanza ai prezzi scontati delle azioni e, in parte, alle promesse di parziale cessione di quote di alcune società a controllo statale (Eni, Enel, Poste). La quota di investimenti diretti esteri, un indice per capire se un paese piace o no, infatti è tuttora bassa. Senza contare la differenza sostanziale tra il profilo degli investitori e dei compratori che si affacciano in Italia. I primi scommettono sulla crescita finanziaria, i secondi invece comprano e aggrediscono la proprietà. Lo si è visto con alcune griffe italiane da Krizia, comprata dai cinesi, a Loro Piana, Bulgari e Gucci, finite ai francesi. E l'identità degli investitori – compratori o finanziatori – dipende dal sistema economico. Tant'è che il capoeconomista di Goldman Sachs, Francesco Garzarelli, persona molto ascoltata nella comunità finanziaria, ha detto al Corriere della Sera: “Se alla vendita o al maggiore ingresso di capitali segue la trasformazione dell'ecosistema politico con un efficientamento della gestione pubblica, miglioramento delle infrastrutture e dei servizi, della giustizia civile, allora l'Italia non avrebbe molto da invidiare ad altri paesi come luogo per fare affari e produzione”.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.