Pennsylvania Avenue
Gabbati e ingabbiati
Come anticipato su queste colonne, nei giorni scorsi il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un'intesa preliminare per un programma di assistenza all'Ucraina da 16 miliardi di dollari circa. Sono due le ragioni con cui il direttore generale, Christine Lagarde, spiegherà questa decisione ai ministri delle Finanze che si riuniranno a Washington la prossima settimana. Innanzitutto, l'esitazione a intervenire riscontrata in Stati Uniti e Unione europea con risorse adeguate nell'attuale situazione d'incertezza. In altre parole, Washington e Bruxelles intendono fare la loro parte, anche finanziaria, ma preferiscono mandare in avanscoperta Lagarde a farsi carico dei rischi economici che la situazione presenta.
Come anticipato su queste colonne, nei giorni scorsi il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un'intesa preliminare per un programma di assistenza all'Ucraina da 16 miliardi di dollari circa. Sono due le ragioni con cui il direttore generale, Christine Lagarde, spiegherà questa decisione ai ministri delle Finanze che si riuniranno a Washington la prossima settimana. Innanzitutto, l'esitazione a intervenire riscontrata in Stati Uniti e Unione europea con risorse adeguate nell'attuale situazione d'incertezza. In altre parole, Washington e Bruxelles intendono fare la loro parte, anche finanziaria, ma preferiscono mandare in avanscoperta Lagarde a farsi carico dei rischi economici che la situazione presenta. Meglio affiancarsi al Fmi tra un anno quando i principali focolai d'incertezza saranno, si auspica, domati e il nuovo governo avrà dato prova del proprio impeto riformista. Lagarde, poi, accrediterà il sostanzioso programma assistenziale enfatizzandone la presunta capacità di estrarre misure di politica economica “non reversibili”, che nel gergo del Fmi implica una condizionalità stringente che va soddisfatta all'inizio del programma. In altre parole, dirà Lagarde, se avessimo optato per un modesto finanziamento “ponte”, in attesa dei prossimi sviluppi, ci sarebbe stato impossibile esigere la liberalizzazione del regime del cambio, l'avvio della riforma dei sussidi al settore energetico, e la stabilizzazione del deficit fiscale.
Su un aspetto, tuttavia, la Lagarde preferirà glissare: la ristrutturazione del debito ucraino. Applicando il quadro regolamentare che l'istituzione multilaterale si è data in materia, è obiettivamente difficile invocarne la necessità o l'urgenza. Certo, le riserve ufficiali sono state drenate nell'impresa vana di arginare la svalutazione del cambio, ma il debito estero è solo un terzo del pil e quello pubblico nel suo complesso rappresenta poco più del 40 per cento: non abbastanza per una valutazione negativa della sua sostenibilità, a meno di assumere una svalutazione significativa e protratta nel tempo del tasso di cambio. In sostanza, l'unico appiglio per il Fmi sarebbe quello di prospettare l'impossibilità per il Tesoro ucraino di rifinanziarsi a costi ragionevoli. Tuttavia vi sono due buone ragioni per cui il Fmi ha escluso la ristrutturazione del debito ucraino. Nessuna delle due motivazioni ha a che fare con l'economia ucraina, ma piuttosto con Mosca e con Washington. La Russia è uno dei maggiori creditori del paese e vanta notevoli crediti anche nei confronti dell'impresa energetica di stato, perciò interpreterebbe come una provocazione inaccettabile qualsiasi tentativo di ridiscuterne i termini in sede internazionale. Non solo. Un noto intermediario finanziario americano, durante l'escalation della crisi diplomatica, ha accumulato titoli del debito pubblico per circa un quinto dello stock complessivo, scommettendo che la comunità internazionale sarebbe intervenuta massicciamente a puntellare il traballante stato ucraino, come sta accadendo. Ne consegue che, per ragioni diverse, qualsiasi tentativo, pur cooperativo, di porre sul tavolo la questione del debito è destinato a fallire sul nascere. Eppure, risulta difficile comprendere perché la comunità internazionale, attraverso il Fmi, debba finanziare la restituzione per 3 miliardi di dollari di un'emissione obbligazionaria che l'Amministrazione Putin ha erogato non molto tempo fa all'allora presidente Yanukovich nel disperato tentativo di prolungarne la vita politica. Del resto, gli Stati Uniti di George W. Bush avevano appoggiato in pieno la ristrutturazione del debito del regime di Saddam Hussein per evitare che la nuova Amministrazione irachena fosse gravata dagli oneri assunti dal dittatore. Per quanto sia controversa la questione del debito ucraino, la sua importanza quasi scompare se si pensa che l'ex dittatore Yanukovich avrebbe sottratto quasi 100 miliardi di dollari dalle tasche del popolo ucraino mettendoli al sicuro su conti bancari in altri paesi. Un ammontare triplo rispetto al fabbisogno finanziario che la nuova Amministrazione ucraina ha chiesto alla comunità internazionale per i prossimi due anni. Se fosse possibile restituire il maltolto, Kiev otterrebbe tre volte quello che riceverà dall'estero, ma senza contrarre alcun debito. La storia recente non lascia ben sperare. Nel caso dell'ex dittatore nigeriano Sani Abacha, a 16 anni dalla sua morte, avvenuta quando era ancora al potere nel 1998, è rientrato nel paese africano solo la metà del maltolto. La Financial Action Task Force (Fatf), l'organizzazione intergovernativa che amministra il regime internazionale dell'antiriciclaggio, oggi guidata da un consigliere del Cremlino, non è in grado di garantire la trazione necessaria per una stretta osservanza degli standard internazionali in materia.
Forse perché, sotto la spinta degli Stati Uniti all'indomani dell'11 settembre, il regime internazionale dell'antiriciclaggio si è concentrato sulla lotta al finanziamento del terrorismo internazionale, e vi è un sostanziale vuoto in un'area importante, anche se sottovalutata, della global governance, che la crisi ucraina contribuirà a mettere ulteriormente in evidenza. Una cosa è certa: tra i paesi membri della Fatf ci sono quelli in cui verranno alla luce, un poco alla volta, i depositi accumulati dall'ex dittatore ucraino in tanti anni di malgoverno.
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