Come tosare i parrucconi

Claudio Cerasa

Tic tac. Secondo lo spietato timer attivato un mese fa da Matteo Renzi, i mesi di aprile e di maggio coincideranno con la fase politica più delicata per il governo Leopolda. Da questo punto di vista, quelle che arriveranno saranno settimane chiave per capire non solo che fine farà la legge elettorale (Renzi vuole che sia approvata entro il 25 maggio), non solo per capire se davvero il governo riuscirà a far approvare in Parlamento il ddl costituzionale di riforma del Senato (Renzi vuole che sia approvato in prima lettura entro il 25 maggio) ma anche per capire come si muoverà Renzi su altri terreni significativi. Lavoro. Giustizia. Coperture. Nomine. Fiscal Compact. Def. Tasse. Semestre Europeo.

Leggi anche Rizzini Storia di Nomfup, Alastair Campbell della Rottamazione

    Tic tac. Secondo lo spietato timer attivato un mese fa da Matteo Renzi, i mesi di aprile e di maggio coincideranno con la fase politica più delicata per il governo Leopolda. Da questo punto di vista, quelle che arriveranno saranno settimane chiave per capire non solo che fine farà la legge elettorale (Renzi vuole che sia approvata entro il 25 maggio), non solo per capire se davvero il governo riuscirà a far approvare in Parlamento il ddl costituzionale di riforma del Senato (Renzi vuole che sia approvato in prima lettura entro il 25 maggio) ma anche per capire come si muoverà Renzi su altri terreni significativi. Lavoro. Giustizia. Coperture. Nomine. Fiscal Compact. Def. Tasse. Semestre Europeo. Partito. Abbiamo indagato per alcuni giorni sul taccuino di Renzi, e sulle idee del presidente del Consiglio per sfidare i famosi “signori della conservazione”, e abbiamo appuntato in questa pagina i dossier sui quali si misurerà la capacità del presidente del Consiglio di mantenere le promesse e presentarsi alle Europee forte di un buon consenso popolare. Sono cinque punti. Cominciano dal primo. Dall’argomento centrale. Da quello affrontato più a lungo ieri durante l’incontro con David Cameron. Il lavoro.

    Taccuino lavoro. I dati sulla disoccupazione arrivati ieri dall’Istat – tasso di disoccupazione al 13 per cento con un aumento dell’1,1 per cento rispetto al 2013 – hanno costretto il presidente del Consiglio Matteo Renzi a trasformare il bilaterale con il premier inglese David Cameron in un tour di presentazione della riforma del lavoro, con cui il capo del governo italiano proverà a realizzare la sua promessa: portare il tasso di disoccupazione sotto il 10 per cento entro la fine della legislatura. Questa settimana arriveranno in Parlamento i sei articoli del ddl Delega sul lavoro e l’intenzione del governo, in questo campo, è far perno su alcuni punti precisi: introduzione del contratto unico a tutele crescenti e riforma degli ammortizzatori sociali. Renzi è stato criticato dal fronte sindacale del suo partito per aver reso eccessivamente convenienti rispetto al passato i contratti a termini e quelli di apprendistato, e la sfida del presidente del Consiglio sarà trovare una nuova formula capace di non tradire né l’impianto del ddl né il fronte della minoranza del Pd (che nei gruppi parlamentari, come è noto, pesa ancora molto, e che sul terreno del lavoro, nonostante le molte divisioni interne tra giovani turchi e cuperliani, si muove in modo compatto). Come si fa? Le strade sono due. La prima è quella di affiancare alla riforma dei contratti a termine una riforma parallela legata alle assunzioni a tempo indeterminato. L’idea è questa: costruire uno sgravio fiscale del 15 per cento sui contratti a tempo indeterminato per incentivare le imprese ad assumere dopo i tre anni i lavoratori a termine. Lo sgravio del 15 per cento dovrebbe essere distribuito così: 9 per cento di risparmio per le imprese, 6 per cento per i lavoratori in busta paga (a Palazzo Chigi qualcuno ha suggerito a Renzi di rivedere anche il meccanismo dei licenziamenti per ragioni economiche, per introdurre, come capita nel resto d’Europa, solo l’indennizzo e non più il reintegro in caso di ricorso vinto dal licenziato, ma la proposta al momento non convince il presidente del Consiglio). La seconda idea è invece diversa, è più radicale e rappresenta allo stesso tempo sia la linea della Cgil sia quella più antica di Renzi: abolizione quasi totale dei contratti a tempo determinato e istituzione di un unico contratto a tempo indeterminato con protezione crescenti (è la vecchia linea Ichino, diventata oggi incredibilmente anche la linea Camusso). Sul secondo fronte, invece, sul fronte degli ammortizzatori sociali, a Palazzo Chigi c’è una doppia tentazione. Non solo, come già annunciato da Renzi, iniziare un graduale processo di rottamazione della cassa integrazione in deroga ma anche andare a infilare il bisturi in alcuni luoghi che rappresentano bene anche l’immagine del settore lavorativo drogato dagli aiuti statali. Uno su tutti: il Sulcis. Durante la campagna per le primarie, il presidente del Consiglio ha promesso che se sarebbe stato eletto avrebbe fatto di tutto per evitare che lo stato fosse impegnato nel finanziamento (60 milioni di euro all’anno) di una miniera non più così utile come ai tempi di Mussolini. Il dossier è all’attenzione del governo. Ma vista la delicatezza del tema, e vista l’importanza di avere sondaggi a prova di Grillo, sarà difficile che Renzi affronterà l’argomento Sulcis prima delle Europee. Ma chissà.

    Taccuino giustizia. Sempre dopo le Europee, ovvero in una fase in cui il presidente del Consiglio avrà la possibilità di agire anche mettendo in agenda alcune riforme tanto necessarie quanto impopolari (finora, il premier è sempre stato molto attento a non andare contro i sondaggi), il taccuino di Renzi segna un’altra riforma chiave: quella della giustizia. Il Rottamatore ha promesso che entro giugno verrà presentato un provvedimento con cui verrà rivisto sia il processo civile sia quello penale e su questo terreno Renzi sa che la resistenza che arriverà da parte del partito dei parrucconi, dei sacerdoti della Costituzione, degli ayatollah del diritto sarà persino più forte rispetto a quella registrata in questi giorni di fronte al disegno di legge costituzionale di riforma del Senato approvato lunedì in Consiglio dei ministri. Il governo ha scelto anche per questo di affrontare il tema dopo le elezioni di maggio e al momento sul tavolo del ministro della Giustizia ci sono alcuni punti chiave sui quali lavorerà Andrea Orlando. Primo: una razionalizzazione delle circoscrizioni giudiziarie. Secondo: una ridefinizione delle norme che regolano l’obbligatorietà dell’azione penale. Terzo: una revisione del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura che sia in grado di diluire il peso delle correnti della magistratura. Quarto: revisione dell’efficacia delle azioni disciplinari. Quinto (e più delicato): progressiva distinzione dei ruoli tra magistrati dell’accusa e giudici della magistratura. La partita è complicata e piena di insidie e Renzi sa che nessun presidente del Consiglio è sopravvissuto politicamente al tentativo di riformare la giustizia penale. I punti sui quali si sta ragionando a largo Arenula sono però questi. Ovviamente trovano d’accordo il nuovo centrodestra di Alfano. E nelle prossime settimane, quando verrà scelto il responsabile giustizia del Pd che prenderà il posto (così sembra) di Alessia Morani, il ministro della Giustizia comincerà ad avviare le pratiche per portare in Consiglio dei ministri la riforma.

    Taccuino nomine. Il prossimo 13 aprile, Palazzo Chigi inaugurerà il valzer sulle nomine delle società controllate dallo stato (si tratta di 600 posti). E nel giro di poche settimane si conosceranno i destini dei vertici dei gruppi più importanti: Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste. Da qualche settimana, a Palazzo Chigi è stata creata una cabina di regia formata dai sottosegretari Luca Lotti e Graziano Delrio e dal vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini per studiare i profili giusti a cui affidare gli incarichi più importanti. Decisioni certe ancora non ce ne sono ma alcuni nomi sui quali Matteo Renzi intende puntare sì. Tre nomi su tutti. Il primo è quello di Francesco Caio, già amministratore delegato di Avio (società specializzata nel settore aeronautico e spaziale), già amministratore delegato di Olivetti, già numero uno di Cable & Wireless (secondo gruppo di telecomunicazioni britannico), voluto nel giugno 2013 da Enrico Letta come supercommissario dell’Agenda Digitale Italiana; e oggi il suo curriculum viene considerato spendibile dal presidente del Consiglio sia per guidare le Poste, al posto di Massimo Sarmi (che potrebbe diventare presidente lasciando così libero il ruolo di amministratore delegato), sia per guidare Finmeccanica (prendendo in questo caso il ruolo di amministratore delegato al posto di Alessandro Pansa). Il secondo nome è quello di Francesco Starace, ex responsabile dell’area di Business Power di Enel, oggi amministratore delegato di Enel Green Power, a cui Renzi sembra intenzionato affidare il ruolo di nuovo ad di Enel, al posto di Fulvio Conti. Il terzo nome, più conosciuto, è quello di Vittorio [**Video_box_2**]Colao, attuale numero uno di Vodafone, a cui Renzi ha chiesto di prendere il posto di Paolo Scaroni alla guida dell’Eni. Colao sembra tentato ma l’unico problema, se così si può dire, è l’aspetto economico: in Eni, dove Scaroni guadagna 6,4 milioni di euro all’anno, il capo di Vodafone avrebbe uno stipendio più o meno tre volte inferiore rispetto a quello attuale. Dovesse rifiutare Colao, Renzi non ha ancora individuato un successore di Scaroni, e in caso di no del presidente della Vodafone non è escluso che l’attuale amministratore delegato di Eni possa restare al suo posto. Accanto alle grandi nomine, Palazzo Chigi sta per ufficializzare anche altre nomine meno importanti ma comunque significative. Riguardano il personale della presidenza del Consiglio. Nella squadra del premier entreranno presto a far parte due donne e un uomo: Erasmo D’Angelis, ex sottosegretario ai Trasporti del governo Letta; Simonetta Giordani, ex sottosegretario alla Cultura del governo Letta; Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze, destinata probabilmente al Dagl (Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi).

    Taccuino grana. Matteo Renzi fa finta di nulla e prova a nascondere pubblicamente l’argomento sotto il tappeto di Palazzo Chigi. Ma nonostante la grande sicurezza mostrata in queste ore rispetto ai dossier di politica economica il presidente del Consiglio ha una preoccupazione precisa che si traduce con due paroline magiche: Fiscal compact. Venerdì sera, durante la sua lunga intervista su la7 da Enrico Mentana, il capo del governo ha affrontato il tema del patto di bilancio europeo senza dare però una risposta definitiva sul punto. E il punto è questo: dall’anno prossimo l’Italia dovrà ridurre di un ventesimo la parte del rapporto debito pubblico/pil che supera il 60 per cento. Il che si traduce (a parametri di debito, Pil e inflazione invariati) in una manovra da oltre 50 miliardi di euro l’anno (miliardi, non milioni). Una cifra che, con tutta la buona volontà del mondo, non sarà facile da trovare. Cosa fare? Un piano esiste e anche se Renzi non lo può ammettere è un piano che il presidente del Consiglio ha affidato al suo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che già oggi durante il consiglio Ecofin istruirà le pratiche per arrivare a un successo su questo terreno. Si tratta di questo: Renzi non intende “rinegoziare il Fiscal Compact” ma intende muoversi all’interno del perimetro fissato dalla legge per dimostrare che le condizioni economiche non permettono di ridurre il debito della cifra richiesta dal trattato e per arrivare a un risultato preciso: rendere il trattato flessibile, spalmare nel tempo il meccanismo di rientro e riuscire a dimezzare i miliardi di euro da trovare dal prossimo anno (obiettivo numero uno: ritardare l’entrata in vigore del Fiscal Compact; obiettivo numero due: passare dai 50 miliardi ai 20 miliardi nel 2014). Il piano è ancora coperto ma il presidente del Consiglio ha deciso che sarà questo il cuore del suo semestre europeo (insieme con il rafforzamento della Banca di investimento europea, il cui fondo per le piccole e medie imprese Renzi vorrebbe ampliare passando da 45 a 60 miliardi l’anno e sbloccando un programma addizionale da 50 a 100 miliardi l’anno). Un obiettivo, quello del Fiscal Compact, che ovviamente non riguarda solo l’Italia ma riguarda tutti i paesi che, come l’Italia, dal prossimo anno dovranno fare i conti con quella parolina magica. Ragionamento di Renzi: quale migliore terreno esiste del Fiscal Compact da rendere più flessibile per esplicitare il senso della nostra battaglia contro l’austerità?

    Taccuino Unità. Oltre alla spending review di governo c’è anche un’altra spending review significativa che riguarda il partito di Renzi e che nelle prossime settimane sarà destinata a far discutere la dirigenza del Pd. Nell’ambito dei tagli alla spesa previsti dal Partito democratico (in arrivo i risultati della due diligence sui conti del Pd) un capitolo importante con il quale il tesoriere del partito si sta trovando a fare i conti è quello relativo allo storico giornale della sinistra, ovvero l’Unità. Le novità sono due. La prima: alcuni soci, oltre a essere intenzionati a diluire la loro partecipazione, si stanno muovendo (in area lombarda) per trovare un nuovo azionista che potrebbe rilevare un cospicuo pacchetto del giornale. La seconda: il Pd, nonostante l’Unità sia formalmente il giornale dei Ds, ha un vincolo di circa 2 milioni di euro all’anno con il quotidiano (vincolo legato a una serie di abbonamenti e di acquisti diretti di copie del cartaceo) e dal prossimo anno questi milioni dovrebbero essere azzerati. L’intenzione del Pd non è quello di abbandonare al suo destino il giornale ma di promuovere una transizione verso un nuovo corso editoriale. Oggi pomeriggio si incontreranno gli azionisti – Matteo Fago, Gunther reform holding, Partecipazioni editoriali integrate srl, Monteverdi srl, Soped, Renato Soru, Chiara srl, Eventi Italia srl – per discutere il futuro della Nie, la società che edita il quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924, e alcuni soci si stanno muovendo, triangolando con il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, per impostare un piano di ristrutturazione del giornale. I prossimi mesi saranno decisivi. E a occhio e croce non solo per l’Unità.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.