Le buone ragioni della guerra di Ezio Mauro fuori e dentro Rep. (stessi rischi di Renzi)

Sergio Soave

Davvero imbarazzante la performance di Ezio Mauro ieri sera da Lilli Gruber. Certo, non deve essere comoda la posizione da direttore del quotidiano la Repubblica”, scriveva ieri il Fatto quotidiano. Cosa mai aveva combinato, Ezio Mauro? Aveva parlato di Matteo Renzi, della sua accelerazione sulle riforme, in questi termini: bene la “riduzione del numero dei parlamentari”, bene affrontare “il bicameralismo troppo perfetto” che “è una delle ragioni della perdita di efficacia della nostra democrazia”, “credo che sia una riforma positiva, naturalmente va fatta con equilibrio”.

    Davvero imbarazzante la performance di Ezio Mauro ieri sera da Lilli Gruber. Certo, non deve essere comoda la posizione da direttore del quotidiano la Repubblica”, scriveva ieri il Fatto quotidiano. Cosa mai aveva combinato, Ezio Mauro? Aveva parlato di Matteo Renzi, della sua accelerazione sulle riforme, in questi termini: bene la “riduzione del numero dei parlamentari”, bene affrontare “il bicameralismo troppo perfetto” che “è una delle ragioni della perdita di efficacia della nostra democrazia”, “credo che sia una riforma positiva, naturalmente va fatta con equilibrio”. Un plauso chiaro a Renzi, accompagnato da commenti non equivocabili di dissenso nei confronti di chi, specie tra i commentatori storici di Repubblica, come Gustavo Zagrebelsky, paventano “la svolta autoritaria” e si ergono a guardiani della conservazione: “Non credo ci sia rischio di una svolta autoritaria”, “credo che la maggioranza ci sarà… il Parlamento si renda conto che siamo davanti a una domanda cruciale: si può ancora cambiare l’Italia?”. E ancora, quasi a smentire la cupezza delle sue stesse grandi firme: “Non si può fare un giornale senza ottimismo”. Questo aveva fatto, ed è bastato a far venire a galla un conflitto profondo nella sinistra.

    La convergenza tra la traiettoria demagogica di Beppe Grillo e quella sedicente “riflessiva” dei vari parrucconi alla Zagrebelsky rappresenta, sul piano della battaglia delle idee (o, più modestamente, su quello delle convergenze tra gruppi e gruppetti), una novità di rilievo. Si ripresenta, in forma più insidiosa, lo schema che si era visto quando fu avanzata dal M5s la candidatura al Quirinale di Stefano Rodotà. La manovra allora fallì, ma fu uno degli ingredienti che condussero alla disfatta il tentativo di Pier Luigi Bersani, e comunque pose le basi per una intesa tra un ambiente culturale che ha fatto della conservazione della Carta costituzionale l’asse di una polemica antiriformatrice e un movimento che sembrava interessato a cambiare tutto, ma che in sostanza ha come orizzonte concreto la battaglia per evitare che altri producano qualche cambiamento significativo.

    Naturalmente questa novità nello schieramento delle forze in campo provoca tensione soprattutto nella sinistra. Il presidente del Senato ha creduto che si fosse aperto uno spazio per esercitare una pressione su Renzi che lo costringesse ad aprire una defatigante trattativa sulle riforme istituzionali, ma anche questo affondo, parallelo ma indipendente da quello dei parrucconi, è stato respinto al mittente dal premier e segretario del Partito democratico. In termini sostanziali la battaglia vera concerne il controllo dei gruppi parlamentari del Pd da parte della segreteria, che si presenta assai arduo. Ma c’è poi dell’altro.
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    Un elemento non certo secondario di questo confronto cruciale consiste proprio nell’appoggio che i giornali di riferimento dell’area di sinistra esprimono per il riformismo renziano oppure per le denunce di tendenziale autoritarismo che vengono dalla convergenza tra Grillo e i parrucconi. E’ naturale che sia il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari il fulcro su cui si scaricano più intensamente queste tensioni, visto che la Repubblica, è anche il giornale su cui appaiono abitualmente le principali firme dell’appello antiriformista, che però ha dovuto cercare ospitalità sul Fatto quotidiano. Ma la presa di posizione esplicitata da Mauro da Lilli Gruber (e in altre occasioni, compreso l’editoriale di ieri sul populismo) sta facendo esplodere la contraddizione dentro a Repubblica. E così proprio dal Fatto viene la polemica più aspra nei confronti di Mauro, considerato poco meno che un traditore perché invece di seguire le indicazioni delle sue “grandi firme” ormai emigrate in area grillina (o in quella delle liste estremistiche antieuro), esprime un pur prudente apprezzamento per il riformismo “di nuovo conio” di Matteo Renzi.
    Su un punto i commentatori del Fatto hanno ragione: la posizione di Mauro è diventata molto scomoda.

    Finché le critiche a Renzi restavano distinte, si poteva trattarle separatamente, accettando magari qualche osservazione di merito pur mantenendo il sostanziale appoggio al premier. Ora che si è saldato il fronte, bisogna prendere partito, stare da una parte o dall’altra, in una situazione complessa in cui molte suggestioni e molte vicinanze finiscono con l’intrecciarsi in modo inestricabile.
    Mauro cerca di divincolarsi dalla coazione a ripetere l’opzione antiriformista espressa prima contro Bettino Craxi e poi contro Silvio Berlusconi, e per farlo si inventa una presunta qualità nuova e diversa di questo tentativo di riforma istituzionale rispetto a quelle precedenti. Nel merito non ha molti argomenti: i suoi oppositori non fanno fatica a dimostrare che le riforme, peraltro concordate con Berlusconi, sono all’incirca le stesse che il centrodestra portò all’approvazione parlamentare ma che poi furono cassate da uno sciagurato referendum.

    In realtà quello che è cambiato è il clima esterno, la consapevolezza diffusa che è urgente riformare istituzioni paralizzate, senza stare a discutere mentre la casa brucia. Di questo dato di fondo dell’opinione pubblica di massa, trascurato o negato nei circoli di intellettuali tradizionalmente legati al suo giornale, Mauro ha invece piena ed esplicita consapevolezza, il che gli dà la forza di sostenere una posizione difficile con la testardaggine di un montanaro di Dronero, paesino del cuneese reso celebre dal discorso più riformista pronunciato da Giovanni Giolitti. Mauro, con questa scelta, gioca una partita decisiva, quella che si può concludere con la piena assunzione della direzione anche politica del suo giornale, finora largamente condivisa, oppure con una sconfitta bruciante. In sostanza si trova nella stessa condizione di Renzi, con un ruolo formale di direzione che deve però trasformarsi in realtà effettiva attraverso una specie di “presa del potere”.