Contro il piagnisteo conservatore

Stefano Cingolani

E’ possibile gettare uno sguardo lungo sulla disoccupazione o tutto deve sempre risolversi tra piagnistei, catastrofismi e pregiudizi? Prendiamo la gaffe del Corriere della Sera che ha titolato: “Tanti disoccupati come nel 1977”. Il giornale ha ammesso l’errore, ma per la verità è da matita rossa, non blu. In quel 1977 il tasso di senza lavoro è stato solo del 6,4 per cento meno della metà rispetto al dato odierno (13 per cento), però proprio allora è cominciata l’inversione di tendenza. Lo choc petrolifero, l’aumento dei salari reali (causa ed effetto dell’inflazione attraverso la scala mobile), la crisi strutturale della grande impresa, hanno chiuso in un cassetto il sogno della piena occupazione.

    E’ possibile gettare uno sguardo lungo sulla disoccupazione o tutto deve sempre risolversi tra piagnistei, catastrofismi e pregiudizi? Prendiamo la gaffe del Corriere della Sera che ha titolato: “Tanti disoccupati come nel 1977”. Il giornale ha ammesso l’errore, ma per la verità è da matita rossa, non blu. In quel 1977 il tasso di senza lavoro è stato solo del 6,4 per cento meno della metà rispetto al dato odierno (13 per cento), però proprio allora è cominciata l’inversione di tendenza. Lo choc petrolifero, l’aumento dei salari reali (causa ed effetto dell’inflazione attraverso la scala mobile), la crisi strutturale della grande impresa, hanno chiuso in un cassetto il sogno della piena occupazione. Negli anni 90 il crollo della lira e della Prima Repubblica, più l’ondata di privatizzazioni (accoppiata a ristrutturazioni e licenziamenti) porta la disoccupazione all’11,3 (nel 1998). Da allora in poi comincia un decennio d’oro tanto che nel 2007 si torna al 6,1, dimostrazione che l’euro in quanto tale non c’entra nulla con la perdita di posti di lavoro. Dovremo dunque consolarci con le onde di Kondratieff? Certo che no. Ma il dramma attuale è figlio della grande crisi e di una nuova ristrutturazione che riguarda anche il terziario, come le banche investite dalla recessione, dai loro stessi errori e da internet o l’impiego statale.

    Nell’autunno 2008, Luigi Spaventa, compagno di strada del Partito comunista italiano, economista molto apprezzato da Giorgio Napolitano, scriveva: “Una recessione a questo punto è inevitabile” e con essa “una pesante stretta creditizia”. Non solo, ma si interrogava sull’efficacia dell’intervento pubblico: “Sapranno gli stati ritirarsi ordinatamente, evitare di erigere barriere e mettere voce sulle scelte industriali?”. Dovrebbe rileggerlo chi oggi propone ricette statalistiche per creare posti di lavoro.
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    Esiste, insomma, una sostanza dura, rugosa. La scopriamo solo oggi perché l’aggiustamento è stato rinviato, finché nel 2011 è arrivata la resa dei conti. La disoccupazione, che era salita di due punti, è aumentata di quattro nel triennio successivo ed è cominciata la litania sul che fare e soprattutto su quel che non si vuol fare. Lo scambio generazionale proposto da Marianna Madia costa troppo: la Ragioneria dello stato conferma quel che s’era già intuito. Lavori socialmente utili di prodiana memoria, nemmeno a parlarne: si sono rivelati assistenza pubblica appena mascherata. Aprire e chiudere buche è impossibile perché non si può fare il keynesismo in un solo paese, ammesso che J. M. Keynes offra una cassetta di attrezzi utili nell’economia globale (Paul Krugman dice di sì, chi muove il denaro dice di no). Il nord Europa ha risposto con riforme del mercato. La flexicurity, le agenzie del lavoro, la formazione permanente, sono state efficaci e appena s’è presentata la ripresa, domanda e offerta sono scattate come molle. Hanno avuto un effetto temporaneo anche lo scambio tra salario e occupazione nelle grandi imprese e la flessibilità nei contratti. Ora arriva la paga minima e gli imprenditori tedeschi lamentano una inutile rigidità. Non funziona, invece, quel che è avvenuto in Italia. La stabilizzazione forzata è stata un boomerang e adesso bisogna correre ai ripari, riconoscendo, sia pur a denti stretti, che i co.co.co. hanno aumentato i posti di lavoro. La disoccupazione giovanile è anch’essa, ovunque, un fenomeno strutturale: dipende dal fossato tra quel che chiedono le imprese e quel che offre la scuola. “Non contano gli anni passati a studiare, ma i contenuti”, ha scritto l’Economist. Cosa ci vuole, allora, per trovare un lavoro, un diploma in hamburgerologia? E perché no. Bisogna chiudere la forbice tra bisogni e desideri. Non si farà in un anno né con una legge, soprattutto occorre una grande spinta a creare nuovi lavori. Gli imprenditori aprano il portafoglio e investano, i sindacati non gettino tra le ruote i detriti del vecchio mondo, lo ha detto Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. I lacci e lacciuoli in Italia non finiscono mai.

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