Di che lettera sei?

Maurizio Stefanini

Un centenario e un millennio riportano in campo il dibattito sulle generazioni. Il centenario è quello della Grande guerra, celebrato con un approccio sempre più centrato sulla vicenda della Generazione perduta che vi combatté, la “Lost generation”. Il millennio è quello a cui è intitolata la generazione venuta a maturità o nata attorno a esso, quella dei “Millennials”, sulla quale si interrogano i media americani a partire dalla quantità di dati che emergono da studi sociologici, ma anche dal successo di una sitcom simbolo. Un concorso ha dato un nome alla generazione successiva, e risale al 1991 lo studio che ha individuato il ciclo di alternanza delle generazioni dal 1433 al 2069.

    Un centenario e un millennio riportano in campo il dibattito sulle generazioni. Il centenario è quello della Grande guerra, celebrato con un approccio sempre più centrato sulla vicenda della Generazione perduta che vi combatté, la “Lost generation”. Il millennio è quello a cui è intitolata la generazione venuta a maturità o nata attorno a esso, quella dei “Millennials”, sulla quale si interrogano i media americani a partire dalla quantità di dati che emergono da studi sociologici, ma anche dal successo di una sitcom simbolo. Un concorso ha dato un nome alla generazione successiva, e risale al 1991 lo studio che ha individuato il ciclo di alternanza delle generazioni dal 1433 al 2069.

    Fu Ernest Hemingway che in “Festa mobile”, autobiografia postuma del 1964, raccontò di Gertrude Stein che una volta a Parigi si era arrabbiata con un giovane meccanico, reduce di guerra, che secondo lei aveva trascurato la sua Ford T in riparazione, facendolo rimproverare dal padrone del garage. “Il padrone gli aveva detto: ‘Voi siete tutti una generazione perduta’. ‘E’ quello che voi tutti siete’, disse la signora Stein. ‘Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta’”. “Non avete rispetto per niente. Vi ubriacate fino alla morte…”. Hemingway si arrabbiò a sua volta, comparando quello che percepiva come “egotismo” e “pigrizia mentale” della Stein ai ricordi di quando appena diciannovenne era andato a caricare i feriti sulle ambulanze del fronte del Piave ed era rimasto ferito a sua volta. Proprio per difendere i suoi coetanei aveva scritto nel 1926 il suo primo romanzo. Anche se il titolo non fu poi quello originariamente pensato di “The Lost Generation” ma “Fiesta” e “Il sole sorgerà ancora”, e anche se in realtà, i personaggi reali raffigurati, si sentirono tutt’altro che difesi, tant’è che tra gli americani di Parigi girava la proposta per un sarcastico quarto titolo: “Sei personaggi in cerca di un autore con una rivoltella per uno”.  Peraltro i soldati americani al fronte ci stettero meno di un anno, e i caduti furono appena lo 0,13 per cento della popolazione degli Stati Uniti, contro il 2,19 del Regno Unito, il 3,48 dell’Italia, il 3,82 della Germania, il 4,29 della Francia. I nati tra il 1883 e il 1900-01, dunque, potevano essere considerati da Gertrude Stein “perduti” nel senso che non avevano più i punti di riferimento che, anche senza guerra, erano destinati a saltare per via dell’impatto della modernità. Il Futurismo, col suo “automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia… più bello della Vittoria di Samotracia”, viene prima del conflitto. Ma in altri paesi quella generazione fu in larga parte “perduta” anche nel senso più crudamente letterale.

    La generazione successiva, quella nata tra il 1901 e il 1924, ebbe la sua definizione di “Greatest Generation” solo nel 1998 con l’omonimo bestseller di Tom Brokaw, noto anchorman della Nbc. Nel 1991 William Strauss e Neil Howe, i due sociologi della classificazione dal 1433 in poi, l’avevano definita invece la “G.I. Generation”: Generazione con le stellette, diremmo in italiano, perché fece la Seconda guerra mondiale dopo essere cresciuta nella Grande depressione. Proprio perché l’affrontare grandi sfide non le diede il tempo per avere problemi di identità quella fu, secondo Brokaw, “la più grande generazione che una società abbia mai prodotto”. Uomini e donne che non solo combatterono ma produssero a pieno ritmo per alimentare il fronte, “non per desiderio di fama e riconoscimento, ma perché era la cosa giusta da fare”. I loro figli erano invece stati definiti dal Time fin dal 1951 come la “Silent generation”. Ma anche loro sono stati sistematizzati di recente: è del 2008 il libro di Elwood D. Carlson, docente di Sociologia e popolazione alla Florida State University, che definisce i nati tra 1925 e 1942 “fortunati e pochi”. “La prima generazione americana meno numerosa di quella precedente”, spiegò Carlson, “e la più fortunata di tutte”. Crebbero nelle famiglie più stabili di tutti i tempi, poterono sposarsi prima, ebbero migliori opportunità educative, lavorarono in un ciclo economico in ascesa e sono andati in pensione nelle condizioni migliori. Negli Stati Uniti ebbero il problema della guerra di Corea, che comunque durò poco, mentre solo i più giovani di loro incapparono nel Vietnam. Per i loro coetanei dell’Europa occidentale fu invece il tempo dell’ottimismo: la ricostruzione, le “Trente glorieuses” francesi, il miracolo economico italiano. E per questo stettero “in silenzio”, non avendo di che lamentarsi. E per questo fecero figli in quantità. I Baby Boomers.  

    Usata per la prima volta nel 1970 in un articolo del Washington Post, l’etichetta Baby Boomers ha un valore ufficiale, nel senso che il censimento statunitense vi classifica tutti i nati tra il 1946 e il 1964. Ma Strauss e Howe chiudono invece la fascia al 1960, e d’altra parte quel Douglas Coupland che nel 1991 lanciò con il suo romanzo l’etichetta della successiva “Generazione X” è nato a sua volta nel 1961. Nel 2000 lo storico  Jonathan Pontell ha lanciato una ulteriore definizione, quella della Jones Generation: nati tra 1954 e 1964. La prima generazione cresciuta con la televisione. Ma Jones è un termine in slang per indicare la bramosia e il desiderio, “generazione voglio tutto”, che in effetti caratterizza tutti i Baby Boomers. Diventati adulti con un’economia in crescita ma turbati dall’incubo nucleare della Guerra fredda, e anche a disagio con valori e modelli di comportamento che il rapido progresso faceva percepire come inadeguati. In più, il loro arrivo nel mondo del lavoro coincise con la fine del boom economico. Il risultato fu quello che i sociologi hanno definito la Rivoluzione delle aspettative crescenti e gli storici, dopo i cronisti, contestazione sessantottina. Una generazione al tempo stesso consumista e ribelle, comunque secolarizzata e dai modelli familiari sciolti. Quelli che “vedevano gente e facevano cose” nei film di Nanni Moretti, “la meglio gioventù” del film di Giordana. Hippies e yuppies; terroristi ed edonisti reaganiani. Bill Clinton e Tony Blair, così come George W. Bush.

    In realtà fu per i Baby Boomers e la Jones Generation che fu coniato in origine il termine di Generazione X. Prima in una raccolta di foto di Robert Capa del 1953, poi in un libro del 1965 dei giornalisti inglesi Jane Deverson e Charles Hamblett, una raccolta di interviste a una generazione di adolescenti che “dormono insieme prima del matrimonio, non credono in Dio, disprezzano la regina e non rispettano i genitori”. Il romanzo di Coupland, “un libro indispensabile per chi ha meno di quarant’anni”, è una sorta di “Decameron” o “Racconti di Canterbury” nella California del 1990, in cui i “trentenni o giù di lì” Andy Dog e Claire, sovraistruiti, sottoccupati, chiusi nel privato e imprevedibili, mollano all’improvviso i loro McJob. “Impiego a paga irrisoria, basso prestigio, bassa dignità, bassa realizzazione e senza futuro, in genere nel settore dei servizi. Considerato una scelta professionale soddisfacente da persone che non ne hanno avute mai”. Partono dunque per il deserto, alla ricerca del cambiamento drastico che potrebbe dare un senso alla loro vita. Ma riescono solo a impantanarsi nei detriti della memoria culturale americana. 

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    La precarietà di sentimenti e valori dei Baby Boomers, insomma, nella Generazione X diventa precarietà economica ed esistenziale. Compresa tra il 1961 e il 1981 per il Longitudinal study of american youth dell’Università del Michigan e anche per Strauss e Howe, tra il 1965 e il 1984 per Harvard, quella con la X è una generazione sospesa, divisa tra tv e internet, tra la fine della Guerra fredda e il nuovo ordine mondiale. Proprio per sconfiggere la precarietà gli X hanno inventato la Net economy e si sono lanciati nel volontariato. Eppure, nel cinema italiano (da  “Tutta la vita davanti” a “Immaturi” o “La mossa del pinguino”) la cifra di questa generazione resta soprattutto quella della sfiga.
    Dopo la generazione X viene, manco a dirlo, la generazione Y. E’ stata prevista quasi prima ancora che venisse a esistere. Strauss e Howe infatti elaborarono la loro teoria generazionale nel 1987, proprio immaginando quali sarebbero state nel 2000 le prospettive dei ragazzini classe 1982, che in quel momento stavano iniziando la scuola. Nel 1991 venne il libro “Generations: The History of America’s Future, 1584 to 2069”;  e nel 2000  “Millennials Rising: The Next Great Generation”. Ma al loro “Millennials” si è sovrapposto il termine di Generazione Y a partire dal 1993, a causa di un articolo della rivista di pubblicità e marketing Ad Age. E fuori dagli Stati Uniti Generazione Y è diventato anche il blog della dissidente cubana Yoani Sánchez. Si parla però anche di Generation Next, e soprattutto di Generation Net, visto che si tratta della prima generazione cresciuta con internet. Proprio internet e le nuove tecnologie hanno permesso di individuare, attraverso un concorso online di Usa Today, il nome della Generazione Z, che si è imposto al nome di Homeland generation prevista da Strauss e Howe. E’ la generazione che inizia con i nati dal 2004, e nel mondo tecnologizzato c’è addirittura nata. Avete presente quei ragazzini che sanno orientarsi con un touchscreen prima ancora di imparare a leggere e a scrivere, prima ancora, addirittura, di parlare e camminare?

    In attesa che crescano, però, ora sono i Millennials al centro di ricerche a fini di strategie commerciali ed elettorali, quelle che poi alimentano il dibattito giornalistico. La società finanziaria Hsbc, per esempio, ha appena individuato all’interno dei Millennials un settore di Yummies  caratterizzato da una disponibilità di denaro superiore al resto della loro generazione, e in grado dunque di determinare nuove mode. In quei settori di Net economy, dove sono più presenti, sono in grado addirittura di imporre gusti, mode e codici di abbigliamento agli stessi X.

    In campo musicale, è YouTube che sta rapidamente infrangendo le tradizionali barriere generazionali dei gusti. Mentre in Italia bastò il passaggio da inizio a fine degli anni Sessanta per far passare cantanti come Claudio Villa o Domenico Modugno dalla categoria degli idoli giovanili a quella dei matusa, per un liceale di oggi Lucio Battisti, i Beatles o Donna Summer sono ancora suoi contemporanei. Merito della fluidità della ricerca via internet. E però la vendita delle auto tra gli Y crolla: almeno il 30 per cento in meno. Con i prezzi dei carburanti in aumento gli Y, più oculati nelle spese perché cresciuti in tempi di crisi, preferiscono spendere in smartphone, e anche la fretta di prendere la patente è minore. Insomma: finito il paradigma futurista che identificava la libertà con la possibilità di muoversi, adesso è primario il bisogno di comunicare, condividere, apparire e creare.  Il Pew Research Center ha rilevato che solo il 20 per cento dei Millennials considera importante andare  alle funzioni religiose con regolarità, contro una media americana attorno al 50. E solo il 26 per cento è sposato, a un’età in cui lo era il 36 per cento degli X, il 48 per cento dei Baby Boomers e il 65 per cento della Silent Generation. Ma i divorzi sono poi di meno, e per il 70 per cento dei maschi e il 78 per cento delle femmine “un buon matrimonio” è un obiettivo fondamentale. Un sondaggio del Wall Street Journal ha evidenziato il fatto che, dopo un massiccio appoggio a Obama durante la campagna elettorale, i ragazzi della Generazione Y stanno mostrando un indebolimento nel voto democratico: dal 50 al 36 per cento, ma non perché sono diventati repubblicani, piuttosto perché ostentano un’indipendenza tale da non riconoscersi in nessun partito (quasi il 40 per cento). E sarebbe stato in particolare il caso di Snowden e dell’Nsa a far perdere la fiducia in Obama da parte di una generazione così identificata con la libertà digitale. Ma ciò li porta davvero a essere “distaccati dalle istituzioni e in network con gli amici”, secondo una definizione pure del Pew Research Center?  Strauss e Howe ipotizzano un ciclo, per cui a una generazione “alta”, che crede nelle istituzioni e nei valori, ne segue necessariamente una “consapevole” che le contesta, poi una “in disfacimento”, con istituzioni e valori deboli, e infine una “di crisi”, che è costretta a ricostruire tutto. Nel Quattrocento, per esempio, la generazione alta “arturiana” del 1433-1460 fu seguita dalla consapevolezza “umanista” del 1461-1482, dal disfacimento “riformato” del 1483-1511, dalla crisi della “ripresa” del 1512-1540 e dalla nuova epoca “alta” elisabettiana del 1541-1565. I Millennials, scommettono Strauss e Howe, rappresenterebbero la nuova fase “alta” analoga ai Greatest. Dopo la consapevolezza dei Silent, il disfacimento dei Baby Boomers e la crisi degli X.

    Dibattito in corso, dunque. Nel frattempo, la decisione della Cbs di mettere in cantiere altre tre serie di “The Big Bang Theory” consacra la sitcom che non solo è in questo momento seguita da 20 milioni di spettatori nei soli Stati Uniti, ma è anche stata scelta per la copertina del recente saggio di  Betty Kaklamanidou e Margaret Tally “The Millennials on Film and Television: Essays on the Politics of Popular Culture”. In Italia sono le reti Mediaset a trasmettere la storia dei quattro nerd bassotti, bruttini e sfigati che lavorano al California Institute of Technology di Pasadena, e la cui vita è rivoluzionata quando nell’appartamento accanto al loro va a vivere Penny: una bionda procace, ignorante e dal cuore d’oro, che è venuta dalla campagna e fa la cameriera in una trattoria col sogno di diventare attrice. Il texano Sheldon, fisico teorico, è un genio arrivato all’università a 11 anni, ma è affetto da una sindrome che gli impedisce di comprendere le convenzioni delle persone normali, e soffre ancora per i postumi di un’infanzia tra parenti zotici e una madre ultra religiosa. L’oriundo del New Jersey Leonard, fisico sperimentale, è stato traumatizzato da genitori e fratelli a loro volta scienziati e anaffettivi. L’ebreo Howard, ingegnere aerospaziale e dongiovanni improbabile, vive con una madre che lo opprime. L’indiano Raj, astrofisico, è tormentato da una timidezza che gli permette di parlare con le donne solo quando è ubriaco, ed è a sua volta tormentato dai genitori, che lo controllano via computer da New Delhi e vorrebbero combinargli un matrimonio. Tutti sono a contatto con veri premi Nobel che si offrono per continui camei, ma il loro stile di vita è marcatamente infantile: fumetti, giochi di ruolo, telefilm di fantascienza, party, un approccio al lavoro che ricorda piuttosto la vita liceale. Eppure, i quattro tontoloni il loro progetto di esistenza riescono a portarlo avanti.  Il complessato Leonard riuscirà a conquistare Penny. Il brutto anatroccolo Howard, prima di diventare astronauta, sposerà Bernadette (collega di Penny, che fa la cameriera per pagarsi la laurea in Microbiologia e porta al collo un enorme crocifisso cattolico). L’uomo robot Sheldon firmerà un “contratto di fidanzamento” con la neurologa Amy, una sua omologa femminile che gli amici per scherzo gli hanno trovato online. E perfino Raj, nell’ultima serie, per il trauma di essersi innamorato di una ancora più timida di lui imparerà a parlare con le donne da sobrio.

    Se “The Big Bang Theory” è la serie tv della generazione Y, in “Two and Half Men” i protagonisti sono due fratelli della generazione X. Uno è il libertino compulsivo Charlie, un pianista che per pigrizia campa scrivendo mediocri jingle pubblicitari. L’altro è l’imbranato Alan, chiropratico per incapacità in Medicina, costretto a chiedere rifugio nella villa  del fratello a Malibù dopo un improvviso divorzio. Una madre odiata, agente immobiliare senza scrupoli e a sua volta libertina senza ritegno malgrado l’età, un figlio scolasticamente mediocre e una domestica prepotente completano un panorama che, pur nei toni della commedia, è essenzialmente di degrado. Tant’è che a un certo punto Charlie viene ucciso da una spasimante delusa che lo butta sotto a un treno.  Il simbolismo è probabilmente involontario. Ma difficilmente Strauss e Howe avrebbero potuto far rappresentare meglio la loro idea, che quando il ciclo generazionale tocca il fondo allora non si può che ripartire.