In India lo staff di Modi studia per la rivoluzione thatcheriana

Paola Peduzzi

S’è cominciato a votare domenica nel nord-est dell’India, ai piedi dell’Himalaya, il primo di nove round elettorali che finiranno il 12 maggio, 815 milioni di persone (23 milioni sono soltanto i giovani che hanno 18 e 19 anni), più o meno la popolazione degli Stati Uniti e quella dell’Unione europea messe assieme, avranno il diritto di scegliere 543 parlamentari e soprattutto il futuro del loro paese. Le elezioni indiane sono sempre dominate dalla retorica della gigantesca e caotica macchina democratica che si mette in movimento, ma per una volta, in questa che è considerata anche una delle elezioni più dispendiose della storia (almeno cinque miliardi di dollari spesi dai candidati, secondo alcune stime), la questione è piuttosto chiara: c’entra l’economia e c’entra un dibattito ideologico che in occidente non è ancora stato risolto.

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    S’è cominciato a votare domenica nel nord-est dell’India, ai piedi dell’Himalaya, il primo di nove round elettorali che finiranno il 12 maggio, 815 milioni di persone (23 milioni sono soltanto i giovani che hanno 18 e 19 anni), più o meno la popolazione degli Stati Uniti e quella dell’Unione europea messe assieme, avranno il diritto di scegliere 543 parlamentari e soprattutto il futuro del loro paese. Le elezioni indiane sono sempre dominate dalla retorica della gigantesca e caotica macchina democratica che si mette in movimento, ma per una volta, in questa che è considerata anche una delle elezioni più dispendiose della storia (almeno cinque miliardi di dollari spesi dai candidati, secondo alcune stime), la questione è piuttosto chiara: c’entra l’economia e c’entra un dibattito ideologico che in occidente non è ancora stato risolto.

    L’economia in India cresce “soltanto” al 5 per cento, è il record minimo degli ultimi dieci anni, e ormai la crescita a doppia cifra è un ricordo lontano. La spesa pubblica è aumentata enormemente in seguito a una serie di leggi introdotte dal Partito del Congresso al governo, pensate per cercare di risolvere uno dei grandi problemi del paese: la diseguaglianza. La rupia ha subìto gravi perdite, ci sono stati momenti mortificanti, soprattutto nel 2013, quando la valuta è diventata quasi carta straccia sui mercati e molti investitori hanno iniziato a non fidarsi più della tenuta nel lungo periodo del paese. Il meglio sembra ormai alle spalle, insomma, e per un paese che vive di giovani e di promesse fatte ai giovani questa consapevolezza appare come la fine del mondo. Per questo, come ha sottolineato su Bloomberg Businessweek Akash Kapur, autore del bel saggio “India Becoming”, la scelta per gli indiani oggi è chiara: vogliono tornare a crescere e a proiettarsi nel futuro o vogliono sanare le fratture interne e portare eguaglianza? Pare che entrambe le cose al momento non si possano avere, o sarebbe meglio dire che non si possono avere una assieme all’altra: si deve dare la priorità a una delle due e attendere che arrivi anche l’altra. Da dove cominciare? E’ un dilemma che in occidente conosciamo molto bene: l’America di Obama mette come priorità la lotta alla diseguaglianza ma poi si strugge per conquistare briciole di crescita con altre iniziative che con la diseguaglianza non hanno nulla a che fare; l’Europa ancora non sa decidersi tra sussidi e tagli, si tormenta tra austerità e welfare: basta vedere in Francia che risultati devastanti sta dando l’indecisione. In India invece i due candidati alle elezioni sono, su questo punto, cristallini: il Partito del Congresso di Rahul Gandhi è per l’eguaglianza, il Bjp di Narendra Modi è per la crescita.

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    Non è sempre stato così, anzi storicamente è stato proprio il contrario. Il Partito del Congresso, al potere dall’indipendenza tranne che per 13 anni, è il partito delle riforme, della crescita, dell’India che attira investimenti e che innova, inventa, diventa potente e vuole contare nel mondo. Negli ultimi quattro anni, questa missione s’è impantanata nella corruzione (l’Economist dice che le sole mazzette a politici e funzionari valgono tra i 4 e i 12 miliardi di dollari, una cifra non stimabile ma comunque tendente all’enorme), ma soprattutto s’è modificata nella sua natura: la lotta alla povertà è diventata la priorità, sono state introdotte leggi e sussidi per cercare di compensare le diseguaglianze. In particolare, nel 2005 è stata approvata la legge che garantisce il lavoro nelle campagne (si chiama National Rural Employment Guarantee Act), che deve garantire il lavoro ad almeno 300 milioni di padri di famiglia nelle aree rurali. Sono state anche introdotte molte misure per il diritto all’istruzione e alla sicurezza alimentare – dispendiose e dall’effetto non quantificabile. Le fratture sociali non sono state sanate, e il deficit ha raggiunto livelli mai visti, con un impatto disastroso anche sulla tenuta della valuta indiana, al punto che ci sono stati molti momenti di panico finanziario che hanno ulteriormente appesantito le prospettive di leggi nate in nome del principio (nobile) dell’uguaglianza sociale.

    Il Bharatiya Janata Party, al contrario, è storicamente legato al concetto di “swadeshi”, che significa fare affidamento su se stessi e che, in economia, si riflette nella diffidenza per gli investimenti stranieri e per la globalizzazione – una specie di autarchia che taglia l’India fuori dal mondo (ha un significato positivo di ottimismo, anche se si risolve in un isolamento non sempre sano). Ma poi è arrivato Modi che, nel Gujarat dove governa dal 2001, ha adottato una politica di apertura all’estero (i businessmen lo adorano), di privatizzazioni, di politiche fiscali per la crescita che hanno fatto sì che il suo stato crescesse più del 10 per cento annuo (ancora oggi cresce a due cifre, a differenza del resto del paese). La Reuters è andata a vedere chi sono i consiglieri economici di Modi – molti hanno lavorato in grandi banche d’investimento, molti raccolgono fondi per il Bjp da Londra e New York, si sono appassionati alla causa – e ha scoperto che i più sono pronti a “una rivoluzione thatcheriana”: ricordano il discorso che Modi tenne esattamente un anno fa, nel giorno in cui morì l’ex premier britannica Margaret Thatcher, e dicono che quanto a “small government” e privatizzazioni “non c’è differenza tra la Modi-nomics e il thatcherismo”.

    Modi fa gola – i mercati aspettano il cambiamento e intanto sono al rialzo – ma fa anche paura. Perché prima di essere un paladino delle riforme e delle liberalizzazioni è un nazionalista induista che ha lasciato che proprio nel suo Gujarat, nel 2002, si scatenasse una rivolta che portò alla morte di circa mille musulmani, comprese donne (prima stuprate) e bambini, come rappresaglia per l’uccisione da parte dei musulmani di una sessantina di induisti. Modi non è stato considerato responsabile ma, come scrive l’Economist, se si scusasse sarebbe più facile fidarsi del fatto che la crescita verrà prima dell’odio settario.

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    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi