L'Orlando pensoso
Parlano tutti di giustizia, nel giorno del Giudizio per il non-più-Cav. disarcionato che non può più essere chiamato Cav., ma che dal preludio ai probabili servizi sociali suscita le più alte e più basse disquisizioni sulla famosa e sempre attesa “riforma” (della giustizia, appunto). Parlano tutti di giustizia senza davvero parlarne, dunque, e tutti s’affannano ad appiccicare al singolo caso il discorso generale – e l’azione penale e il pm e il non pm – mentre il convitato di pietra di ogni dibattito sul tema, il neo Guardasigilli Andrea Orlando, pensa tutto il contrario: che si debba partire non da grandi roboanti riforme, come ha spiegato giorni fa a Liana Milella su Repubblica (una Milella che, sul suo blog, a nomina di Orlando fresca-fresca, due mesi fa, pur scontenta di non vedere in quel ruolo “un valente costituzionalista”, gli aveva concesso il beneficio del dubbio: vediamo che cosa fa, scriveva, “ma quanto peserà” la “pietra di Ncd e di Alfano e dei centristi” sul suo collo?, si chiedeva).
Parlano tutti di giustizia, nel giorno del Giudizio per il non-più-Cav. disarcionato che non può più essere chiamato Cav., ma che dal preludio ai probabili servizi sociali suscita le più alte e più basse disquisizioni sulla famosa e sempre attesa “riforma” (della giustizia, appunto). Parlano tutti di giustizia senza davvero parlarne, dunque, e tutti s’affannano ad appiccicare al singolo caso il discorso generale – e l’azione penale e il pm e il non pm – mentre il convitato di pietra di ogni dibattito sul tema, il neo Guardasigilli Andrea Orlando, pensa tutto il contrario: che si debba partire non da grandi roboanti riforme, come ha spiegato giorni fa a Liana Milella su Repubblica (una Milella che, sul suo blog, a nomina di Orlando fresca-fresca, due mesi fa, pur scontenta di non vedere in quel ruolo “un valente costituzionalista”, gli aveva concesso il beneficio del dubbio: vediamo che cosa fa, scriveva, “ma quanto peserà” la “pietra di Ncd e di Alfano e dei centristi” sul suo collo?, si chiedeva). Orlando vuole partire dal basso: dai detenuti, da un lato, e dai tribunali ingolfati, dall’altro, labirinti di lentezze che danno l’immagine di un’Italia-mastodonte burocratizzato, morte di ogni spirito d’impresa anche in caso di controversie. Non esiste “la grande riforma”, dice Orlando, serve un’azione ordinata di “interventi strutturali” che facciano prima funzionare il motore inceppato, e che ci tolgano l’onta di paese con carceri non all’altezza del livello di civiltà. “Basta parlarmi di Berlusconi a ogni intervista”, ha detto a Liana Milella, ripetendo il concetto espresso dopo l’accettazione dell’incarico: “Non faccio patti sottobanco”, “ho sempre fatto le mie proposte alle luce del sole”, “ho guidato la battaglia del Pd contro le intercettazioni” (garantista sì, ma non al punto da passare per filo Cav.). Prima bisogna “eliminare le macerie”, bisogna “snellire il processo civile”, la vera “rivoluzione è ripristinare l’efficienza dell’organizzazione carceraria”, dice il ministro non renziano del governo Renzi ed ex ministro non proprio lettiano nel governo Letta, anche se presente nel network del lettiano think tank Vedrò. Era all’Ambiente, con Letta, Orlando, uomo dal mai cancellato imprinting Pci-Pds-Ds, socialdemocratico per formazione, “giovane turco” per posizione, politico puro ma tecnico nell’approccio. E quando qualcuno, dal Fatto quotidiano e non solo, ricorda a Orlando che quattro anni fa, su questo giornale, il suo programma da responsabile del Forum giustizia del Pd che voleva dialogare sul tema con l’allora maggioranza “piaceva alla destra” e scontentava l’ex magistrato Bruno Tinti e l’ex procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, Orlando il garantista storico (che finora solo il radicale storico Massimo Bordin trova troppo cauto) dice che è passato del tempo, che intanto alcune proposte sono state realizzate, che anche all’interno della magistratura ormai pensano a riformare la legge elettorale del Csm, e che comunque molto d’altro c’è da fare, prima di mettere mano alla riorganizzazione degli uffici “sulla base delle priorità, fatta salvo l’obbligatorietà dell’azione penale” (tu vuoi eliminarla, gli dicevano i critici nel 2010, e hai voglia a fare distinguo, allora, hai voglia a dire “non è vero”. Si era in pieno deflagrare della lotta tra pro B. e no B., schierati come bande tutto attorno alla Via Pál).
Quattro anni fa, quel manifesto per una Giustizia non irrazionalmente preda di lotte all’ultimo sangue tra pro B. e anti B. scatenò il putiferio dentro e fuori il partito, con tanto di raccolta firme a favore di Orlando (più di cento) tra i deputati nel Pd alle prese con popoliviola e professori (gli stessi che oggi si oppongono con virulenza decrescente alla riforma del Senato): professori e popoliviola convinti che il dialogo con la maggioranza su giudici e carceri fosse più che mai disdicevole. Risolviamo “le emergenze esplosive”, dice ora Orlando, usiamo gli strumenti poco utilizzati per il rimpatrio dei detenuti, informatizziamo, abbattiamo i tempi morti, rafforziamo gli strumenti di contrasto alle mafie. La riforma del Penale può attendere.
Non si mostra molto, ultimamente, men che meno in televisione, il quarantacinquenne Orlando, ex responsabile Giustizia del Pd bersaniano, uomo con volto da ragazzo vagamente nostalgico di spensieratezza (la ritrova col calcio, sia da tifoso della Fiorentina sia da calciatore dilettante: prima di essere ministro era una delle risorse della Nazionale parlamentare – “piedi e fantasia”, dice l’amico e deputato pd Daniele Marantelli). Fuori dal campo ha i movimenti misurati e sfuggenti di chi controlla al millimetro le conseguenze, il neo ministro, per nulla ragazzo per Weltanschauung politica quanto ragazzo per stile di vita. Non è sposato – vuoi per dedizione agli impegni partitici e governativi vuoi per indole – ed è quello a cui i colleghi, scherzando, dicono: “Ma quand’è che metti la testa a posto?”. Al suo quarantacinquesimo compleanno un’amica di vecchia data gli ha mandato un sms sottoscritto dall’intero gruppo di compagni spezzini: “Serio ma non serioso, imprevedibile ma non inaffidabile, 45 anni ma eterno Peter Pan”. Fatto sta che, a La Spezia, Andrea Orlando resta “Andre” per tutti, quello delle rimpatriate estive: stessi giri, stessa casa in un quartiere popolare dove ora, vedendolo arrivare con la scorta, gli anziani dicono “magari ci sarà più sicurezza”, e anche stesso mare e stessa passione buffa per Claudio Villa come quando, ventenne, l’allora militante Orlando faceva campagna elettorale per il Comune. Il gruppone di amici è la sua famiglia pure a Roma, anche se ora ha dovuto ridurre la frequenza delle cene in pizzeria dopolavoro.
Pondera l’energia anche a rischio di apparire poco energico, Orlando (“il troppo stroppia”, questo era l’insegnamento della vecchia politica in cui Orlando è cresciuto, ma a sentire gli amici il nuovo Guardasigilli è così di suo: attento, prudente, pignolo, non impaziente, spiccio, ma non timoroso e anzi curioso di cambiare vita, argomento o ministero. “Era contento quando passava da un ruolo all’altro”, raccontano i colleghi dell’ex Pci-Pds-Ds, convinti che l’accumulo di esperienze fosse per lui un tesoro da mettere nello scrigno, a garanzia di prontezza e sangue freddo per future imprese).
Figlio di famiglia semplice, campana d’origine ma ligure d’adozione, il ministro di La Spezia (a La Spezia dicono: il primo spezzino ministro), ha cambiato vita molte volte, ma sempre con il faro del partito ben visibile nel Golfo dei Poeti da cui proviene: segretario provinciale della Fgci nel 1989 della Bolognina, consigliere comunale, segretario cittadino, giovane assessore del sindaco Giorgio Pagano, infine segretario provinciale. L’ha scoperto Pier Luigi Bersani, dicono i bersaniani; l’ha lanciato Piero Fassino, dicono i fassiniani. Hanno ragione tutti: Bersani scovò Orlando a qualche Festa dell’Unità genovese a inizio millennio, e nel 2009, da segretario, lo volle responsabile del Forum Giustizia e poi commissario a Napoli, tra primarie contestate e voti sospetti (tra ombre di camorra e concretissime liti intestine). Fassino invece l’aveva chiamato in Direzione, nel 2003, prima all’Organizzazione poi agli Enti locali, “cariche importanti”, dicono nel Pd, facendo capire che Orlando poteva essere, mutatis mutandis, “come un Davide Zoggia per Bersani o uno Stefano Bonaccini per Renzi”. Ma hanno ragione pure i veltroniani quando affermano, come fa il deputato Walter Verini, che un “inclusivo” Veltroni post Lingotto, sei anni fa (con i buoni auspici di Goffredo Bettini), spostò in prima linea “alcuni ragazzi di Fassino”, come Orlando, e addirittura nominò Orlando portavoce del neonato Pd. Tuttavia, dice Marantelli, Orlando “non se la tira e non è pretenzioso nella scelta di cibi, vini e luoghi, come tutti i ragazzi che vengono da famiglie popolari”.
La famiglia di Orlando era molto militante, ai tempi del Pci, e suo padre portò l’allora adolescente futuro ministro a Roma, per i funerali di Enrico Berlinguer, in quell’estate del 1984 che ha fatto piangere tutti gli ex ragazzi Pci ora nel Pd, anche i meno berlingueriani, quando si sono ritrovati uniti dall’amarcord all’Auditorium di Roma, a fine marzo, per la prima del documentario “Quando c’era Berlinguer” di Walter Veltroni (c’era pure il ministro Orlando, e all’uscita, per una volta senza tenersi, commentava con punte di allegra nostalgia che quel “film molto politico” faceva capire all’Italia di oggi “che cosa fosse il Pci ieri”). Famiglia “normale” anche dal punto di vista economico, gli Orlando (presenti in febbraio al secondo giuramento del figlio ministro in un anno) mandarono a studiare il giovane Andrea a Pisa. Lui si iscrisse a Giurisprudenza (non terminata per pochi esami e per sopraggiunta passione politica), non disdegnando però lavori scollegati dal contesto della sua formazione (metronotte in un supermercato, nonostante la stazza non imponente e, come ha scritto Aldo Cazzullo per “2Next”, Rai2, scaricatore di porto – cassette di pesce, pare – e anche in quel caso la stazza non aiutava, ma l’energia per una volta non frenata sì).
“Felpato”, dicevano di Orlando i nemici interni che lo accusavano di rapido adattamento ai vari segretari pd – “Orlando si sa muovere”, era la sentenza quando da Piero Fassino si passava a Walter Veltroni e poi a Dario Franceschini e poi a Pier Luigi Bersani. “Non è mai stato dalemiano, però”, notano oggi alcuni suoi colleghi, anche se poi Orlando è un giovane turco come molti ex dalemiani storici, per esempio Matteo Orfini, che con Orlando va d’accordo nonostante la diversità di piglio: “Andrea è più rotondo nelle risposte, io sono più spigoloso, forse siamo il poliziotto buono e il poliziotto cattivo”, dice Orfini, convinto che la presenza del prima bersaniano e poi cuperliano Orlando nel governo Letta e nel governo Renzi, in due diversi ministeri, non abbia nulla a che fare con torsioni, furbizie o trasformismi, ma che sia la prova del nove della superiorità della scuola di partito: “Se uno ha fatto politica come si deve è in grado di occuparsi di argomenti diversi in modo efficace, e infatti sarebbe ora di rivalutare chi si è formato in partiti degni di questo nome”. “Orlando non si vergogna di fare politica, parolaccia di questi tempi presso una parte dell’opinione pubblica”, dice Marantelli, ancora memore del discorso che Orlando aveva fatto un anno fa, ai funerali del sindaco di Cardano al Campo Laura Prati, amica di Marantelli morta per le conseguenze delle ferite da arma da fuoco dopo l’assalto di un ex vigile urbano sospeso dal servizio per una truffa. Orlando aveva detto ai figli di Laura Prati: “Quando qualcuno vi parlerà male della politica, raccontategli la storia della vostra mamma”.
Ora che si è passati dalla segreteria Bersani (e dal governo Letta) alla segreteria Renzi (e al governo Renzi), Orlando resta al governo, sì, ma non è diventato un renziano dell’ultima ora. Sta lì, il ministro, convinto di starci, ma anche con una vaga aria da scudo umano e ostaggio nel magico e scoppiettante mondo renziano – in qualità di testimone di una concezione partitica che fu, scuro e neutro nelle giacche quanto colorata è la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, vestito comunque in modo meno ingessato di un tempo (“ma siamo noi che l’abbiamo svezzato quanto a cravatte”, dice il deputato pd Enzo Amendola, suo estimatore e amico al punto da pretendere la fulminea presenza dell’allora ministro dell’Ambiente alle sue nozze, nonostante gli incarichi dell’Orlando che, da quando è al governo, non importa in quale ministero, non può più fare il tradizionale viaggione agostano, Messico la prima scelta) né può dedicarsi all’attività ricreativa che più lo divertiva nelle pause d’Aula: indovinare chi ha cantato cosa a Sanremo nell’anno tal dei tali, attività in cui, tra il 2009 e il 2013, gareggiava con il campione di memorie televisive e compagno di banco in Parlamento Walter Veltroni, allora reduce dal sogno infranto della prima segreteria pd. Enzo Amendola è stato collega di preoccupazione del ministro della Giustizia ai tempi della trasferta napoletana dell’Orlando commissario per conto di Bersani: “Andrea veniva, andava, tornava, ripartiva – non si sa con quanta rapidità”, dice Amendola.
Andava, veniva, guardava carte in Federazione, sentiva gente, telefonava, ammetteva con i cronisti che “era un casino”, ci lavorava sopra, pensava a che cosa intendesse Bersani quando gli aveva detto “fatti carico” e infine guardava consumarsi il crollo elettorale (amministrativo) del 2011, pensando che fosse anche un po’ inevitabile, visto il livello di sfiducia dei cittadini. E oggi ancora pubblica su Facebook, Orlando, con rassegnazione, le code velenose della vicenda (qualche giorno fa Roberto Saviano, sempre su Facebook, ha lanciato l’allarme anti candidatura pd alle Europee di Andrea Cozzolino, nel 2011 vincitore contestato delle primarie per il sindaco di Napoli e autore di un “passo indietro”) che oggi rivendica in nome dell’“estrema correttezza” – Orlando lo pubblica in bacheca, senza commenti, forse memore di quando le polemiche intra moenia (nel Pd) avevano portato la Napoli post bassoliniana dritta dritta nelle braccia di Luigi De Magistris.
Il suo modello di partito e di leadership Orlando l’ha descritto pubblicamente non più tardi di febbraio, sul sito di Rifare l’Italia, l’associazione dei giovani turchi, dove non nasconde, per esempio, le critiche socialdemocratiche al Jobs Act. L’idea di Orlando è quella della “costruzione di un rapporto di cooperazione e competizione” per temi con i vincitori delle primarie per la segreteria, ora colleghi di governo: “L’idea di partito che si è affermata con Renzi”, ha scritto, “non è soltanto il frutto dello spirito del tempo. E’ anche l’effetto dei nostri limiti e delle nostre contraddizioni… Renzi è apparso agli occhi di un’opinione pubblica delusa come lo strumento per superare lo stallo… A questo punto, un suo fallimento sarebbe inevitabilmente il fallimento di tutti noi e più in generale l’ennesimo fallimento della politica”.
Certo Orlando s’immaginava di restare all’Ambiente, forte del “collegato” alla Legge di stabilità (una sorta di Agenda verde) e del decreto sulla Terra dei fuochi, argomento difficile affrontato senza sottovalutazioni ma anche senza allarmismi da stregoneria laica (“l’allarme disorienta”, diceva qualche mese fa dall’Ambiente; bisogna rispondere con “fondi per le bonifiche, istituzione di nuovi reati, controllo del territorio, screening sanitario”). Anche la sera prima della salita di Matteo Renzi incaricato al Quirinale pensava di restare all’Ambiente, Orlando (il nome del Guardasigilli doveva infatti essere, nell’intenzione del premier, quello di Nicola Gratteri). Invece si è risvegliato alla Giustizia, l’ex ministro dell’Ambiente, con il dispiacere, dice chi lo conosce, “di dover abbandonare i progetti già avviati”, ma soprattutto con la preoccupazione di quelli a venire.
Da allora studia la situazione alla Giustizia in maniera intensiva, il ministro che anche a cena con gli amici sente il “peso della responsabilità, dicono gli amici un po’ scherzando e un po’ no, ed esamina in lungo e in largo dipartimenti e scartoffie, per inquadrare il tutto personalmente, come quando metteva mano dall’Ambiente al dossier Ilva, nel pieno delle polemiche sul commissariamento, rispondendo punto per punto alla puntata critica di “Report” sul Corriere della Sera, e ribadendo che la materia era “complessa”, certo, che si voleva risanare salvando il lavoro degli operai, ma che “non c’era mai stato nessun favore ai Riva”.
Tanto sente il famoso “peso della responsabilità”, il neo ministro, da restare per due mesi sotto il livello della sondabilità, defilato anzichenò, pur avendo un recente passato di frontman del discorso garantista (nei giorni peggiori dell’antiberlusconismo disse che “la sbornia scandalistica” non avrebbe portato da nessuna parte e che avrebbe anzi impedito una riforma ragionata della giustizia che “puniva secondo criteri di classe”: chi può permettersi il miglior avvocato forse esce, gli altri marciscono in galera).
Mentre firmava da Guardasigilli, nella già impegnativa mattina di fine febbraio, Orlando guardava Giorgio Napolitano con un sorriso di soddisfazione mista a sgomento, e diceva “grazie presidente, eh” (grazie di questo macigno), e il presidente rispondeva “devi stare tranquillo” come si dice a un nipote, ché Orlando è per lui uno dei “ragazzi” del partito, garantista a vent’anni tra i giovani miglioristi nel Pci ma anche a quaranta, nei giorni manettari in cui Antonio Di Pietro si metteva a capo di piazze e moltitudini rigorosamente “noB.”, indignate contro i fantomatici e spesso presunti corrotti, corruttori, immoralisti e quaranta ladroni nascosti in ogni angolo dello Stato – moltitudini non ancora traslocate, allora, nell’anticasta grillesca. Oggi il neo ministro silenzioso fa da specchio al renzismo loquace e arrembante (Orlando appare addirittura antistorico rispetto alla strategia di comunicazione del premier che non solo parla ma twitta e commenta e ricommenta e annuncia e controannuncia). “Questo proprio non parla”, dice nella sua “Andrea’s Version” Andrea Marcenaro, guardando al ministro che da quando è arrivato al ministero “pensa” e osserva (“per capire”, dice Orlando quando qualcuno gli chiede perché dichiari così poco). E insomma: laddove il Romano Prodi d’antan “non scandiva” – da cui il tormentone “Prodi scandisci” di Maria Laura Rodotà – Orlando “non spiccica”, scrive Marcenaro, divertendosi da ligure e genovese a punzecchiare il ligure e spezzino ministro, nato nella città dove d’estate i turisti passano distrattamente, nei primi giorni di pioggia d’agosto, quando sono stanchi di inerpicarsi tra le vie di Lerici, Portovenere e delle Cinque Terre, o quando la gita nell’interno (prima tappa, la piccola e curata Sarzana), lascia qualche ora per affacciarsi sul portuale capoluogo, dove oggi Orlando torna volentieri ma con l’imbarazzo di chi non è abituato all’imponenza (e ubiquità) della scorta: se compra un paio di scarpe, e di solito vuole comprarle a La Spezia, capita che dia nell’occhio più di prima, e capita pure che fuori dal negozio si crei il bailamme di folla e controfolla. “Tanto meglio andare a casa”, dice, ora che non è più il “ragazzo” ex Pci che i cronisti descrivevano sempre intento a conversare alla Camera con Luciano Violante – Violante gli cingeva le spalle con un braccio mentre passeggiavano avanti e indietro lungo il Transatlantico, e quello per molti era un segno: è il suo allievo, dicevano, immaginando un trasbordo di idee per osmosi, e poi restavano di stucco, gli osservatori, perché Orlando parlava di Giustizia solo soletto, mentre l’intera batteria di anti inciucisti gridava all’intesa scellerata con B., e mentre Anna Finocchiaro e Beppe Fioroni scuotevano il capo, e vai a pensare che l’allievo, non il maestro, sarebbe diventato ministro della Giustizia (per giunta nel governo Renzi).
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