Maschio e cattolico, lo amo. Punto

Edoardo Rialti

Ci sono pezzi che uno non vorrebbe scrivere. E’ domenica mattina, e dopo doccia e caffè bollenti – non presi assieme, non ancora perlomeno – vorrei soltanto continuare a tradurre i romanzi fantasy di cui mi occupo, recensire una delle tante belle scoperte che mi guardano imploranti dal comodino (re-cen-si-sci-ci!), o magari scrivere la mia, di narrativa. Sono omosessuale, ma non mi occupo ogni secondo di omosessualità e cultura, non sono “un esperto”, non più di quanto il proprio modo di amare costituisca comunque parte decisiva del proprio modo di guardare, pensare, respirare. E sono pure un credente con molte domande, di quelle problematiche alla Simone Weil, un nome che ritornerà se restate in zona.

    Ci sono pezzi che uno non vorrebbe scrivere. E’ domenica mattina, e dopo doccia e caffè bollenti – non presi assieme, non ancora perlomeno – vorrei soltanto continuare a tradurre i romanzi fantasy di cui mi occupo, recensire una delle tante belle scoperte che mi guardano imploranti dal comodino (re-cen-si-sci-ci!), o magari scrivere la mia, di narrativa. Sono omosessuale, ma non mi occupo ogni secondo di omosessualità e cultura, non sono “un esperto”, non più di quanto il proprio modo di amare costituisca comunque parte decisiva del proprio modo di guardare, pensare, respirare. E sono pure un credente con molte domande, di quelle problematiche alla Simone Weil, un nome che ritornerà se restate in zona. Come lei mi sento – spesso, non sempre ma spesso – di dire: “Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia”. Oppure: “Ogniqualvolta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Krishna, Budda, il Tao, ecc., il figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli la luce – e nel migliore dei casi la pienezza della luce – all’interno di tale tradizione”.

    Tuttavia, per quanto allettante sia la luce domenicale, per quante immagini narrative si affollino in testa e sulla punta delle dita, per quanto uno voglia semplicemente uscire a godersi una passeggiata lungo l’Arno, incontrando magari lo spirito di Mario Luzi che gira cortese il cappello dall’altra riva, ci sono pezzi che uno sente di dover scrivere, per quanto confusi possano risultare, per quanto magari non smuoveranno niente e nessuno. Uno sente di farli per potersi guardare allo specchio alla mattina, sentendo di non aver omesso il proprio contributo su questioni tanto preziose e decisive, per cui tanti si interrogano, e molti ancora oggi soffrono assai più del dovuto. Nonostante tante cose complesse e talvolta difficili, la mia è una vita straordinariamente fortunata: faccio il lavoro che ho sempre desiderato come mia strada, sono circondato da amici cari, vivi e morti, visto che anche Shakespeare, Tolkien, Omero fanno parte della brigata, e amo un ragazzo che è un sogno a occhi aperti. Ho una famiglia meravigliosa, che mi ha sempre sostenuto con amore a essere me stesso. Proprio per questo, come i pastori di Virgilio, sento e temo di non potermene stare in campagna a zufolare, perché la storia e i suoi drammi non possono essere ignorati. C’è chi non è in campagna, con l’acqua che mormora e la luce che filtra tra gli alberi; c’è chi è laddove si soffre, e magari si è privati delle proprie terre. Non voglio guardarmi indietro e pensare che avrei potuto fare di più. Dovuto fare di più.

    E in Italia il dibattito sugli omosessuali e i loro diritti è una di quelle bandiere che viene continuamente agitata, che fa molto comodo nei talk-show, e che pure continua a mio parere a essere perlopiù un “molto rumore per nulla”. In cui spesso il vero nocciolo della questione viene ignorato, precludendo o ostacolando qualsiasi passo autenticamente maturo. Il peso specifico e la grande eredità cattolica di questo nostro paese costituisce uno degli ingredienti più forti del “piatto italiano”, e le posizioni, sicuramente stimolanti, sia del nuovo Pontefice, tirato per la mantellina un po’ da tutti con la solita insopportabile papolatria – sia di paesi vicini come la Francia (che fa sempre un tale casino!) sia della mia amata Inghilterra (che invece conserva sempre un suo aplomb molto intelligente ed empirico), stanno come premendo l’acceleratore. Eppure in Italia si può andare anche a 500 all’ora, per poi accorgersi che stiamo solo girando vorticosamente su noi stessi, senza fare neppure un miglio in qualsivoglia direzione, dicendo sempre le stesse cose.

    Io in Dio ci credo, e dico sempre, alla Dante, che una mia personalissima “prova” della Sua esistenza è il fatto che esista il mio ragazzo. Se mai nella vita ho incontrato un “biglietto di Dio”, con tanto di firma, quello è lui. Per di più sono legato, per storia personale, a molti amici e conoscenti, i quali, in materia di morale sessuale e del suo spazio nella vita pubblica, sono “conservatori” – una parola-valigia che vuol dire tutto e niente, della cui grossolanità mi scuso; si tratta di credenti e no, come alcune firme del Foglio, cui collaboro, o come gli appartenenti a realtà ecclesiali come Cl, a giornali come Tempi, così come altri interlocutori diversi ancora. Si tratta in tutti i casi di realtà assai meno uniformi di quel che una visione esterna potrebbe credere, e, sebbene io “non segua più” Cl e spesso non condivida affatto parecchie posizioni di alcuni miei colleghi giornalisti quando si tratta di civiltà e diritti, ho sempre incontrato molto rispetto, stima, e motivo di profonda riflessione. Il giorno in cui smetterò di confrontarmi e magari imparare da chi la pensa diversamente da me sarà un brutto giorno. Tuttavia credo anche io di poter portare un contributo, capace forse di superare gli steccati, proprio perché certe posizioni io ho cercato sentitamente di viverle per anni, tuffandomici dentro con dedizione ed energia, per poi “soppesarle e trovarle mancanti”, tanto per citare la Bibbia. E riscontrando la medesima “mancanza” in diverse posizioni che leggo, talvolta con più profondità e sfumature, talvolta con un pressappochismo risibile e violento, ho pensato di presentare dei confusi ma sentiti appunti per alcuni amici credenti e alcuni “atei devoti”, persone che, per diversi motivi si sentono di sottoscrivere, difendere e magari incitare a impugnare con più forza ancora l’impostazione tradizionale che la chiesa ha proposto per affrontare questioni simili. Delle note in cui provo a esporre il mio “disagio dell’intelligenza” (S. Weil, visto?) dinanzi ad alcune loro posizioni. Magari ci troveranno qualcosa di interessante.
    Che siano ben scritti è fuor di dubbio.
    Chiedo scusa per il caos più che probabile, ma non riesco a essere sistematico neppure con una pistola puntata alla tempia. E mi scuso anche per lo spazio autobiografico. Non sarò il Louis di “Intervista col vampiro”, ma vi assicuro che sono più simpatico di David Copperfield.

    Per anni, da ragazzino e all’università, credere in Dio e vivere con gioia la mia omosessualità sono state per me molto più che due rette sghembe; si trattava di un vero e proprio campo di battaglia, con incursioni, scontri nel fango, a sorti alterne. Altro che il “Trono di spade”. Un D-day lungo anni. Da una parte, alcune esperienze a cui tenevo tantissimo, e che mi sembravano rotte “sicure” verso casa, parlare con Dio, i libri e le storie che amavo, l’aria fresca e la commozione che so che mi aspetteranno sempre ogniqualvolta aprirò “Il Signore degli anelli”; dall’altra quel segreto moto dell’anima contro cui lottavo, e che però mi faceva struggere nella speranza che il volto di un ragazzo che mi facesse la differenza, si voltasse a guardami, trovasse che anche io facessi la differenza per lui. Qualcuno di immensamente amabile che mi “vedesse”, e mi amasse.

    In fondo pensavo, e lo scrissi pure, che si trattava di una “ferita”, una prova, una croce, che dovevo sopportare, per conformarmi a Cristo, sostenuto dalla Sua forza e dal Suo amore, e che nessun abbraccio umano mi avrebbe dato quello che vi cercavo. E per anni, in tutti i modi possibili – letture, confessioni, persino un annetto di terapia – ho cercato di immedesimarmi con lo sguardo “ufficiale” della chiesa, che parla di inclinazione intrinsecamente disordinata, e di una stortura nella struttura della persona, che le impedisce di essere pienamente se stessa.

    Risultato? Salute a pezzi, con acciacchi costanti; sempre bello, ovviamente, ma pallido come un morto, una romantica, solitaria tristezza condita da una feroce rabbia segreta, verso gli altri che “non mi vedevano”, e il rischio di perdere gran parte del senso dell’umorismo. Non vedevo l’ora di invecchiare, mi ci vedevo benissimo: affermato scrittore, con la battaglia della giovinezza alle spalle, a dispensare saggezza. Il presente era qualcosa da vivere trattenendo il respiro, sempre in tensione. Eppoi c’era quel moto sottile, ma tenace, di orgoglio spirituale, che mi faceva dire “ma in confronto a tanti mediocri che piagnucolano per i loro problemini, io, io che ho preso il mio cuore e gli ho piantato un paletto dentro, offrendolo in sacrificio, ma io in paradiso ci entro in carrozza”.

    Certo, sono stati anni pieni anche di tante, tantissime cose anche belle, importanti, meravigliose, vere – figuriamoci – ma con un’ultima, spietata, solitaria rigidità verso me stesso che mi rendeva anche rigido verso gli altri. Persino i miei gusti letterari si erano fatti pericolosamente ristretti e sospettosi, fino a rendermi critico e parziale e privo di sfumature e magnanimità, tutte le vere doti di un lettore che si rispetti.

    Come direbbe il mio maestro C. S. Lewis. Insomma non occorreva un premio Nobel per intuire come ci fosse qualcosa che non funzionava, no? Ne avevo di segnali del navigatore interno che dicevano “Rallenta”. Il daimon era un po’ che si sbracciava.

    E poi ci fu il dialogo con un sacerdote, che non mi diede alcuna ricetta ma ammise candidamente: “L’omosessualità è difficile da raccontare per chi la vive, impossibile per chi non la vive; quindi forse qualsiasi cosa ti dirò, sbaglierò”, per poi aggiungere “La chiesa non ha ancora parole per questo mistero”; e che i doni che avevo erano in nesso inscindibile col mio modo di amare. Parole semplici, direte, forse niente di sublime o audace, ma giunsero in un momento particolare, ed ebbi come la sensazione che mi cadessero dei ceppi dalle caviglie e dai polsi. Mi ero accorto che, molto più e molto prima degli altri, ero io stesso che non mi guardavo con simpatia, che mi guardavo come un problema da risolvere o gestire, piuttosto che fare il tifo per il mio modo di essere, il mio “essere Edoardo”, amare incluso. E se uno non guarda con simpatia il fatto che si innamora, che ama, le conseguenze non possono che essere parziali, e dannose. Per me quel momento, e le scelte che poi ho fatto, sono state come ritrovarsi finalmente in mare aperto, con nell’aria il profumo della brezza e un orizzonte autentico, vasto, misterioso. Decisi che volevo giocarmela in modo diverso, che dovevo guardare di più, dentro e fuori di me, e che forse potevano arrivare chissà quali sorprese. E se anche non fosse mai arrivato l’amore che cercavo, meglio vivere aspettandolo che arrendersi. Meglio cadere con le armi in pugno, e fanculo ai Persiani.

    Cosa c’entravano il mare, la scrittura, i film, le persone, le stagioni, i luoghi a cui tengo e che hanno “plasmato” il mio volto, l’odore di un bosco in autunno, un poema di guerra letto accanto al camino, le risate con gli amici, innaffiate di birra e magari una serie tv sui vichinghi, con il mio trovare amabili i volti degli uomini, e sperare di incontrare in uno di loro il grande amore? In astratto, niente, in concreto me stesso. Quindi qualunque autentica risposta alla mia vita sarebbe dovuta essere in grado di abbracciare tutte queste cose. Nessuna esclusa. Con tutto il rispetto per Kierkegaard, agli Aut Aut preferisco gli Et Et (anche nei gusti letterali o cinematografici, è sempre deliziosamente divertente amare sia “The Walking Dead” che “Downton Abbey”. Che poi nei sogni notturni i maggiordomi inglesi si mescolino cogli zombie costituisce un regalo aggiuntivo).

    Qui i segnali della bussola iniziarono a farsi più incoraggianti, “tenendomi in una aspettativa grande e buona”, come direbbe il Cristoforo Colombo di Leopardi. Appetito, salute fisica – il mio amato sport! – cura di me stesso, umorismo e letture sono tornati quelli di sempre, e anche con Dio le chiacchierate si sono fatte più autentiche, e meno basate sulla segreta orgogliosa rabbia di dire “Guarda che io ti ho già fatto un sacrificio coi fiocchi”; adesso, quando parlo con i Piani Alti, chiedo davvero, e di più: fammi usare bene il mio tempo, non farmi sprecare le cose belle che mi hai dato, fammi voler bene a chi incontro, fammi essere vero. E soprattutto, grazie. Mi sento un Edoardo molto “più Edo” di quanto sia mai stato. Mi sento tanto in viaggio quanto a casa. Quando poi ho incontrato la persona che amo e con la quale adesso vivo l’avventura quotidiana delle cose, tutto ciò ha conosciuto un altro, vertiginoso salto quantico. Ma non oso infliggervi la insopportabile, accecante, spietata radianza della più bella storia d’amore di tutti i tempi. Questo articolo non vuole aumentare l’infelicità altrui. Siamo divinità misericordiose, il mio ragazzo ed io.

    Tuttavia una cosa mi sento di dirla, avvertendovi un grande passo di maturità personale: non mi sento affatto arrivato ma sento di avere tutti gli strumenti per andare dove voglio andare. Desidero essere sempre più me stesso, navigare verso quel grande, vasto orizzonte da cui sento provenire tutte le cose più importanti, dai personaggi dei libri più cari, ai paesaggi, alle musiche, agli amici, tutti voci di quel grande, misterioso Tu che, come diceva Hugo, è l’Infinito fuori che dialoga con l’infinito dentro ciascuno, e che ritengo provvisto di un grande, regale senso dell’umorismo; e, a fasi alterne, credo pure che Cristo sia quell’Uomo Perfetto figlio di Zeus, di cui già Platone scriveva. Voglio scrivere, e amare il mio ragazzo. In queste assi sta dentro tutto.

    La sensazione di questi ultimi miei anni è stata quella di scalare una montagna bella alta, per poi voltarsi e guardare il tragitto percorso, e tante cose da un’altezza diversa. Come già notavo prima, il dibattito in Italia sullo spazio pubblico dell’omosessualità negli ultimi tempi ha certamente visto un’accelerazione, per alcuni tentativi di disegni di legge, per le scelte di molti partner europei, e anche per questo nuovo Pontefice, che sicuramente ha alzato un po’ il livello, anche in seno alla chiesa, come del resto avevano già contribuito a fare molte altre voci, dal cardinal Martini a Vittorio Messori. Ma in molti ambiti, laici e confessionali, ci sono ancora a mio avviso questioni, obiezioni, difficoltà – alcune più complesse, altre assai approssimative – cui mi sento di voler fornire delle risposte, o quantomeno le mie risposte, frutto di quello che ho imparato nel corso di una riflessione costante, sin da quando, già piccolo, ho iniziato a conoscere gli strali del “Tiranno cui tutti soggiaciamo”, come lo chiama sorridendo il Socrate di Platone. Il “Segnore dal pauroso aspetto” del mio concittadino Dante. Quello che a mio giudizio manca infatti è una più ampia prospettiva antropologica, e a certi cattolici e atei devoti, che si appellano alla religione per custodire quello che ritengono essere l’assetto razionale della realtà, rimprovero non una scelta comportamentale, ma carenza di impegno intellettuale coerente con certe loro stesse premesse.

    Come rispose una volta un mio amico omosessuale a un etero fin troppo curioso di sapere quale fosse il gesto più forte e intimo tra due uomini. Sai qual è? Il bacio. A chi dice di difendere ciò che sarebbe “secondo natura” ricordo che, a ben guardare, Madre Natura non è né etero, né gaya, né bisex. E’ sempre e fondamentalmente una grande simpaticissima porca. Ci trovi di tutto, dal sacrificio struggente dei cani che si lasciano morire di malinconia alle edere che vampirizzano gli alberi. Quanto al sesso poi c’è tutto il catalogo, dalle coppie monogame agli incesti più assurdi e strampalati. Eppoi cannibalismo, pedofilia, amoralità a mani basse. Non parliamo delle posizioni, per carità. La natura dell’uomo E’ LA CULTURA, è coltivarsi, scegliere, incanalare. Per questo io dico sempre anche ai miei amici etero che mi sentirei offeso, se etero, se mi venisse detto che il mio è un modo di amare “naturale”. Per me l’amore umano è sempre soprannaturale, l’uomo non scodinzola, altrimenti scadiamo nel darwinismo. Francamente non ci vedo niente di contraddittorio con l’incipit biblico “coltivate il mio giardino… crescete e moltiplicatevi”: dire che l’Onnipotente volesse dire “e moltiplicatevi E BASTA” mi pare altrettanto ridicolo e riduttivo che pensare che suggerisse ad Adamo di dedicarsi alle patate e alle siepi per tutta la durata della storia, e non si riferisse anche alla musica, al cinema, allo sport.

    Per questo, rispetto a chi sostiene che l’omosessualità non rientri nei piani originari di Dio e sia una stortura conseguente al peccato originale, io preferisco di gran lunga la grande intuizione alla base di tutta la filosofia occidentale, elaborata da un certo Platone proprio a partire dalla grande “scalata” al senso delle cose, che l’uomo innamoratosi di un altro uomo può intraprendere, imparando la giustizia, la nobiltà d’animo, e se non a generare figli, certamente a generare “bei pensieri”, quei pensieri senza i quali anche le generazioni biologiche avvizziscono nella brutalità e nel grigiume. Anche Dante, che pure non aveva letto Platone, testimonia la verità della sua intuizione, quando parla della cara immagine paterna del suo maestro, l’omosessuale Brunetto, che gli insegnava “come l’uomo s’etterna”.

    Ma guarda un po’. Alla faccia di chi dice che un omosessuale non possa essere spiritualmente un padre maturo e profondo. Che poi lo stesso Platone, e ancor più quel gran pedante di Aristotele (uno che riteneva le donne dei maschi incompiuti per via di un gettito seminale debole) applicasse alla sessualità praticata un controllo rigido, non c’entra: la questione non è la prassi, visto che pure gli eterosessuali si troverebbero a disagio nel mondo della “Repubblica”, e che bisogna stare attenti a non prendere lucciole per lanterne quando hai a che fare con le ironiche utopie dei grandi maestri antichi, ma l’impostazione teorica, conoscitiva. Mai un greco vertiginosamente religioso come Eschilo, Sofocle, Pindaro si sarebbe sognato di definire “azzoppato” ciò che univa Achille e Patroclo, e che ogni fanciullo ateniese mandava a memoria nelle prime scuole del mondo occidentale. Ops.

    Quanto poi al dettato biblico, ci sono ottimi siti di studiosi, come la Mary Renault Foundation, o Gionata, che presentano molti elementi per inquadrare quanto venga effettivamente detto dell’omosessualità nei testi biblici. E le sorprese non sono poche. Quanto alle posizioni esplicitamente avverse, come nei passi del Levitico o di san Paolo, io credo che assolutizzarle sarebbe altrettanto grave del prendere oggi alla lettera un’infinità di altri precetti, visto che in parte sono certamente legate al convulso tentativo di Israele di affrancarsi dai resti della cultura nomade originaria, harem maschili e femminili compresi; ma certamente l’obiezione radicale di certi passi rimane, legata a una specifica concezione della sessualità. Ma appellarsi a questi dettati della Scrittura solo “perché c’è scritto così” mi pare lasci ben poco spazio a un dibattito culturale e razionale. Uno si chiude nel dettato biblico – o coranico – stappa le orecchie davanti all’enorme inno corale di intuizioni, domande, scoperte, obiezioni che da sempre si leva in mezzo agli uomini – di cui gente come Michelangelo, Alessandro Magno, Shakespeare, Montaigne, Wilde, Coccioli, Kavafis, Proust, Mary Renault e infiniti altri geni non sono che alcuni delle “vette” più visibili, fin dai tempi delle lacrime di Gilgamesh per Enkidu, ma capite bene che se parto con l’elenco non finisco più – e buonanotte ai suonatori. Per comprendere poi meglio il concetto basilare ma facilmente riduttivo di “Natura” e le sue diverse interpretazioni, prima in Grecia e poi nell’ambito giudaico-cristiano, rimando al ricco “Secondo natura” di Eva Cantarella.

    L’omosessualità non è necessariamente ritenere la propria specifica identità sessuale un fattore meramente culturale o sociale, o un difetto genetico di cui doversi dolorosamente disfare. Certo, ci sono persone banali dappertutto, e di omosessuali spaventosamente ottusi, conformisti, schiavi di una maschera ideologica, ne ho conosciuti. Certi giorni a Milano pare che escano delle armate prefabbricate. Mi domando se le carichino a molla. Boh. Ma potrei dirlo di qualsiasi altro tipo umano. Ci sono poi persone che ritengono e leggono nella propria esistenza l’esigenza profonda di cambiare sesso, e io non ho alcun motivo per non rispettarle profondamente e non credere loro. Del resto, anche le persone religiose ritengono che ogni uomo porti in sé le ferite di una battaglia originaria col male, il caos, l’irrazionale. Se uno interpreta, come fanno da sempre le religioni, come echi di tali battaglie i difetti fisici o psichici congeniti non capisco perché ciò non possa estendersi a dimensioni più vaste ancora. Per cui se una persona in coscienza desidera cambiare sesso, perché sente non “suo” il proprio corpo, e che la propria anima più profonda grida altro, non ho problemi a credergli. Non esistono regole generali, credo, ogni persona è un mistero, un’eccezione a sé. Ma credo di dover contribuire a sfatare un’eventuale imprecisione riguardo molti omosessuali, che diventa grossolano e dannoso pressappochismo: io non mi sento affatto prigioniero di un corpo maschile, figuriamoci, anzi amo cose tradizionalmente, anche se non necessariamente maschili: mi piacciono le battaglie, la birra, il fumo, l’umorismo nero. Non sarei più felice se fossi nato donna, sono semplicemente un uomo che è innamorato di un altro uomo. E amo amarlo così come sono. Come dice una bellissima espressione delle nozze anglicane: “Con questo anello ti sposo, col mio corpo io ti onoro”.

    Non lo so se esiste un grande complotto mondiale per azzerare le differenze sessuali, come sostengono certuni. I grandi complotti mondiali mi puzzano troppo di “Protocolli dei savi di Sion”. Mi pare si tirino in ballo quando le vecchie certezze crollano, e allora bisogna leggere ovunque i segni di una cospirazione ostile. Comunque non vorrei mai obbligare un’altra persona a pensarla come me, e distinguo tra l’aggressione ideologica alle persone, e la divergenza anche radicale su scelte e comportamenti. In parole povere se qualcuno vuole ritenermi “un malato che rifiuta di farsi curare”, faccia pure. Non imporrei mai a un prete di dire quello che penso io dal pulpito, sebbene ritenga che il suo stesso cristianesimo esigerebbe spesso posizioni più profonde riguardo alla morale sessuale. Ma se con questo diritto alla libertà di pensiero, e anche eventualmente alla stupidità si pensa di tacitare la maturazione di una società NON RELATIVISTA ma gloriosamente e orgogliosamente PLURALISTA, dove ci sia pubblico spazio e pubblico rispetto per ciascuno, allora ci si sbaglia di grosso. Non farei mai togliere un crocifisso dalle catenelle al collo, come in certi uffici francesi, così come pretendo che due ragazzi che si baciano non vengano insultati. Sono manifestazioni diverse delle cose più profonde cui ciascuno crede, e su cui punta la propria vita. Un bacio non è meno sacro. E così veniamo a delle questioni più direttamente sociali e comunitarie. Politiche.

    Eccoci dunque alle declinazioni “pubbliche” di tutta questa matassa. Quanto alle leggi sull’omofobia, o le unioni civili – ossia i matrimoni di stato, parliamoci chiaro – credo occorrano due lenti, anzi tre, una pure per il terzo occhio indù. Premetto quella che ritengo sia una delle più semplici e belle definizioni degli obblighi che la società deve alle istanze profonde e motivate degli esseri umani, contenuta nella “Dichiarazione” a cui la grande S. Weil – eccola di nuovo – scrisse come contributo per l’Unione europea: “I bisogni di un essere umano sono sacri. Il loro soddisfacimento non può essere subordinato né alla ragion di stato, né ad alcuna considerazione di denaro, di nazionalità, di razza, di colore, né al valore morale, né ad altra caratteristica attribuita a una data persona, né a qualsiasi altra condizione. L’unico legittimo limite al soddisfacimento dei bisogni di un determinato essere umano è quello imposto dalla necessità e dai bisogni degli altri esseri umani… l’eguaglianza è il pubblico riconoscimento, efficacemente espresso nelle istituzioni e nelle consuetudini, del principio secondo cui lo stesso grado di attenzione è dovuto ai bisogni di tutti gli esseri umani”.

    Anzitutto non si può non comprendere come la sovrapposizione tra vita statale e tradizione religiosa, che sono di fatto coincise per molti secoli, seppure con una salutare distinzione laica, cui certamente anche, ma non solo, il cristianesimo ha contribuito in modo decisivo, distinguendo Cesare e Dio, ora non sussiste più, e questo è un bene per tutti. Diciamocelo chiaramente: i matrimoni statali per parecchio tempo sono stati la brutta copia di quelli religiosi, dalla cui costola sono nati. Io ritengo che sia maturo il tempo perché quella nuova composizione sociale che si chiama stato, diversa dai regni, dalle polis e dagli imperi, e relativamente recente nella storia dell’umanità, possa non azzittire le voci e le realtà precedenti, come ad esempio lo spazio pubblico delle confessioni, e al contempo elaborare una sua elementare filosofia, per cui, ad esempio, riconoscere che il legame affettivo stabile tra due persone FA BENE alla società. E’ società, costituisce una casa e persino una famiglia, aperta ad accogliere gli altri. Questo osservando semplicemente ciò che le cose sono. I difensori della “famiglia tradizionale” hanno spesso nei loro scaffali opere che raccontano a ogni piè sospinto come la casa di un uomo sia lo sguardo d’amore e attenzione che lo accoglie e gli fa spazio, stimandolo e sostenendolo. Basti pensare agli orfanelli di Dickens, che spesso sono raccolti da scapoli o zitelle di cui non vengono documentati i gradi di parentela o le preferenze sessuali, e che pure sono di fatto una casa, una famiglia. “La mia casa sei tu”, come dice lo storpio Smike a Nicholas Nickleby. Io sono cresciuto “con tre nonne”, perché mio nonno era separato e conviveva con una signora. E ho una carabina con cui rispondere a chiunque possa insinuare che la compagna che mio nonno ha vegliato per tanti anni di coma, fino alla morte, non fosse parte della mia famiglia.

    C’è poi un secondo aspetto sulle leggi riguardo allo spazio pubblico dell’omosessualità, quali che esse siano, e sempre con la consapevolezza che nessun sistema sarà mai risolutivo e perfetto, ma sempre un tentativo di approssimarsi alla Giustizia, come direbbe il vecchio Platone. Ed è quello che chiamerei “retributivo”. Certo, gli omosessuali non sono mica stati gli unici a essere stati umiliati, azzittiti e spesso vergognosamente processati e perfino uccisi. Tuttavia si tratta di una categoria che non ha sofferto solo il dramma di essere osteggiata per ciò che faceva, ma per il ben più lancinante problema di ciò che era. Spesso, anche nelle manifestazioni più “urlate” di certi aspetti dei gay pride – che tuttavia conoscono anche molte altre sfumature, va detto – c’è comunque l’eco del fatto che per secoli certe persone non sono potute essere se stesse. E questo ha lasciato dei danni, delle ferite di cui tuttora una grande maggioranza degli omosessuali soffre. Non tutti sono stati provvisti del supporto necessario, o delle forze interiori necessarie, per ribattere a testa alta, o viversela infischiandosene. Solo io potrei raccontarvi di ragazzi ancora oggi mandati all’ospedale dai genitori, o di omosessuali più anziani che portano lo strazio di aver chiuso gli occhi alla propria madre senza poterle confidare una cosa tanto importante di sé. Non stiamo parlando di secoli fa, ma non più tardi di ieri, e tutti sappiamo che ieri è la profondità dell’oggi. Ecco perché l’obiezione che ai registri delle unioni civili si siano iscritti pochi omosessuali mi risulta francamente insufficiente. Sarebbe come dire: visto che spesso votano molti meno degli aventi diritto, aboliamo o restringiamo il voto. I diritti non sono doveri, banale ma importante. Molti omosessuali, così come molti eterosessuali, vivono relazioni lunghe una vita, senza magari il bisogno di ufficializzarle. Eppure sono convinto che a molti farebbe bene anche solo sapere che, qualora volessero, potrebbero vederle riconosciute. Questa possibilità eventuale, questa porta sempre aperta “dice” qualcosa, e le leggi hanno sempre una loro componente simbolica e non puramente amministrativa. Lo avevo già raccontato altrove, e cito qui quelle mie parole.

    Poco dopo il processo Wilde, che scioccò un’intera generazione di omosessuali e no, Proust racconta come il suo indimenticabile Barone di Charlus venga pubblicamente svergognato dal suo amante, che può finalmente permettersi di cambiare protezione. L’indicibile viene detto. Da quell’iperbolico vecchio titano che in collera “mandava fiamme, si dimenava in preda ad autentici attacchi nervosi per cui tutti tremavano” ci si aspetterebbe una scenata, ma è tale il dolore e la delusione “che in quel salotto che disprezzava, questo grande signore… in una totale paralisi della mente e della lingua, non seppe far altro che gettare sguardi atterriti, indignati per la violenza che gli veniva inferta, supplichevoli e interrogativi”. Intorno non incontra che il gelo degli ipocriti o dei moralisti, “ma c’era una persona che l’ascoltava… era la regina di Napoli… nessuno l’aveva sentita entrare a causa del trambusto provocato dall’incidente, di cui aveva immediatamente compreso il motivo sentendosi riempire di indignazione”. E la vecchia Borbone, dinanzi all’uomo ferito e messo a nudo nei suoi moti più privati “porse il braccio a Charlus… ‘Sembrate non star bene, caro cugino, appoggiatevi al mio braccio’, disse rivolta a Charlus. ‘Potete star certo che vi sosterrà sempre. E’ abbastanza solido’. Poi, sollevando fieramente gli occhi… aggiunse: ‘Sapete che un giorno a Gaeta ha già tenuto a bada la canaglia. Saprà servirvi da protezione’”. Ecco, la storia delle battaglie civili sull’omosessualità del ’900 che ha visto Stonewall e le condanne britanniche fino agli anni 60, le impiccagioni di taluni stati teocratici, i gay pride e le posizioni di Obama e Cameron, è in fondo la storia, incasinata come per ogni problema autenticamente umano, dalle suffragette alla libertà religiosa, dell’anelito a “quella” mano, quella fiera e intrepida della vecchia regina: la domanda che in qualche maniera alla riprovazione dei secoli o degli anni passati lo civiltà ribatta con un gesto al tempo stesso effettivo e simbolico. Certo, a un certo livello questa “mano della regina” si può solo incontrare, non pretendere. Non c’è istituzione che possa garantire contro l’ottusità e l’incomprensione, ma che le leggi non possano e non debbano risolvere tutto non vuol dire che non vadano fatte. La maturazione culturale e umana di una nazione e le sue leggi spesso sono mescolate da dinamiche difficilmente separabili con l’accetta. Viene prima l’uovo o la gallina, le leggi contro il razzismo o “Qualcuno volò sul nido del cuculo”?

    E così veniamo alla scuola, e alle “fiabe gay”. Io qui faccio solo una domanda: molti additano una sorta di ennesima “minaccia dall’alto”, per cui alle scuole si impongono proposte comportamentali che molti genitori giudicano sbagliate, come far conoscere modelli alternativi di famiglia e affettività. La mia domanda ribalta la situazione. Cari genitori, avete presente quanto possono pesare le battute, gli scherzi quando si è ragazzini, e come già da bambini si comunichi, nel confronto con i compagni, tutto un cosmo di riferimenti? Bene, se vostro figlio o vostra figlia a scuola già iniziasse a percepire di essere attratto da persone dello stesso sesso, vorreste un ambiente che, prima ancora di qualsiasi scelta di comportamento, lo obbligasse a un mutismo autogiudicante? Questo è quello che, salvo nobili eccezioni, è successo praticamente dappertutto, e su cento che hanno sollevato la testa oltre i flutti, mille sono affogati giù giù giù, sviluppando quella atroce mancanza di contatto con se stessi che induce alla bulimia sessuale, alla repressione, alla nevrosi. Vi assicuro che il gay non è più se stesso, più creativo, quando soffre. Questo è un ultimo, odiosissimo ghetto. Non è detto che ci si debba aggirare come lupi solitari alla Pasolini. Non è mica detto che Michelangelo abbia dipinto così bene la Sistina perché stava male per Tommaso De’ Cavalieri. E’ bello, confortante scoprire che quello che fa battere il cuore a te non è solo prezioso e va rispettato, ma è stato condiviso da altri, e in fondo non differisce AFFATTO da quello che provano altri ragazzi e ragazze per persone del sesso opposto. Provate a guardarla dal basso. Certamente le scuole confessionali hanno il diritto di proporre un’educazione conforme alla loro impostazione antropologica – ma quante volte si cita nelle scuole cattoliche anche il rispetto per gli omosessuali di cui parla lo stesso catechismo, o il “non giudicate” più volte ribadito da questo Pontefice? – mentre per le scuole statali io non ho nessuna ricetta ministeriale, ma ho ben presente che il problema non può essere ignorato rifugiandoci semplicemente in quello che già conosciamo, o alla buona volontà dei singoli. Non capisco perché, in modo intelligente, come per qualsiasi altra cosa, non possa essere oggetto di informazione e confronto. Se un sacerdote viene invitato a parlare della castità, o un sapiente musulmano della magnifica solennità del loro modo di vivere la preghiera e il tempo, o un rabbino della ricchezza della cultura ebraica anche nei suoi rituali a noi più distanti, o un comunista su diverse idee di mercato globale, non capisco perché non si possa parlare anche di diverse scelte relazionali o affettive. Non c’è niente di sporco o tenebroso. La scuola, che è la prima grande agorà della vita di una persona, non dovrebbe essere gelidamente neutrale, un aggettivo dietro cui si nasconde di solito la sottile dittatura della maggioranza comoda, ma aperta a ospitare e valorizzare tutte le voci intelligenti e sincere. E insegnanti informati e capaci di mantenere ed esprimere e additare questa magnanimità, pur nella legittima conservazione delle proprie personali opinioni, sono quelli che i ragazzi ricordano con affetto e stima.

    Ho indicato diverse sfumature, che credo vadano tutte tenute presenti. Non ho dubbi che parecchi degli interlocutori cui idealmente mi rivolgo potrebbero fare spallucce e dire “Embè? Perché tirare in ballo credenti e atei devoti? Che uno sia d’accordo o no quasi tutte le cose da te evocate pervengono a una dimensione personale”. Invece no. Secondo me molti – non tutti, ma molti – pensatori cattolici che si appellano alla libertà religiosa di Costantino, sotto sotto sospirano l’editto restrittivo “alla Teodosio”, col cristianesimo che si instaura come religione ufficiale della società, ed è qui che il loro pensiero va a sovrapporsi con quello di non credenti, che spesso espongono preoccupazioni complesse e niente affatto banali, ma in cui in fondo ravviso una sorta di “vibrazione di fondo” con un retrogusto di sapore spesso marxista. Anche il marxismo è difatti profondamente dogmatico riguardo alla società, tutto proteso a elaborare norme che la controllino e “garantiscano” il perpetuarsi di una struttura di riferimento. Lo notava acutamente S. Weil – e aridaje! – “Ovunque ci sia disagio dell’intelligenza, c’è oppressione dell’individuo da parte del sociale, che tende a diventare totalitario… i partiti totalitari si sono formati per un meccanismo analogo all’uso della formula anatema sit”.

    Io invece penso e ripeto ancora una volta che possiamo e dobbiamo approfondire quanto scrisse il grande Thomas Mann alla fine della Seconda guerra mondiale. “Necessaria è dapprima una trasformazione del clima spirituale: un nuovo senso per la complessità e la nobiltà dell’essere umano, un sentimento che tutto pervada, a cui nessuno si sottragga, che ciascuno riconosca nel suo intimo come il giudice supremo… Essa non può venire né creata né imposta, ma vissuta e sofferta”. Una società siffatta, che aiuti le persone a guardare con simpatia a ciò che esse già provano di più importante, è una società matura, ricca. Dove tutti, proprio perché sostenuti o non ostacolati nel cammino per essere sempre più se stessi, con svolte, soste, approfondimenti, possono contribuire meglio al bene comune. Per me questa “sacralità” può essere effettivamente condivisa. Gli alberi quando hanno più cerchi nel tronco sono più vasti e belli, sono cresciuti, sono diventati più se stessi.
    E adesso, a proposito di alberi, vado a farmi una passeggiata.