Prove di un successo
Sono rari gli amori ferroviari, difficile l’incontro fra sconosciuti in treno; ma due libri gettati alla rinfusa nella tasca esterna di una valigia possono intendersela a meraviglia, senza bisogno di occhiate allusive, e perfino accoppiarsi selvaggiamente in un vagone affollato. Sapeste come amoreggiavano, i due volumetti che mi ero scelto per un lungo viaggio! Il primo, “Casi giudiziari”, era un’antologia di racconti siciliani curata da Salvatore Ferlita. Tra questi una novella di Capuana, “Delitto ideale”, dove un uomo che ha lungamente fantasticato un assassinio, senza però mai commetterlo, si sottopone da solo a processo – nel foro interiore, l’unico competente per queste faccende – e si dà la condanna che nessun giudice avrebbe potuto infliggergli.
Sono rari gli amori ferroviari, difficile l’incontro fra sconosciuti in treno; ma due libri gettati alla rinfusa nella tasca esterna di una valigia possono intendersela a meraviglia, senza bisogno di occhiate allusive, e perfino accoppiarsi selvaggiamente in un vagone affollato. Sapeste come amoreggiavano, i due volumetti che mi ero scelto per un lungo viaggio! Il primo, “Casi giudiziari”, era un’antologia di racconti siciliani curata da Salvatore Ferlita. Tra questi una novella di Capuana, “Delitto ideale”, dove un uomo che ha lungamente fantasticato un assassinio, senza però mai commetterlo, si sottopone da solo a processo – nel foro interiore, l’unico competente per queste faccende – e si dà la condanna che nessun giudice avrebbe potuto infliggergli: “La mia prigionia non differirà in niente da quella legale. Sarà dura, inesorabile, ed io diverrò tra pochi giorni il carceriere di me stesso…”. Suo compagno di viaggio era “La panne”, il capolavoro di Dürrenmatt appena ripubblicato da Adelphi. Qui un rappresentante di tessuti finisce tra le mani di quattro uomini di legge in pensione che si divertono, la sera, a rifare processi celebri o a istruirne di nuovi. Il poveruomo è messo a giudizio, e via via che il dibattimento si dipana la sua esistenza meschina è trasfigurata in romanzo, in un’epopea criminale che lo incorona eroe. Se ne avvede, inutilmente, il difensore: “Fatti assolutamente indipendenti erano stati collegati fra di loro, si era voluto contrabbandare nel tutto un disegno logico, eventi fortuiti erano stati presentati come cause di azioni che avrebbero potuto avere benissimo un decorso diverso, nel puro caso si era voluta vedere l’intenzione, nella sventatezza il proposito deliberato, sicché alla fine dall’interrogatorio era necessariamente saltato fuori un assassino, così come dal cilindro del mago salta fuori un coniglio”.
Due racconti giudiziari, ma più ancora due racconti sul processo come genere letterario, come matrice di storie, come forma narrativa in grado di imprimere significato e coerenza a quello “scialo di triti fatti” in cui consiste, per lo più, la vita. Da questo accoppiamento giudizioso si potrebbero trarre le lezioni più varie, teologiche o psicoanalitiche, ma fermiamoci alla schiuma dei giorni, che è la materia di cui sono fatti i quotidiani. Ebbene, ci è stato ripetuto fino alla noia che, proprio come le mezze stagioni, non ci sono più le grandi narrazioni; anzi, l’opinione filistea vuole che la fine del comunismo abbia lasciato il campo a un “grand récit” che ha l’astuzia di non presentarsi come tale, quel fantasma che chiamano neoliberismo. Sciocchezze, specie se smerciate in Italia. Si direbbe piuttosto che dopo il crollo del Muro, sulle ceneri della Prima Repubblica, sia spuntata la fenice di una nuova forma narrativa, con mire egemoniche: il processo, o meglio quel modo specifico di mettere ordine tra i fatti, le azioni e le colpe che è la ricostruzione giudiziaria. La cosa non è certo nuova – “talora formasi un verace romanzo, o piuttosto un tragico poema, in cui l’accusato è l’infelice protagonista”: così Francesco Mario Pagano nel 1787 – ma ha assunto da allora proporzioni grandiose. La prova generale è stato il processo Cusani, e l’ultimo atto, perfino più titanico, il feuilleton della trattativa. In mezzo c’è stato il ventennio che conosciamo, che ha visto, tra le altre cose, fascicoli d’accusa stampati con il titolo “La vera storia d’Italia”. Forse dovremmo abbandonare la cara formula di Soulez Larivière, circo mediatico-giudiziario, e parlare piuttosto di un epos mediatico-giudiziario, che al pari di certe serie televisive alimenta un universo narrativo labirintico e disseminato, il cui spin-off più inquietante sono i libri dei magistrati sulle inchieste in corso.
Come nel racconto di Dürrenmatt, è affare di storie in attrito: quella, prosaica, del viaggiatore di commercio e quella, lugubre e solenne, che prende forma nel processo, in cui “la vita si realizzava in tutta la perfezione e la coerenza di un’opera d’arte”. Quando Scola volle trarre dal libro un film, nel 1972, trovò il colpo di genio di far processare Alberto Sordi – il Sordi di sempre, la macchietta antropologica dell’italiano furbo e renitente alla legge – da una corte straniera, fatta di vecchie glorie del cinema francese. Il mondo morale della commedia era convocato a giudizio, e raccontato come storia criminale non faceva più ridere. Non ne venne un gran film, ma una buona allegoria di una repubblica in panne.
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