Fuga dalla miseria

Stefano Cingolani

Fame, povertà, diseguaglianza, disoccupazione, i quattro cavalieri per l’apocalisse del secondo Millennio spuntano ovunque sulle pagine dei giornali, nelle pubblicazioni più patinate così come sugli schermi dei computer. Il capitalismo del XXI secolo viene rappresentato come quello del primo Ottocento. Vuoi vedere che aveva ragione Karl Marx, si chiede Michele Salvati sulla rivista del Mulino, per concludere che no, non è possibile, anche perché non si stagliano all’orizzonte i “becchini del capitale”; anzi, i paesi usciti “dall’economia rurale” vogliono “il pieno coinvolgimento nella nuova economia mondo”. 

    Fame, povertà, diseguaglianza, disoccupazione, i quattro cavalieri per l’apocalisse del secondo Millennio spuntano ovunque sulle pagine dei giornali, nelle pubblicazioni più patinate così come sugli schermi dei computer. Il capitalismo del XXI secolo viene rappresentato come quello del primo Ottocento. Vuoi vedere che aveva ragione Karl Marx, si chiede Michele Salvati sulla rivista del Mulino, per concludere che no, non è possibile, anche perché non si stagliano all’orizzonte i “becchini del capitale”; anzi, i paesi usciti “dall’economia rurale” vogliono “il pieno coinvolgimento nella nuova economia mondo”. Eppure tutti i nostri dubbi rimangono e vengono confermati da questo “mare di numeri senza interpretazione” (definizione del Censis) nel quale siamo immersi. Un sondaggio al giorno per 365 giorni, ha calcolato ancora l’istituto fondato da Giuseppe De Rita che avverte: “La fede nella capacità predittiva di un modello o l’idea che più numeri possano descrivere meglio la realtà o consentire più democrazia e controllo dal basso dell’operato delle istituzioni di governo è ancora tutta da dimostrare”. E allora vediamoli questi esseri infernali ai quali fanno velo le particelle statistiche.
    Tra i tanti dati che quell’oceano di simboli ha soffocato, uno è sfuggito, a quanto sembra, al dibattito pubblico. Strano, perché si tratta degli obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals), che rappresentano il fiore all’occhiello delle Nazioni Unite. Ebbene, l’Onu ha constatato di aver raggiunto con cinque anni di anticipo la meta fissata nel 2000, cioè dimezzare il numero di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, quelle definite in estrema povertà: dal 1990 al 2010 sono passate dal 43 al 21 per cento, pari a circa un miliardo di donne e uomini, un settimo dell’intera popolazione mondiale. Non è finita, perché ancora un miliardo e 100 mila vivono in condizioni misere e l’Onu ha deciso di far scomparire del tutto questo abisso di degradazione umana entro il 2030. Forse accadrà anche prima, dipende. Da che cosa? Se il passato serve da esempio, la ferita che insanguina la nostra morale verrà curata da un nuovo energico, forsennato, sviluppo mondiale. Può darsi che non accada per i limiti e le contraddizioni che abbiamo visto in opera. Ma se è così allora saranno seri guai. Perché a cambiare le sorti di tanta parte dell’umanità è stato proprio il “capitalismo selvaggio”. Il contributo fondamentale è venuto dalla Cina dove 680 milioni di persone sono uscite dalla miseria tra il 1981 e il 2010 portando il tasso di estrema povertà di quel paese dall’84 al 10 per cento. Ora tocca all’India, all’Indonesia, al Brasile, alla Nigeria. Chi sostiene che la crisi del 2008 ha suonato la campana a morto, ignora che la recessione ha colpito l’Europa e gli Stati Uniti, il resto del mondo (pur con differenze importanti tra aree e nazioni) ha rallentato la sua corsa, ma non si è fermato. E noi non vediamo la riduzione della povertà su scala globale proprio perché non alziamo lo sguardo dall’impoverimento relativo, molto relativo, dell’occidente

    Non tutto è avvenuto grazie allo spontaneo dispiegarsi delle forze produttive che tanto affascinava Marx. “Oggi sappiamo meglio come combattere la povertà”, ha scritto l’Economist citando politiche come la Bolsa familia in Brasile (un programma di incentivi decentralizzato), la riforma dello hukou (il sistema di registrazione delle famiglie che dà accesso al welfare) in Cina o i buoni carburante in Indonesia. Ciascun paese ha applicato schemi di trasferimento monetario e di sostegno per accelerare e meglio allocare la ricchezza prodotta. Ma la leva del cambiamento è stata senza dubbio la crescita anche se soloni dell’informazione continuano a sostenere il contrario. Sono ben accompagnati da premi Nobel e star dello show business, tuttavia non serve da attenuante, anzi.

    Non siamo più poveri dunque. E nemmeno più affamati. La fine della fame e della povertà vanno naturalmente di pari passo. Anzi, la rivoluzione verde (agricola non ecologica) ha fatto da battistrada fin dagli anni 70. Riforme agrarie, nuovi metodi produttivi e innovazione tecnologica hanno cambiato il volto delle campagne in India, in Cina, in Sudamerica. Ma quel che i persuasori occulti non dicono è che il contributo fondamentale è dovuto agli organismi geneticamente modificati, sì proprio i tanti odiati ogm. Sono loro ad aver consentito i raccolti dell’abbondanza per il riso, il grano, il mais, le componenti fondamentali che entrano in tutta la catena alimentare. Oggi non c’è scarsità di cibo, nonostante il cambiamento climatico e gli squilibri che determina (siccità da un lato alluvioni dall’altro). C’è un problema di sua circolazione (impedita dai protezionismi europei e anche americani) e di sua distribuzione. E questo introduce l’altro cavaliere nero: la diseguaglianza.

    Se ne è occupato anche il Fondo monetario internazionale nella sua sessione di primavera. “Fa parte del nostro mandato – ha commentato Christine Lagarde, direttore generale – Dobbiamo tutelare la stabilità mondiale e l’ineguaglianza la minaccia”. Anche qui, fioriscono le statistiche e il povero Corrado Gini, vero vanto per la scuola italiana (e per l’Istat che da lui è stato fondato), viene tirato da tutte le parti. Il coefficiente che prende il suo nome è usato ovunque per stabilire il grado di concentrazione del reddito. Si va da zero dove vige la massima uguaglianza, a uno dove si verifica esattamente il contrario. Meglio stanno i paesi del nord Europa e il Giappone, l’Italia è nel pattuglione di mezzo, ma al suo interno le disparità aumentano, così come negli Stati Uniti, dove la distribuzione dei redditi è più squilibrata rispetto all’Europa occidentale. Ciò è legato, come si sa, a una diversa impostazione culturale, non solo alla struttura economica, però anche negli Usa pensatori liberal, a cominciare da Joseph Stiglitz o Paul Krugman, hanno cominciato a calcolare i costi dell’ineguaglianza. Negli anni 80, al contrario, i neoliberisti calcolavano la zavorra con la quale l’egualitarismo ha impiombato lo sviluppo. Il pendolo cambia direzione, ma a condizionare i “nudi dati” è sempre il paradigma che talvolta diventa pregiudizio.

    Se prendiamo la Cina, troviamo che un paese schiacciato verso il basso dal maoismo adesso vede circolare su gialle Ferrari nuovi crapuloni dei quali fino a qualche anno fa si ignorava l’esistenza. E non sono i boss del partito o dell’esercito, i mandarini meravigliosamente trasformati in banchieri e industriali. No, sono milioni di imprenditori, costruttori, finanzieri, speculatori che vengono dalle comuni della rivoluzione culturale alle quali è stato consentito di affidare in concessione la propria terra. Ciò ha creato un’immensa nuova classe media che ha trasformato il paesaggio umano e quello naturale: le campagne non hanno assediato le città come voleva Mao, ma sono diventate esse stesse città, prima lungo la costa e poi verso l’interno. Qualcosa di simile, pur in forme diverse a seconda delle caratteristiche nazionali, sta avvenendo in tutti i paesi in via di sviluppo. Chi li ha visitati in questi anni lo sa bene. Eppure, fa notizia l’ineguaglianza.

    Un libro pubblicato lo scorso autunno in Francia sta mandando in sollucchero la sinistra e irrita la destra. E’ intitolato non senza una certa pompa “Il Capitale nel XXI secolo”, ed è stato scritto da Thomas Piketty, economista quarantenne che ha studiato all’Ena e al Massachusetts Institute of Technology, specializzato nell’analisi della diseguaglianza economica di lungo periodo. Socialista, scrive su Libération e ormai è un guru vero e proprio. E’ sua la proposta di una tassa mondiale sulla ricchezza ed è suo il “regno dell’un per cento” contro il quale si scagliava Occupy Wall Street. Tradotto in inglese, il volume irrompe sui media americani. Il Wall Street Journal lo fa recensire da Christopher DeMuth, l’uomo che ha rilanciato l’American Enterprise Institute, il covo della nuova destra. Il lavoro di Piketty, un migliaio di pagine anche se scritte in stile brillante e comprensibile a tutti, è frutto di 15 anni di ricerche sulla distribuzione della ricchezza nel corso di tre secoli, utilizzando i dati disponibili a cominciare dai documenti più antichi. Ha il merito di affrontare non solo il reddito, ma soprattutto i patrimoni, introducendo così nel dibattito un fattore chiave finora trascurato. DeMuth, nemico giurato del gauchisme, ne consiglia la lettura e lo prende sul serio, anche se ne confuta la tesi di fondo.
    La causa dell’ineguaglianza, secondo Piketty, è che il tasso di rendimento del capitale (in media 4-5 per cento l’anno) risulta più alto del tasso di crescita della produzione e del reddito nel lungo periodo. La ricchezza della quale si sono appropriati i capitalisti e i loro “funzionari”, per citare ancora Marx, resta la causa prima della diseguaglianza. Naturalmente non è sempre così, sono all’opera forze che puntano alla convergenza e forze contrarie. Più intenso è lo sviluppo, più si riduce lo squilibrio originario, quindi esistono cicli lunghi in cui le disparità sono minori (come negli anni dopo la Seconda guerra mondiale che i francesi chiamano i trenta gloriosi). Ma con la rivoluzione neoliberista s’è prodotta una frattura insanata, sostiene Piketty. E’ vero che proprio allora comincia il lungo ciclo della globalizzazione, i nuovi trenta gloriosi, però questa volta si accompagna a una inversione di tendenza in senso redistributivo. E, in ultima istanza, proprio l’aumento della diseguaglianza ha covato il crac del 2008 e lo ha reso più grave.

    Ogni spiegazione monocausale di fenomeni complessi è destinata a essere smentita. La grande crisi come sappiamo non ha un solo padre. E più tempo passa più convince la tesi di chi la considera una grande trasformazione del capitalismo mondiale nella quale il patrimonio ereditario, vero bersaglio della critica di Piketty, diventa sempre meno importante, una resistenza retrograda alla rivoluzione economico-sociale che sta davanti ai nostri occhi, una ciambella per galleggiare.

    Dagli anni 80 in poi, il capitale non è più lo stesso, in America e non solo; si è socializzato, milioni di persone o direttamente o attraverso i fondi pensione dipendono ormai dall’andamento della Borsa. La sinistra ha sempre messo le mani avanti, sostenendo che non era giusto incatenare inermi lavoratori all’altalena del capitale e il crac finanziario sembra averle dato ragione. Tuttavia, bisogna ragionare su venti-trent’anni e in questo caso chi ha collegato la sua pensione a Wall Street si ritrova un risparmio migliore di chi l’ha legata alla dinamica del salario. E’ il succo della critica di DeMuth che invita a sposare una piena “democratizzazione del capitale”.

    L’economista francese non nega la novità, anzi, le sue ricerche confermano che nel corso del secolo scorso c’è stato un grande trasferimento: il 30 per cento della ricchezza è passato di mano creando la classe media, protagonista, anche politica, del Novecento. E spezza più lance contro il senso comune pauperista. Per esempio, non è vero quel che si sente ripetere in continuazione cioè che lasceremo ai figli una montagna di debiti, al contrario “lasceremo loro un patrimonio che non ha eguali nel passato”, spiega Piketty, solo che è mal distribuito.

    La diseguaglianza è cresciuta, dunque, ma le ragioni sono complesse. C’è la differenza dei punti di arrivo anche quando sono simili i punti di partenza. C’è il merito non solo l’eredità, la fortuna o l’appropriazione. Piketty è d’accordo, tuttavia considera secondario indagare all’interno delle stesse classi, capitalisti compresi, anche se proprio lì si annidano i conflitti meno gestibili e le diseguaglianze più stridenti socialmente perché determinate dalla conoscenza. Chi ha un livello di educazione superiore guadagna di più se si trova nei gangli fondamentali per la modernizzazione. C’è una grande letteratura ormai su questo tema che i media ignorano.

    Lo stesso vale per la disoccupazione. La recessione l’ha fatta balzare a livelli storici, non c’è dubbio. Per riassorbirla occorre uno sviluppo a ritmo molto più alto di quello attuale, anche se il rapporto di primavera del Fmi prevede che la crescita mondiale quest’anno sarà del 3,6 per cento e gli Stati Uniti raggiungeranno quota tre, con l’Europa vagone di coda, ma in ogni caso agganciata al treno. Tuttavia, anche in questo caso bisogna penetrare oltre le cifre per capire chi sono i disoccupati, perché hanno perso il lavoro e come potranno ritrovarlo.

    E’ passata sotto silenzio (in Italia, ma non sull’International New York Times) una indagine di Eurofond, il centro di ricerca della Commissione europea, secondo la quale in Europa mancano candidati qualificati per coprire i posti di lavoro nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Quest’anno ci sarà circa un milione di posti vacanti, nel 2011 erano appena 250 mila (e sono anni di recessione). I laureati nelle discipline della information technology sono centomila l’anno, dunque la forbice è destinata ad aprirsi. Il 40 per cento delle imprese ha registrato difficoltà a trovare lavoratori con la qualificazione adatta, nel 2008 la quota era del 37 per cento e nel 2005 del 35. Quando era cancelliere, Gerhard Schröder fece scalpore aprendo le porte della Germania a migliaia di ingegneri dall’India. O i bamboccioni della pasciuta, assistita, infiacchita Europa occidentale si danno da fare oppure non ci sono altre soluzioni.

    Ora si parla di ripresa senza lavoro anche negli Stati Uniti ed è vero che il tasso di occupazione (ancor più rilevante rispetto a quello di disoccupazione) si è ridotto. Nel 2000 lavoravano 8,2 americani sui dieci nella fascia compresa tra i 25 e i 54 anni, oggi sono 7,6. La recessione è la responsabile principale, ma agiscono fattori di carattere strutturale, a cominciare dalla innovazione tecnologica per finire con le politiche assistenziali o le tasse che colpiscono i salari. E si apre il dibattito sulle politiche attive, dall’apprendistato all’addestramento dei lavoratori licenziati, che nel Nord Europa sono state molto efficaci. L’incredibile crollo dei disoccupati in Germania (giovani compresi) non si spiega solo con la ripresa e la maggiore flessibilità nell’impiego (come ovunque molti dei nuovi impieghi offrono contratti a termine), ma con il ruolo dell’agenzia del lavoro che assorbe chi esce dalla fabbrica, senza farlo uscire dal mercato. I posti sono vuoti per la sfasatura tra domanda e offerta, i neoliberisti hanno ragione. E la recessione, possiamo ignorarla? Replicano seccati i keynesiani. Certo che no, ma anch’essa è la confluenza di mutamenti strutturali esterni (i nuovi rapporti sul mercato mondiale) e interni (l’innovazione tecnologica o i cambiamenti sociali e generazionali). Sono proprio questi fattori a esasperare gli effetti della congiuntura.

    Armageddon non è all’orizzonte e i cavalieri rampanti sui mass media sono in realtà pupi di una recita senza puparo. Fame, povertà, disoccupazione, ingiustizia rappresentano mali sociali mai risolti del tutto sotto nessun regime, anche se il capitalismo, come documenta Angus Maddison, ha assicurato il più grande progresso economico-sociale dell’umanità. Piketty che ha usato Maddison come una fonte delle sue meticolose ricerche, insieme a montagne di dichiarazioni di redditi e attestati di proprietà fin dal 1700 (un lavoro davvero prezioso), non è un pensatore apocalittico. Vuol riformare non abolire il capitalismo; intende prenderne il meglio, cioè la forza progressiva che aveva incantato il vecchio Marx, e togliere il peggio. E’ dubbio che la soluzione passi attraverso la sua patrimoniale globale, per ragioni politiche prima ancora che tecniche o economiche. Ma invece di evocare spettri del passato, è comunque più fruttuoso confrontarsi con le occasioni del futuro.