Blair dice che il futuro dell'islam in politica si gioca solo in medio oriente, e l'occidente deve prendere posizione

Paola Peduzzi

"Dobbiamo prendere posizione”, ha detto ieri l’ex premier britannico Tony Blair, parlando, nella sede di Bloomberg a Londra, dell’importanza strategica del medio oriente, “dobbiamo smettere di trattare i paesi del mondo soltanto sulla base di quel che sembrano essere le scelte che migliorano la nostra vita sul momento: dev’esserci un approccio verso la regione (il medio oriente allargato fino a Iran e Pakistan, ndr) che sia coerente e che guardi alla situazione nel suo insieme. Soprattutto, dobbiamo ‘commit’ e dobbiamo ‘engage’”, cioè dobbiamo impegnarci, esserci. Il fondatore dell’interventismo liberal ieri è tornato sui temi a lui cari, sul radicalismo dell’islam e la difficile, se non impossibile, coabitazione con la politica, sul coinvolgimento dell’occidente per ragioni umanitarie e di sicurezza, sulla necessità di difendere la libertà politica, sociale ed economica.

    "Dobbiamo prendere posizione”, ha detto ieri l’ex premier britannico Tony Blair, parlando, nella sede di Bloomberg a Londra, dell’importanza strategica del medio oriente, “dobbiamo smettere di trattare i paesi del mondo soltanto sulla base di quel che sembrano essere le scelte che migliorano la nostra vita sul momento: dev’esserci un approccio verso la regione (il medio oriente allargato fino a Iran e Pakistan, ndr) che sia coerente e che guardi alla situazione nel suo insieme. Soprattutto, dobbiamo ‘commit’ e dobbiamo ‘engage’”, cioè dobbiamo impegnarci, esserci. Il fondatore dell’interventismo liberal ieri è tornato sui temi a lui cari, sul radicalismo dell’islam e la difficile, se non impossibile, coabitazione con la politica, sul coinvolgimento dell’occidente per ragioni umanitarie e di sicurezza, sulla necessità di difendere la libertà politica, sociale ed economica. Benché i critici – che ormai sono tantissimi, la guerra in Iraq pesa sull’eredità di Blair in modo ben più gravoso rispetto a, per esempio, quei meravigliosi anni di benessere che il blairismo ha regalato al Regno Unito – abbiano subito rivisto in questo discorso il premier dell’interventismo militare in combutta con George W. Bush, parte di quell’idealismo è scivolato via anche dal blairismo.

    Blair dice che il medio oriente è importante per quattro ragioni: è il luogo in cui la stragrande maggioranza delle risorse energetiche mondiali viene prodotta; è a un passo dall’Europa; c’è Israele da difendere; soprattutto è lì che il futuro dell’islam verrà deciso – “il futuro del suo rapporto con la politica”. Questo è il punto fondamentale, qui è necessario schierarsi: c’è una visione moderna del medio oriente, fatta di società aperte economicamente e pluraliste che guardano alla globalizzazione; e ce n’è una opposta, che vuole che sia la religione, e una sua interpretazione precisa, a plasmare il futuro di questi paesi – è la visione “islamista”, anche se la terminologia, si lamenta Blair, è sempre inadeguata e si presta a critiche inutili. Questa è la battaglia che importa davvero, soprattutto in medio oriente, “dove il risultato finora è stato orribile, perché le persone hanno spesso dovuto scegliere tra governi autoritari ma almeno tolleranti dal punto di vista religioso e il rischio che, togliendo di mezzo il governo che non amano, si finisse con una quasi-teocrazia intollerante con le diverse religioni”. Ci sono differenze tra paesi e paesi e ci sono diverse interpretazioni dell’islam,  ma l’ideologia radicale è pericolosa perché “è incompatibile con il mondo moderno – politicamente, socialmente ed economicamente. Perché? Perché il mondo moderno funziona attraverso le connessioni. La sua natura essenziale è pluralista. Incoraggia le aperture di mente. Le economie moderne funzionano attraverso creatività e connessioni. La democrazia non può funzionare se non come un modo di pensare così come di votare. Tu dici la tua, puoi perdere, puoi cercare di vincere la prossima volta, oppure vinci ma sai che al prossimo voto potrai perdere”. Con questa frase Blair mette a tacere tutti quelli che dicono che la democrazia è un fantasma, guardate che razza di elezioni ci sono quest’anno, tra l’Egitto e la Siria, due tiranni che si autoaffermano: ecco, queste non sono elezioni, sono show per dittatori che vogliono mostrare il proprio potere (e Assad in Siria non riesce nemmeno a far votare tutto il paese, ché molte aree sono fuori dal suo controllo, non c’è legittimità territoriale nel voto previsto per il 3 giugno). L’islamismo, dice Blair, si muove lungo linee contrarie, “il suo obiettivo ultimo non è una società che può essere cambiata da uno che vince le elezioni, è una società con una politica fissa, governata da dottrine religiose che sono, per loro natura, immodificabili”. Il mondo moderno e aperto si scontra con il mondo dell’esclusività religiosa, spesso radicalizzata, “questo è quel che rende gli interventi così pieni di pericoli ma anche i non-interventi altrettanto disastrosi”. Bisogna schierarsi, ma come? “Sostenendo i princìpi della libertà religiosa e dell’economia aperta; aiutando i popoli che tendono a questi princìpi a raggiungere i loro obiettivi. Dove ci sono state le rivoluzioni, dobbiamo stare dalla parte di chi sta con questi princìpi contro chi li vuole ribaltare. Dove le rivoluzioni non ci sono state, dobbiamo sostenere un’evoluzione stabile verso questi valori”.[**Video_box_2**]

    A questo punto Blair declina la sua idea paese per paese, ed è qui che un po’ del suo idealismo si perde via, perché al fondo di questo messaggio c’è che l’islam politico non può che fallire, soprattutto se ha padrini come i sauditi (non li nomina mai, Blair, ma ci sono riferimenti inequivocabili al regno di Riad), e quindi va contenuto. Non si può parlare di realismo, certo, il realismo è il tarlo della recente politica estera di sinistra determinata da Barack Obama, ma nell’analisi di Blair ci sono parecchi elementi di compromesso. C’è il rammarico per il non-intervento in Siria – l’ex premier sarebbe interventuo due anni fa, però va detto che, pur essendo inviato dell’Onu in medio oriente, la sua voce non s’è sentita fortissima – ma anche la consapevolezza di dover accettare decisioni “ripugnanti”: “L’unica via per guardare avanti è concludere il miglior accordo di transizione possibile anche se questo significa che il presidente Assad resti al potere per un certo periodo di tempo”. C’è l’endorsement al prossimo presidente d’Egitto, quel generale al Sisi che ha preso il potere con un golpe (nessuno ufficialmente lo chiama così, nemmeno Blair) contro i Fratelli musulmani e che ora li condanna a morte: “E’ grandemente nel nostro interesse che abbia successo”. C’è la necessità di impegnare la Nato in Libia, perché l’occidente ha le sue responsabilità lì e non può permettersi nel cuore del nord Africa uno stato fallito. C’è infine l’Iran, che deve rinunciare alla sua corsa al nucleare, “le prossime settimane saranno cruciali per la negoziazione, ma non sono favorevole a concessioni sull’influenza regionale iraniana in cambio di compromessi sul nucleare”, che è quello che sta facendo Obama, attraverso un rafforzamento della Russia. “Il governo iraniano gioca deliberatamente a destabilizzare la regione”, dice Blair, che però conclude: “Non abbiamo l’obiettivo di un regime change, il popolo iraniano troverà, alla fine, un suo modo per farlo”. Che è un po’ come mettere un paletto alla ricerca della libertà – e così l’idealismo si stropiccia un po’.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi