Il soldato Ryan
L’ultima partita del Manchester United di Alex Ferguson, l’allenatore che in ventisette anni ha riscritto la storia del club inglese e del calcio internazionale, si è giocata in trasferta contro il West Bromwich, nel maggio del 2013. E’ finita 5-5. “Pazzesca, fantastica, divertente, eccessiva”, la definirà lo stesso Ferguson nella sua autobiografia. Paradigmatica, anche. C’è un episodio di quella partita che riletto oggi suona cinicamente beffardo. Due settimane prima, il manager scozzese aveva annunciato che si sarebbe ritirato. Dopo due Champions League, 13 campionati, 9 tra FA Cup e coppe di Lega, vari altri trofei e un intero settore dello stadio Old Trafford dedicato a lui, avrebbe lasciato il posto a un altro scozzese, l’allenatore dell’Everton David Moyes.
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L’ultima partita del Manchester United di Alex Ferguson, l’allenatore che in ventisette anni ha riscritto la storia del club inglese e del calcio internazionale, si è giocata in trasferta contro il West Bromwich, nel maggio del 2013. E’ finita 5-5. “Pazzesca, fantastica, divertente, eccessiva”, la definirà lo stesso Ferguson nella sua autobiografia. Paradigmatica, anche. C’è un episodio di quella partita che riletto oggi suona cinicamente beffardo. Due settimane prima, il manager scozzese aveva annunciato che si sarebbe ritirato. Dopo due Champions League, 13 campionati, 9 tra FA Cup e coppe di Lega, vari altri trofei e un intero settore dello stadio Old Trafford dedicato a lui, avrebbe lasciato il posto a un altro scozzese, l’allenatore dell’Everton David Moyes. Dopo quel 5-5, negli spogliatoi, Ferguson scherzava con i suoi giocatori, recitando per l’ultima volta la parte del burbero: “Un gran bel saluto da parte vostra!”. Mentre tutti ridevano, Ryan Giggs si è lasciato andare a una battuta: “Moyes ha appena dato le dimissioni…”.
Undici mesi dopo, David Moyes è stato esonerato dal Manchester United. Al suo posto, per le ultime quattro partite della stagione, siederà Ryan Giggs. Forse non se lo immaginava così, l’esordio. Probabilmente il quarantunenne gallese che ha fatto la storia dello United non pensava di passare dal campo alla panchina così in fretta. Eppure, dopo lo sfacelo lasciato da Moyes, è apparsa la scelta più sensata. Forse non si potrebbe parlare di Ryan Giggs se non ci fosse stato il Manchester United, ma certamente non si potrebbe parlare del Manchester United se non ci fosse stato Ryan Giggs.
Silenzioso, serio, riservato, l’ala sinistra più forte della storia dei Red Devils si trova a dover gestire uno dei momenti più drammatici nella storia recente del club che in ventisette anni lo scozzese Alex Ferguson ha fatto diventare uno dei migliori al mondo, e in appena dieci mesi lo scozzese David Moyes – “The chosen one”, il prescelto, perché indicato e voluto da Ferguson stesso – ha ripiombato nella mediocrità calcistica in Premier League, il campionato inglese in cui lo United riscriveva record da due decenni senza soluzione di continuità. Per quell’ironia triste così tipica del calcio, Moyes ha perso il posto di manager del Manchester dopo una sconfitta per 2-0 contro l’Everton, il club di Liverpool da lui allenato per oltre un decennio. Martedì, il giorno dell’esonero di Moyes, il campo di allenamento dei Diavoli Rossi era assediato dalle telecamere. In mattinata tre tweet dell’account ufficiale del club annunciavano il licenziamento, ringraziavano Moyes e davano la notizia dell’incarico ad interim di Giggs. Il futuro sarà di qualcun altro, probabilmente Van Gaal, anche se c’è chi scrive di Ancelotti, e qualcuno parla persino di Mourinho. Il presente però dice Ryan Giggs. Ma è un presente denso di storia.
Gallese nato nel 1973, Giggs viene notato appena tredicenne dagli osservatori del Manchester City, dove gioca per due anni; poi l’allora neo allenatore dello United, Alex Ferguson, lo vede durante un provino e gli offre un contratto nelle giovanili dei Red Devils. “Quando lo facemmo debuttare in prima squadra, a 17 anni – racconta Ferguson nella sua autobiografia – ci ritrovammo con un problema che non avevamo preso in considerazione: il fenomeno Giggs”. Subito diversi osservatori e club stranieri lo contattano, chiedendo di poterlo comprare. Ferguson oppone sempre un secco no a qualsiasi richiesta. “Il paragone con George Best fu immediato, impossibile da evitare – continua Ferguson – Tutti lo volevano, ma Giggs era sveglio. ‘Chiedete all’allenatore’, diceva a chiunque gli proponesse un’intervista o un contratto”. L’intelligenza è la prima caratteristica che salta agli occhi guardandolo giocare. Giggs è un giocatore che nei suoi ventitré anni di carriera ai massimi livelli ha saputo reinventarsi continuamente. Yoga ed esercizi preparatori prima e dopo ogni allenamento gli hanno permesso di giocare a quasi 41 anni con l’agilità di un trentenne. Quest’anno agli ottavi di finale di Champions League, quando c’era da ribaltare la sconfitta per 2-0 in casa dell’Olympiakos, ha vinto da solo la partita di ritorno, con personalità, corsa e assist decisivi. Quella partita non è stata il frutto di un caso, ma di anni di oculata gestione: “Nei giorni in cui aveva problemi ai tendini – ha scritto ancora Ferguson – non sapevamo quanto avremmo potuto utilizzarlo; eravamo costantemente preoccupati, lo lasciavamo fuori in determinate partite per poterlo utilizzare in altre. Alla fine, solo l’età ci obbligava a farlo riposare; riusciva a giocare trentacinque partite a stagione perché la sua condizione fisica era incredibile”. Giggs impara a sacrificare la vita sociale per la sua carriera e il bene del club. Riservato all’esterno, diventa presto il punto di riferimento di tutto il gruppo. “Era il re – dice sir Alex – il capo”.
Quando il suo passo comincia a rallentare, Ferguson lo sposta a giocare più al centro del campo. Ancora decisivo, anche lì. Perché quello che fa fare la differenza a Giggs non è la sua velocità, ma il cambio di passo. Quello rimane identico, inalterato. Come il suo equilibrio. Quando nel 2010 cade in area toccato da un difensore del West Ham e lo United ottiene un calcio di rigore, Ferguson pensa a quanti rigori Giggs sia riuscito a procurare in vent’anni. La risposta è sorprendente: appena cinque. Dopo un’entrata dura subita in area di rigore, il mister gli chiede perché non sia andato giù. Giggs lo guarda con il suo sguardo serio, gli occhi stretti: “Io non vado giù”.
Giggs studia da allenatore da sempre. Ha guardato Ferguson ogni giorno, è cresciuto con lui. Prima ancora di cominciare il corso per ottenere il patentino, quest’anno, Ryan pensava da allenatore.
Giggs è una garanzia per l’immediato, ma forse è ancora troppo poco per ricostruire tutto. La scelta opportuna per tranquillizzare i tifosi e non subire troppe critiche dai media. Ma poi bisognerà andare oltre. Quello che dovrà fare il prossimo allenatore del Manchester United è ricostruire tutto, riportare la squadra alle vittorie internazionali, innanzitutto per farla uscire dai debiti. Lo scriveva martedì pomeriggio, il giorno dell’esonero di Moyes, il Financial Times: il problema dei Red Devils sono i soldi, non l’allenatore. Serve qualcuno che non abbia paura di smontare quello che è rimasto della gestione Ferguson, a partire dai giocatori vecchi e un po’ appagati. Moyes ha avuto paura di toccare il castello di Re Alex, e ha sbagliato i pochi innesti voluti da lui: troppi soldi spesi per giocatori non risultati decisivi, uomini schierati in ruoli sbagliati e la perdita di quello spirito che faceva dello United una squadra unica al mondo: “Sui programmi delle partite – ha detto Ferguson parlando dei suoi anni – avrei dovuto scrivere un avvertimento per i tifosi: se stiamo perdendo per 1-0 a venti minuti dalla fine, andate a casa, o potreste non uscire sulle vostre gambe”. Lo United di Ferguson vinceva partite pazzesche in rimonta o sbloccandole negli ultimi minuti. Lo United di Moyes ha perso partite imbarazzanti, infrangendo i peggiori record negativi nella storia del club. Sui social network nei giorni scorsi girava impietoso l’elenco delle sconfitte casalinghe, dell’eliminazione troppo presto in FA Cup, della mancata qualificazione in Champions come non succedeva da 19 anni, e molti altri numeri che Moyes non pensava certo di legare al suo nome nella storia dello United.
Adesso tocca a Ryan Giggs, che definire già allenatore in campo sarebbe pigro. Di lui qualche mese fa Ferguson diceva questo: “Può certamente diventare un allenatore, perché è molto saggio e i giocatori lo rispettano. La sua relativa calma non sarebbe un ostacolo. E’ pieno di allenatori che non parlano molto, ma il carattere deve essere forte. Per gestire un club come il Manchester United la tua personalità deve essere più grande di quella dei giocatori, o per lo meno devi credere che sia così, se vuoi controllare la situazione. Hai grandi giocatori, ricchi e famosi, e devi governarli, dirigerli. C’è solo un capo al Manchester United, ed è l’allenatore. Ryan avrà bisogno di coltivare questa parte di sé: è quello che ho fatto anch’io da quando avevo 32 anni”. Certe cose Ryan Giggs le sa. Sa che cosa vuol dire indossare quella maglia, sa il peso della storia che il club in cui ha sempre giocato porta con sé. Sa che al mondo non c’è niente di meglio: “Quelli che se ne sono andati in altri grandi club – ha scritto nella sua autobiografia – lo hanno fatto per poi scoprire che la magia dell’Old Trafford non è riproducibile da nessuna altra parte. Io non baratterei la mia carriera qui con nulla al mondo”.
A Liverpool Moyes aveva scoperto talenti e creato un bel gioco, ma non aveva vinto niente. Non ha l’abitudine alla vittoria, Moyes. Giggs sì: “A Manchester non abbiamo mai festeggiato troppo per un trofeo, perché sappiamo che quello più importante è sempre il prossimo. Giocare nello United per così tanti anni mi ha insegnato a credere che c’è sempre un’altra possibilità”. L’insegnamento è quello che il maestro Ferguson ha inculcato nella testa dei suoi giocatori in quasi tre decenni di regno: “Sapersi riprendere, anche questo fa parte della storia del Manchester United”. Sir Alex ce l’ha scritto nel motto di famiglia: “Dulcius ex asperis”, migliore dopo le difficoltà. Giggs ce l’ha scritto in ogni ruga del suo volto.
Ryan è uno della “classe del ’92”, la grande generazione venuta su dal vivaio che ha accompagnato la maggior parte dei successi di Ferguson: Paul Scholes, Nicky Butt, Phil e Gary Neville, David Beckham e Giggs. Tutti visti crescere da Sir Alex da quando avevano 13-15 anni e da lui portati in prima squadra. Scholes ha finito di giocare quando Ferguson ha smesso di allenare (lo aveva già fatto l’anno prima, ma poi è tornato in campo quando il centrocampo dello United si è rivelato insufficiente), Giggs ha continuato ancora. Quando Sir Alex è arrivato sulla panchina dei Red Devils, nel 1986, lo United non era la meraviglia che è oggi. Senza un settore giovanile all’altezza, con una prima squadra vecchia e incapace di vincere qualcosa di importante da anni, il Manchester è stato plasmato dal tecnico scozzese fino a diventare club plurititolato, macchina da soldi grazie al merchandising e all’esportazione dell’immagine all’estero e squadra da battere per vincere qualsiasi cosa in Inghilterra e in Europa. Giggs ha respirato tutto questo, era uno di quelli che, per dirla ancora con Ferguson, “avevano dentro di loro lo spirito del Manchester United”. Giggs era l’esempio che “il prossimo Cantona può venire fuori dalla nostra scuola calcio”.
Il primo giorno del nuovo, breve, corso di Ryan Giggs, sul campo di allenamento è sembrato di essere tornati indietro nel tempo: a preparare il gruppo dei giocatori per la sfida di sabato, con Giggs c’erano Phil Neville, Butt e Scholes. I ragazzi del ’92. Non è un caso che la società si sia aggrappata a loro, ora che ha smarrito molte delle certezze di inizio stagione. La ricerca del successore sarà affidata ancora Ferguson, e sulla carta la cosa dovrebbe tranquillizzare i tifosi. Per di più, sempre sulla carta, la panchina del Manchester dovrebbe essere una delle più ambite al mondo. La realtà però non è così rosea: da qualche anno le squadre che dominano in Europa sono altre, il Manchester ha molti debiti e l’anno prossimo non giocherà nessuna coppa al di là della Manica. Perché uno come Ancelotti, o Van Gaal, o Klopp, o Mourinho, dovrebbero correre alla corte dei Glazer, i proprietari americani del Manchester?
Il marchio dei Red Devils è scolorito, ammoniva mercoledì il Guardian, e lo stesso Moyes ringraziando tutti ha sottolineato che senza una ricostruzione dalle fondamenta difficilmente lo United tornerà grande. Il teatro dei sogni, il nome con cui comunemente viene chiamato lo stadio dei Red Devils, è diventato il palcoscenico di una tragedia sportiva. Che qualcosa non vada nello spogliatoio si capisce leggendo bene le parole di Moyes dopo il licenziamento: i giocatori non vengono mai nominati.
Adesso Giggs ha l’opportunità di salvare la faccia alla stagione più deludente della storia recente del Manchester United. Quattro partite per ricompattare l’ambiente, scrivere un altro pezzo di storia e poi lasciarlo nelle mani di qualcun altro. Come si fa con i figli quando diventano grandi. Il futuro non sarà Ryan, si affrettavano a scrivere i giornali inglesi mercoledì. Non subito, almeno.
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