Consigli per passeggiare a Pyongyang (e non solo) senza farsi arrestare

Giulia Pompili

Preservare la cultura vietando i jeans. Consolidare il potere controllando i centimetri di capelli sulla testa dei cittadini. Ma a Pyongyang esiste davvero la polizia della moda, come la chiama il Guardian nella sua nuova sezione dedicata alla Corea del nord? Si tratta in realtà dei ragazzi della Lega della gioventù socialista, organizzazione del Comitato centrale del Partito dei lavoratori. Per mandato del leader Kim Jong-un, i giovani controllano le strade e denunciano alle autorità ogni violazione del dress code socialista.

    Preservare la cultura vietando i jeans. Consolidare il potere controllando i centimetri di capelli sulla testa dei cittadini. Ma a Pyongyang esiste davvero la polizia della moda, come la chiama il Guardian nella sua nuova sezione dedicata alla Corea del nord? Si tratta in realtà dei ragazzi della Lega della gioventù socialista, organizzazione del Comitato centrale del Partito dei lavoratori. Per mandato del leader Kim Jong-un, i giovani controllano le strade e denunciano alle autorità ogni violazione del dress code socialista. Il Guardian racconta la storia di Song Eun-byul, che aveva comprato un paio di stivali un po’ eccentrici in un mercato vicino al confine cinese e si sarebbe salvata dall’incriminazione, dal processo e dai conseguenti lavori forzati semplicemente dando un falso nome alla Lega della gioventù inquisitrice. Spesso accade che le notizie riguardanti la Corea del nord siano estremizzate o esagerate dai media occidentali. Qualche mese fa venne messa in giro la voce che Kim Jong-un aveva obbligato gli uomini ad adottare il suo stesso taglio di capelli. Si scoprì poi che si trattava di una bufala. Ma i capelli in Corea del nord sono una cosa seria. Quando un salone di bellezza di Londra utilizzò l’immagine di Kim Jong-un per pubblicizzare uno sconto del 15 per cento offerto a chi avesse un pessimo taglio di capelli, ironizzando proprio sulla bufala dell’acconciatura forzata in Corea del nord, poco dopo il proprietario si trovò davanti due ufficiali dell’ambasciata nordcoreana di certo privi di senso dell’umorismo e in cerca di spiegazioni.

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    Nel 2004 la tv di stato nordcoreana mandò in onda un programma nel quale consigliava il miglior modo per adattare la propria acconciatura allo “stile di vita socialista”: sfumatura da 1,5 centimetri per i capelli sopra la nuca, fino a 5 centimetri di lunghezza sopra la testa. Per gli anziani la misura può arrivare fino a 7 centimetri, in modo da coprire l’eventuale calvizie. Dal barbiere si va ogni quindici giorni, e se il marito ha i capelli troppo lunghi è colpa anche della moglie che non si prende abbastanza cura di lui. In ogni caso, il taglio di capelli deve esprimere “salute, igiene e la propria ideologia socialista”. Inoltre, secondo la tv di stato, i capelli lunghi fanno bruciare troppe energie e hanno un “cattivo effetto sull’intelligenza”, per questo anche i capelli delle donne non dovrebbero essere né troppo lunghi né troppo corti. Ma ancora oggi le regole per l’abbigliamento e per le acconciature dei nordcoreani non sono scritte. Solitamente ci si adatta alle mode – e le mode evolvono, anche in Corea del nord. L’influenza culturale che si manifesta nell’abbigliamento arriva soprattutto dal sud e dalla Cina. Le ragazze della Moranbong Band, il gruppo pop tutto al femminile preferito da Kim Jong-un, si sono esibite più di una volta davanti al loro leader vestite di audaci minigonne. La stessa Song Eun-byul, interpellata dal Guardian, ammette che fino a poco tempo fa non sarebbe potuta andare in città se non indossando la chima, la gonna tradizionale nordcoreana. Oggi nessuno fa più caso a una donna che indossa pantaloni (sebbene larghi) per le strade di Pyongyang, difficile è invece passare inosservati con una t-shirt della Nazionale di calcio americana. Quanto a libertà personali, la Corea del nord non è esattamente un esempio da seguire, eppure in Asia non è il solo stato dove si dibatte di regole d’abbigliamento, senza sensazionalismi. A pochi chilometri dal confine, nell’occidentalissima Corea del sud, ultimamente si parla molto del dress code da far adottare agli studenti nelle scuole. Vietare alle bambine di presentarsi davanti a un professore indossando i leggins è una violazione della loro libertà personale? Jigme Singye Wangchuck, quarto re del Bhutan, il piccolo stato alle pendici della parte orientale dell’Himalaya, fu uno dei primi a cercare di superare l’isolamento del suo regno, adottando però delle rigide regole per preservare la cultura bhutanese. Così nel 1990 fece redigere una sorta di Carta del dress code, all’interno del più ampio canone estetico (Driglam namzha) che norma la vita quotidiana dei bhutanesi. Il re rese obbligatorio l’abito tradizionale, il gho per gli uomini e la kira per le donne. Ai trasgressori viene tutt’oggi comminata una multa di poco più di tre dollari, l’equivalente di tre giorni di lavoro. In Bhutan però non si va in galera per la moda. E i ragazzi bhutanesi hanno trovato un modo per rendere giovane e smart il gho, indossandolo sopra ai jeans. E pure l’attuale re Jigme Khesar, di tanto in tanto, viene beccato in abiti tradizionali ma più alla moda di quanto si pensi.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.