L'imbarazzo dei sostenitori della Ru486, la pillola che ammazza le donne

Nicoletta Tiliacos

Si sono mobilitati in coppia, i ginecologi Carlo Flamigni e Corrado Melega, per contestare sull’Unità del 23 aprile quella che secondo loro è pura diffamazione ai danni dell’aborto farmacologico. La morte della donna torinese di trentasei anni a seguito della procedura abortiva con la pillola Ru486,  dicono i due medici, non deve mettere in discussione la sicurezza di un metodo al quale, scrivono testualmente, solo una voce “ricorrente quanto falsa e basata su informazioni ricavate dalle pagine scientifiche di Topolino” imputa la responsabilità “di una importante mortalità materna, certamente più elevata (cose del tutto incontrollabili si inventavano un drammatico ‘dieci volte tanto’) di quella attribuibile agli interventi chirurgici”.

    Si sono mobilitati in coppia, i ginecologi Carlo Flamigni e Corrado Melega, per contestare sull’Unità del 23 aprile quella che secondo loro è pura diffamazione ai danni dell’aborto farmacologico. La morte della donna torinese di trentasei anni a seguito della procedura abortiva con la pillola Ru486,  dicono i due medici, non deve mettere in discussione la sicurezza di un metodo al quale, scrivono testualmente, solo una voce “ricorrente quanto falsa e basata su informazioni ricavate dalle pagine scientifiche di Topolino” imputa la responsabilità “di una importante mortalità materna, certamente più elevata (cose del tutto incontrollabili si inventavano un drammatico ‘dieci volte tanto’) di quella attribuibile agli interventi chirurgici”.

    Flamigni e Melega – nel frattempo nominato commissario di tutti i centri che si occupano di procreazione assistita nel Lazio, dopo la vicenda degli embrioni scambiati al “Pertini” – all’aborto farmacologico avevano già dedicato nel 2010 un bel manuale di istruzioni per l’uso, sempre firmato in coppia. Per compilare il quale si presume abbiano compulsato molta letteratura scientifica internazionale, certamente tutta quella non assimilabile alle “pagine scientifiche di Topolino”. Magari, chissà, avranno dato anche loro un’occhiata al New England Journal of Medicine del primo dicembre 2005 – stiamo parlando della più importante rivista medica mondiale – che dedicava l’apertura e un articolo interno proprio all’aborto farmacologico, mettendone pesantemente in discussione la presunta sicurezza.

    Nell’editoriale firmato da Michael Greene, professore alla Harvard Medical School, si specificava testualmente che, con i dati disponibili fino a quel momento, la morte per aborto con il metodo chimico (un caso su centomila) era dieci volte superiore a quella per aborto chirurgico effettuato nello stesso periodo della gravidanza, cioè fino alla settima settimana (0,1 su 100.000). L’articolo interno, a firma di Marc Fischer, era invece la storia delle quattro giovani donne morte in California per infezione da batterio clostridium sordellii, a seguito di aborto chimico. Stiamo parlando del 2005. Oggi sappiamo che quell’alta e così inspiegabile incidenza californiana era legata semplicemente al fatto che solo lì, dopo la morte dell’adolescente Holly Patterson nel 2003, altri genitori, mariti, parenti avevano voluto indagare sui decessi misteriosi e improvvisi di giovani donne: casi che fino a quel momento mai erano stati messi in relazione alla Ru486, e che invece dipendevano proprio dalla pillola abortiva.
    Per molto tempo, insomma, e questo nemmeno Flamigni e Melega possono negarlo, le morti per Ru486 sono emerse solo dove si è deciso di andarle a cercare, abbattendo omertà e inconfessabili interessi. In uno dei casi californiani, per esempio, era stato il marito di una donna morta che aveva voluto eseguire privatamente un’autopsia, nonostante il parere contrario del giudice e dei medici.
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    Puntualmente fu confermato il legame con l’aborto chimico. Lo stesso ex presidente del Comitato di bioetica francese, il medico Didier Sicard, è intervenuto sul tema della sicurezza della Ru486 a causa di una terribile esperienza personale. Nel 2005, la prima delle sue tre figlie, Oriane, avvocato trentaquattrenne sposata con un americano, madre di due figli e incinta di un terzo, era morta in California nel giro di poche ore, dopo aver assunto la Ru486, a causa di un’infezione fulminante provocata dal clostridium sordellii. Di quel lutto e della pericolosità dell’aborto chimico, Sicard ha scritto, senza citare la propria vicenda personale, sugli Annals of Pharmacotherapy e sul New England Journal of Medicine, per sollecitare almeno la prescrizione obbligatoria di antibiotici per le donne che abortiscono con la Ru486.

    L’aborto chimico “facile e amico delle donne” ammazza le donne, e le ammazza dieci volte di più dell’aborto chirurgico, a parità di tempo di gestazione: parola del New England Journal of Medicine, non di Topolino. La cosa è tanto più significativa, se si pensa che il rischio di eventi avversi cresce con l’avanzare della gravidanza. Più che delle donne, la Ru486 è amica soprattutto di chi preferisce che corrano rischi in più, e che si sbrighino e non ci pensino troppo, prima di decidersi per l’aborto. Le morti finora accertate per aborto chimico sono diventate ventisette, da aggiungere ad altre dodici di persone che avevano usato lo stesso principio attivo – il mifepristone –  per fini diversi, per esempio come coadiuvante nella terapia della sindrome di Cushing.

    Non sorprende che i sostenitori della Ru486 siano in imbarazzo per la morte della giovane donna torinese. Ci è stato detto che era una donna sana, già madre di un bambino, convinta che dopo la seconda pillola sarebbe potuta andare a prendere il figlio a scuola. Ha avuto due arresti cardiaci, il secondo dei quali le è stato fatale, dopo la somministrazione delle prostaglandine per farle espellere il feto abortito. Come da protocollo.