Il cinemino della politica

Guido Vitiello

Una rondine non fa primavera, d’accordo, ma già una coppia di rondini può servire da pretesto per qualche divinazione, alla maniera degli àuguri etruschi e romani. Due film gemelli hanno attraversato i cieli del penultimo inverno italiano – l’uno diffuso nelle sale alla fine di ottobre del 2012, l’altro nel febbraio del 2013, a ridosso delle elezioni politiche – annunciando una primavera che pare, allo stato delle cose, tutta congetturale. Si somigliano fin dal titolo: “Viva l’Italia” si chiama il primo, “Viva la libertà” il secondo. Ad accomunarli è un intreccio di temi dalla lunga e veneranda tradizione teatrale: la pazzia del sovrano, il buffone come doppio del re, le scintille di verità sprigionate dal cozzo tra il potere e la follia.

    Una rondine non fa primavera, d’accordo, ma già una coppia di rondini può servire da pretesto per qualche divinazione, alla maniera degli àuguri etruschi e romani. Due film gemelli hanno attraversato i cieli del penultimo inverno italiano – l’uno diffuso nelle sale alla fine di ottobre del 2012, l’altro nel febbraio del 2013, a ridosso delle elezioni politiche – annunciando una primavera che pare, allo stato delle cose, tutta congetturale. Si somigliano fin dal titolo: “Viva l’Italia” si chiama il primo, “Viva la libertà” il secondo. Ad accomunarli è un intreccio di temi dalla lunga e veneranda tradizione teatrale: la pazzia del sovrano, il buffone come doppio del re, le scintille di verità sprigionate dal cozzo tra il potere e la follia. Immancabilmente, le gazzette hanno dato fondo – non sempre a proposito – a tutto lo Shakespeare e il Pirandello di cui disponevano.

    “Viva l’Italia” è l’opera seconda dell’attore, regista e sceneggiatore romano Massimiliano Bruno. E’ un film che adotta registri farseschi a servizio di un messaggio politico forte, o se vogliamo – e senza alcun sottinteso spregiativo – un cinepanettone civile. Il fool che mette in scena è un politico di centrodestra, Michele Spagnolo (interpretato da Michele Placido) il cui partito, Viva l’Italia, richiama neppure a dirlo lo slogan della “discesa in campo” berlusconiana. All’ombra di una triade programmatica morigerata e conservatrice – lavoro, sicurezza, famiglia – coltiva spregiudicatamente il malaffare, la corruzione, il clientelismo, la pratica spicciola della raccomandazione. Finché un giorno, assistendo allo striptease privato di una giovane in cerca di opportunità di carriera, Spagnolo ha un malore e si risveglia posseduto da uno strano morbo, una sorta di sindrome di Tourette aggravata: diventa incapace di mentire e proclama a voce alta, scomparso ogni freno inibitore, tutto quel che gli passa per la testa. I primi effetti sono devastanti. La sua sincerità condita di turpiloquio solleva il sipario su tutta la grettezza dell’uomo di potere, lo conduce ad abissi di esilarante “scorrettezza politica” e lo rende ragione d’imbarazzo per i suoi compagni di partito, che se ne dissociano e lo mettono a riposo. Pian piano, tuttavia, questa prolungata follia si trasforma in passione per la verità, una passione che lo porta a rinascere come uomo e come pedagogo civile. Il nuovo corso di Spagnolo culmina in un comizio-cabaret tra le gigantografie dei Padri della Repubblica (spicca su tutti il ritratto di Aldo Moro) in cui esorta i giovani alla riscossa e suggerisce di aggiungere in coda alla Costituzione un ultimo articolo, il 140: “Tutti i cittadini hanno diritto di conoscere la verità”.
    [**Video_box_2**]
    “Viva la libertà” è anch’esso a suo modo una commedia, sia pure di alte pretese, che il regista e scrittore palermitano Roberto Andò ha ricavato dal suo romanzo “Il trono vuoto”. Lo spunto narrativo è tutto sommato simile a quello di “Viva l’Italia”, ma stavolta siamo sull’altro versante politico. Enrico Oliveri (interpretato da Toni Servillo) è il leader del principale partito di opposizione, dietro il quale non si fatica a riconoscere i connotati del Partito democratico. E’ un politico in crisi di motivazione e di popolarità, uno stanco uomo d’apparato, e decide di esiliarsi temporaneamente a casa di un’amica ed ex amante parigina, senza darne avviso e rendendosi irreperibile per tutti. Il trono vacante getta nello sconcerto i compagni di partito, che non sanno che fine abbia fatto Oliveri, e rischia di creare uno scompiglio ancora maggiore tra gli elettori, tanto più che la data del voto si avvicina. A trovare l’espediente decisivo è il suo braccio destro Andrea Bottini (Valerio Mastandrea), l’unico a sapere della crisi esistenziale del leader, che si cava d’impaccio con un’intuizione un po’ folle: sostituire il politico scomparso con il fratello gemello, un filosofo e scrittore con trascorsi in ospedale psichiatrico che si fa chiamare Giovanni Ernani. Lo stile oratorio franco, coraggioso e visionario del gemello pazzo, che spiazza giornalisti e uomini politici, avrà insperati effetti benefici, portando un partito in declino a superare, nei sondaggi, il sessanta per cento dei consensi. Ernani ha lui pure i suoi numi tutelari, e alle spalle della sua scrivania campeggia il ritratto di Enrico Berlinguer. E anche qui, la follia al potere segna un momento di rivelazione collettiva, preparata da dialoghi di uno scespirismo alquanto didascalico (“Stai mettendo il partito nelle mani di un pazzo”; “Sarà un pazzo, ma c’è del metodo”). Il comizio finale di Ernani-Oliveri (il modello remoto è il discorso chapliniano del barbiere/dittatore) ridesta le spente passioni della sinistra – quasi rassegnata alla sconfitta e da essa oscuramente attratta – annunciando la possibilità della vittoria. L’apologo di Andò sulla sinistra immaginaria ha appassionato la sinistra reale: il romanzo “Il trono vuoto” è stato recensito in termini elogiativi da Walter Veltroni e da Matteo Renzi su Panorama, e il film ha suscitato gli entusiasmi, tra gli altri, di Nichi Vendola (“Consiglio al centrosinistra di andare a vederlo”) e di Giuseppe Civati (“Ci vorrebbe un Giovanni Ernani presidente del Consiglio per davvero”).

    I due film, “Viva l’Italia” e “Viva la libertà”, la cui tesi di fondo pare così trasparente e perfino sbandierata, contengono tuttavia un elemento aleatorio, imponderabile, un senso “ottuso” scappato di mano ai rispettivi creatori. Il film di Bruno è ilare e farsesco, ma dietro questa leggerezza lascia intravedere implicazioni politiche atroci: i giovani alla riscossa si faranno largo ricattando e minacciando i vecchi detentori del potere, e Michele Spagnolo concluderà il suo comizio con il proposito di rimettersi nelle mani della magistratura, quasi che questa fosse un corpo di Guardiani della Virtù estranei al potere italiano e alle sue miserie, e quasi che il commissariamento giudiziario della democrazia fosse cosa auspicabile. In “Viva la libertà”, al contrario, la comicità è per lo più involontaria, già che il film di Andò offre un esempio incomparabile di un gusto che potremmo definire radical kitsch, con punte di lirismo contraffatto, mezzacultura ostentata e ammiccamenti al narcisismo intellettuale di quella che Alfonso Berardinelli chiamava la “nuova piccola borghesia” di sinistra, assetata di identità e appartenenza culturale. Ma il sottinteso politico, dietro un messaggio che si vorrebbe ispirato e benaugurante, è un capolavoro di sublime comicità. Come qualcuno ha suggerito, la scena in cui il gemello pazzo balla il tango con la cancelliera tedesca Angela Merkel a un incontro ufficiale, sotto gli occhi di Bottini che lo spia dal buco della serratura (e che poi gli confessa, affascinato: “Io uno come lei lo voterei, e mi sento in colpa per questo”) rivela il grande non detto del film, che non affiora in nessuna delle tante recensioni entusiastiche: in breve, l’elettore del Pd sogna un Berlusconi di sinistra.

    Lasciando da canto le malizie politiche, il presupposto comune ai due film si potrebbe riassumere così: il potere italiano ha un legame indissolubile con la menzogna, vive nell’opacità e nella dissimulazione; solo un pazzo può salvarci, mettendo a soqquadro il cerimoniale, sollevando la cortina delle bugie, sciogliendo il ghiaccio delle paure al sole della sua spiritata lungimiranza. E’ un personaggio, questo del messia matto, dello smascheratore d’ipocrisie, ben radicato nell’immaginario politico italiano, a destra come a sinistra. E ha avuto nel corso dei decenni molte incarnazioni, comiche e tragiche: un grande fool è stato senz’altro il Francesco Cossiga della seconda metà del settennato, il nostro Re Lear picconatore; è stato Marco Pannella, il matto liberale profetizzato da Mario Ferrara sul Mondo; è stato, in modi diversissimi, l’Aldo Moro della prigionia, irriconoscibile – vuoi per calcolo, vuoi per genuino sconcerto – agli occhi dei suoi stessi compagni di partito e quasi sciolto dalle cautele della gesuitica disciplina democristiana. E poi ci sono i fool più vistosi e pacchiani dell’ultima stagione, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo – i “due clown”, come commentò il politico tedesco Peer Steinbrück all’indomani delle elezioni di febbraio (e chissà che tra le epifanie di questa lucida follia non annovereremo, un giorno, anche il secondo discorso d’insediamento di Giorgio Napolitano al Quirinale).

    Ben poco accomuna questi personaggi, o nulla, se non un gesto – compiuto per scelta, per capriccio o per necessità: l’aver violato in maniera piuttosto enfatica il protocollo del discorso pubblico, e l’aver fatto di questa trasgressione un momento collettivo di verità, luminosa od oscura – che fosse la rivelazione di arcana imperii, la denuncia dello stato di salute della Repubblica, perfino il coming out orgoglioso e impudente di vizi personali o di rancori nazionali. Sono tutte figure che hanno attraversato la scena pubblica in modo spiccatamente teatrale, lo volessero o meno, animando secondo i casi una tragedia, una commedia o perfino un’operetta. Queste rappresentazioni si sono svolte all’orlo estremo del “teatrino della politica”, su un palco così eccentrico che richiede di prendere a prestito, per raccapezzarsi, le categorie dell’antropologia. Un filo invisibile lega assieme il re uscito di senno e un’altra figura antica e perenne: il capro espiatorio, la vittima sacrificale. Su questo filo compiremo qualche pericolante passo da funamboli, con l’unico appiglio – e quanto malsicuro! – del cinema. E’ appena il caso di dire che rispetteremo la sequenza stabilita una volta per tutte dal Marx del 18 brumaio: prima la tragedia, poi la farsa.

    Merito di Marco Belpoliti e del suo ciclo di saggi sul corpo dei leader politici italiani e sull’iconografia che li ritrae è l’aver posto l’accento su alcuni passaggi decisivi. Tra il culto fascista del corpo del Duce e l’avvento dell’“ultracorpo” berlusconiano, con i suoi lifting e i suoi trapianti, sta a metà strada il corpo rannicchiato di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault, a via Caetani. Con le foto di Moro – prima le Polaroid dei brigatisti, poi le immagini del ritrovamento del cadavere – il corpo torna, dopo lunga rimozione, al centro dell’immaginario politico italiano. Il corpo oltraggiato del presidente della Democrazia cristiana – “acciambellato in quella sconcia stiva”, secondo il magnifico verso di Mario Luzi – prelude all’irrompere sulla scena di quello strano corpo mutante, artificiale, manipolabile, elastico, indistruttibile, glorioso, tecnologicamente e chirurgicamente immortale che è Silvio Berlusconi. Questa, in breve, la traiettoria tracciata da Belpoliti; che si presta però a qualche obiezione: si potrebbe osservare, per esempio, che tra Moro e Berlusconi si apre una parentesi lunga tre lustri; e che il corpo era tornato a farsi cosa pubblica molti anni prima, con i digiuni di Pannella.

    La ricostruzione pare rispondere, più che al rigore storiografico, alla logica pasoliniana delle “enigmatiche correlazioni”, che Sciascia adottò proprio per l’affaire Moro. Ebbene, una correlazione pare anche a noi di intravederla, ma non riguarda tanto il ritorno del corpo sulla scena pubblica, quanto il significato antropologico di quei due corpi così inconciliabili, di quell’iconografia che non si saprebbe immaginare più divaricata. C’è da un lato un corpo inerme, martoriato, cristologico, ridotto a “creatura”, eppure destinato a una Resurrezione minacciosa e vendicatrice. E c’è dall’altro un corpo trionfante, un supereroe da fumetto che, pur con tutto l’accanimento e la furia, non c’è modo di uccidere simbolicamente. Un sacrificio compiuto e un sacrificio mancato: Moro, la vittima espiatoria che torna a ossessionare, come revenant o come spettro, i suoi assassini e gli ignavi che lo lasciarono morire; Berlusconi, il pharmakos a cui sono imputati tutti i mali della Città e che pure non si riesce mai a mettere al bando, mentre seguita a propagare la peste dal cuore stesso della comunità, assiso sul trono.

    Più che a ogni altro personaggio politico, il cinema italiano dell’ultimo ventennio ha dato la caccia a queste due figure sacrificali, o ne è stato suo malgrado braccato – e sconfitto.

    Sacrificare senza uccidere, liberare la vittima senza versarne il sangue, che bizzarria è mai questa? Eppure, si racconta, i Tatari della regione di Minussink usavano sacrificare al dio del tuono un cavallo vivo: radunati in preghiera sul luogo del rito, gli toglievano le briglie e lo lasciavano correre via. Sarà che la “frezza bianca” evoca a suo modo l’immagine di una criniera, ma questo antico costume sembra illuminare di una nuova luce la sequenza finale di “Buongiorno, notte” (2003) di Marco Bellocchio: Aldo Moro sciolto dalle briglie nel sogno della sua carceriera-immolatrice, che passeggia intirizzito nell’aria mattutina sulle note del Momento musicale n° 3 in Fa minore di Schubert, lo stesso che in “E la nave va” (1983) di Federico Fellini era eseguito con dei bicchieri. Quei pochi secondi del film di Bellocchio – lievi, estatici, fuori tono rispetto al resto dell’opera – sprigionano una straordinaria potenza catartica, una felicità dispiegata, come se assistessimo alla liberazione di un’immagine a lungo repressa, a lungo vagheggiata e accarezzata, che pure non osavamo per qualche pudore evocare. La possibilità, lambita per un istante appena, che la vittima non sia immolata; la sospensione di quel senso plumbeo della necessità che per tutto il film sembra cingere il covo terroristico e, con esso, la mente dello spettatore, che già conosce l’epilogo.

    Quel senso di una ananké tragica, di una morte inevitabile e quasi decisa dagli astri, è uno dei tratti più insistenti di quello che Alberto Arbasino chiamò il nostro “grande psicodramma nazionale”. Il registro sacrificale domina i discorsi sul caso Moro fin dall’epoca dei fatti, fin dalle cronache e i commenti della stampa e, vorremmo dire, fin dalla prefigurazione di “Todo Modo” (il film di Elio Petri del 1976), dove l’autodistruzione della Democrazia cristiana culminava con l’immolazione del presidente, in ginocchio, in atteggiamento di preghiera. Qualunque sia il senso, palese od occulto, che si attribuisce alla morte di Moro – esibizione di mera ferocia terroristica, trama atlantico-piduista o sovietica, fine di una classe dirigente o addirittura di una Repubblica – si dà per inteso che sia una morte con una forte connotazione simbolico-rituale, la morte di un solo uomo che reca la salvezza o la rovina alla comunità.

    L’antropologia viene in soccorso della politologia, della storia, della cronaca. Italo Calvino accostò l’uccisione di Moro alle immolazioni dei re arcaici descritti da James Frazer nel “Ramo d’Oro”, e Sciascia illuminò il nesso tra la trasfigurazione della vittima, compiuta per mezzo del sangue, e la rivelazione di una colpa collettiva: “Aldo Moro morendo – nonostante tutte le sue responsabilità storiche – ha acquistato una innocenza che rende tutti noi colpevoli, dunque anche me. […] Morendo, Aldo Moro si è, per così dire, spogliato della tunica democristiana. Il suo cadavere non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa”.

    La morte di Moro non segna dunque la sua uscita di scena, ma l’annuncio di una seconda vita: come revenant incattivito, spettro accusatore o, per i pochi amici e discepoli, come il Cristo di Emmaus consolatore e benigno.

    Egli stesso, assumendo su di sé con riluttanza la parte della vittima, aveva adombrato nelle lettere dalla prigionia questo esito (“Se voi non intervenite sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese”; o anche: “Non creda la Dc di aver chiuso il suo problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione…”). Sarà per questo che il cinema su Moro è stato, in molti casi, un tentativo esorcistico di catturare su pellicola lo spettro del presidente. Più che l’ombra di un’immagine o di una fotografia, tuttavia, si tratta di registrare l’eco lontana di una voce.

    Due esempi possono aiutarci a illuminare questo ultimo punto. Il Moro-Volonté di “Todo Modo” parlava ancora quella lingua “incomprensibile come il latino” che descrisse Pasolini: un linguaggio evasivo, cerimonioso, gergale, politicistico, la cui parola chiave era “mediazione”. L’attore milanese offrì un’interpretazione iper-mimetica, parodistica, che alcuni critici accostarono perfino alle imitazioni di Alighiero Noschese, e che riproduceva a perfezione i manierismi e i curialismi del leader democristiano. Ora volgiamoci al Moro-Volonté de “Il caso Moro” (1986) di Giuseppe Ferrara, film certo meno importante, ma rivelatore di un passaggio profondo. L’attore è lo stesso e così pure il personaggio; ma l’interpretazione, da mimetica, si fa medianica: Volonté incarna un Moro già postumo a se stesso, come l’ombra di Banquo nel “Macbeth” che torna a tormentare i suoi assassini, secondo un paragone suggerito dallo stesso Ferrara. Il suo linguaggio non è più il linguaggio del potere, è il linguaggio della verità, quel linguaggio che affiora nelle lettere via via che Moro si scioglie dalla forma per entrare nella vita. Altro modo per dire che il Moro delle tante reincarnazioni cinematografiche parla come le sue stesse lettere dalla prigionia, recitate dall’oltretomba. Una presenza acusmatica che pare incarnarsi di volta in volta nel corpo dell’uno o dell’altro attore.    

    E’ quel che accade in “Buongiorno, notte”, dove il Moro di Roberto Herlitzka è un fantasma tutto riplasmato dall’immaginazione, nello sforzo vano di riportare l’indicativo della storia al condizionale dell’arte. La sua carceriera in crisi di coscienza, interpretata da Maya Sansa, è assillata dalle voci – in contrappunto, ma indistinguibili – delle lettere dei condannati a morte della Resistenza e delle lettere di Moro alla moglie Nora. Sciolto non solo dalla forma ma anche dalla vita, Moro è trasfigurato in una voce che torna ad accusare e ad assolvere, a tormentare e a guarire. E’ la voce che assilla Giulio Andreotti ne “Il Divo” (2008) di Paolo Sorrentino; ed è la voce saggia e patita che annuncia la tragedia in “Romanzo di una strage” (2012), il film di Marco Tullio Giordana sull’attentato di piazza Fontana.

    E’ questa l’apparizione più scopertamente medianica e sacrificale di Moro, ed è certo il caso di ricordare che Giordana, con l’esordio di “Maledetti vi amerò” (1980), aveva già adombrato l’immagine di un Moro come “padre-totem” freudiano abbattuto, accostandolo a un’altra grande figura sacrificale, Pier Paolo Pasolini. In “Romanzo di una strage” l’entrata in scena di Moro, interpretato da un Fabrizio Gifuni quasi funereo, è annunciata da una lenta panoramica discendente che dalla sommità di una chiesa (quasi un accenno di “segno della croce” per immagini) si ferma sull’automobile da cui il presidente scende per entrare a confessarsi: “Mi chiedo qual è il ruolo che il Signore mi ha assegnato in mezzo a questo mare in tempesta. Non riesco a capirlo, padre, non riesco a vederlo. Guardo i miei simili, e non vedo che indisciplina e vanità. Vedo furbizia, nessun senso della comunità, nessun amore se non per il proprio tornaconto. Poi viltà, opportunismo, violenza, al posto delle idee. Alle volte penso che a mantenere un contegno siano rimaste soltanto le cose: gli alberi, le pietre, la natura. Talvolta penso che all’Italia sia necessaria una catastrofe che distrugga tutto quello che vi abbiamo sovrapposto: i formicai, le auto, il cemento, e la riporti al deserto, alla nuda terra di prima, così che la natura possa riprendere il sopravvento e ricominciare dalla prima forma di vita, dal primo uomo, dal primo fuoco. Ecco, di questo cataclisma io mi sento pronto ad essere la prima vittima”.

    Un Moro cristico, messianico, che annuncia in figuris il proprio destino di morte e ne fa il segno di una catastrofe ben più vasta della mera politica, la stessa catastrofe a cui forse alludeva Sciascia nelle prime pagine dell’“Affaire Moro”, laddove stabiliva una “enigmatica correlazione” tra la morte di Moro e il ciclo inaugurato dalla pasoliniana “scomparsa delle lucciole”: quella rivoluzione antropologica che aveva cancellato l’Italia cattolica e contadina e reso obsoleti gli esponenti del potere democristiano, svuotando di senso le loro liturgie. La linea di congiunzione tracciata da Belpoliti tra Moro e Berlusconi si può considerare, forse, anche in questa luce. Se la morte del presidente segna simbolicamente la fine di un ciclo storico-antropologico del nostro paese, quindici anni più tardi il primo leader seguìto alla lenta estinzione della Democrazia cristiana avvierà un ciclo nuovo, altrettanto misterioso e indecifrabile. Che avrà come primo vagito il trillo di una risata.

    Cominciamo da una barzelletta, una delle prime che Silvio Berlusconi abbia raccontato dopo la sua “discesa in campo” (Simone Barillari, che le ha raccolte e catalogate tutte, ne data la prima apparizione al 1994). E’ la barzelletta – saremo costretti a rovinarne l’impatto umoristico, per ragioni di sintesi – in cui Massimo D’Alema annuncia a Fausto Bertinotti una triste notizia: Berlusconi è morto. E come è successo? E’ andata a fuoco una sede di Forza Italia, incendiata “casualmente” da un compagno. Bruciato vivo? No, era all’ultimo piano e si è buttato giù. Sfracellato al suolo? No, c’era un telone elastico, è rimbalzato ed è andato a finire sulla bandiera dell’ambasciata turca. Impalato alla turca, dunque? Neppure, ha fatto leva sull’asta ed è tornato a rimbalzare sul telone. Questa serie acrobatica d’incidenti e salvataggi va avanti a lungo, con Berlusconi che rimbalza sui panni stesi ad asciugare in un quartiere popolare, poi sui fili dell’alta tensione, poi ancora sul telone. E allora, chiede Bertinotti, com’è morto? “Abbiamo dovuto abbatterlo”.

    Si può leggere questa barzelletta in chiave psico-politica, come il delirio di onnipotenza di un uomo che si pensa, in cuor suo, immortale. Ma possiamo anche considerarla come un apologo profetico, spietato quanto veritiero, su ciò che sarebbe avvenuto per tutto il ventennio berlusconiano. Il leader più odiato della storia repubblicana è anche quello che non si è riusciti in nessun modo ad annientare, a uccidere simbolicamente. E questo ha lasciato nell’aria un senso d’incompiutezza, di sacrificio mancato. Il gesto folle di Massimo Tartaglia, nel dicembre 2009, che tenta di infrangere l’idolo con una statuetta del Duomo e che non solo manca lo scopo, ma accresce con il suo attentato il potere simbolico del suo bersaglio, è in questo senso esemplare. A Berlusconi sono stati imputati, a torto o a ragione, tutti i mali della Città: la corruzione della vita pubblica, il degrado antropologico, il ritorno dell’autoritarismo e del populismo, l’umiliazione delle donne, la legittimazione sfacciata del malcostume, il trionfo della volgarità televisiva, per tacere delle infinite inchieste giudiziarie su mafia, corruzione e reati economici.
    Più che un Grande Fratello orwelliano (spesso evocato a sproposito), è stato per una larga parte del paese un Emmanuel Goldstein, il personaggio contro cui, ritualmente, i sudditi della dittatura di “1984” sono autorizzati a esprimere la loro frustrazione e la loro rabbia nei famosi “due minuti d’odio”. Eppure, è stato tutto vano: quanto più si contava di dare il colpo di grazia a Berlusconi, tanto più questi risorgeva; quanto più lo si dava per vinto, tanto più tornava in campo da vincitore, con un potere simbolico sempre accresciuto.

    Berlusconi è quel che i greci avrebbero chiamato un pharmakos: è un Edipo che diffonde la peste a Tebe e che occorre scacciare dalla Città per riguadagnare la salute. Non sarà un caso se intorno alla sua uccisione si è creato un ricco filone di romanzi e di film. “L’omicidio Berlusconi” (2003) di Andrea Salieri, da cui il film “Ho ammazzato Berlusconi” (G. Rossi e D. Giometto, 2008); “2005 dopo Cristo” del collettivo di scrittori Babette Factory e “Chi ha ucciso Silvio Berlusconi” di Giuseppe Caruso, entrambi pubblicati nel 2005; il film “Shooting Silvio” (B. Carboni, 2006). Su quest’ultimo varrà la pena di spendere qualche parola, ma non prima di aver meditato a fondo le implicazioni del titolo. Shooting Silvio vuol dire, al tempo stesso, “filmare Silvio” e “sparare a Silvio”: catturare Berlusconi in un film è dunque un modo per ucciderlo in effigie, per esorcizzare la presa che ha sull’immaginario grazie alla sua debordante narrazione di sé. Perché Berlusconi è uno sconcertante esempio di leader iperrealista, che contiene in sé la propria caricatura, la propria dissacrazione, il proprio biopic di volta in volta comico, apologetico, tragico, solenne, pornografico. Racchiudere quella narrazione in una narrazione più grande è impresa titanica e votata allo scacco. Quel titolo è dunque una confessione d’impotenza; l’ammissione che, per vent’anni, non si è riusciti a fare un film che fosse all’altezza (e ampiezza) del suo oggetto.

    La caricatura è impossibile, essendo Berlusconi la caricatura di se stesso. Come si fa a “castigare ridendo” quando il castigato è un barzellettiere di razza? La maschera grottesca di Sabina Guzzanti in “Viva Zapatero!” (2005) o in “Draquila” (2010) non era che una copia scialba e incattivita dell’originale. Perfino Roberto Benigni ha perso la sua partita: dopo quel colpo d’ala tragicomico che fu Ruby “nipote di Mubarak”, il meglio che seppe inventarsi fu Rosy Bindi “suocera di Zapatero”. Tutto qui? Una mera permutazione dei termini, perché non si poteva parodiare una realtà già parodistica. Scartando dunque la strada della caricatura, che ha portato non tanto alla sconfitta di Berlusconi quanto al suicidio della satira per intossicazione moralistico-ideologica, le vie maestre sono state due.

    La prima è la duplicazione pura e semplice del caleidoscopico leader. E’ la via seguita da Roberto Faenza e Filippo Macelloni in “Silvio Forever” (2011), un montaggio di immagini di repertorio dove tutte le parole pronunciate sono di Berlusconi, citato nei credits come protagonista, voce narrante e autore dei dialoghi. Fin da bambino, racconta Silvio (anche se la voce è quella del suo imitatore Neri Marcoré), creava dei burattini, scriveva il copione e faceva tutte le voci: non è una magnifica autoallegoria? Il film – pur con tutti i giochi ironici del montaggio, da Blob – è un doppio di Berlusconi ed è anche, come Berlusconi, una macchia di Rorschach dove ciascuno vede ciò che vuole vedere. In un dibattito ospitato da Enrico Mentana su La7, nel settembre del 2011, ciascuno dei convenuti sembrava aver visto un film diverso. Per Giuliano Ferrara era un “monumento” a un personaggio unico, per Eugenio Scalfari era una serie ininterrotta di buffonerie; e il bello è che avevano entrambi ragione.

    “Silvio Forever” è non tanto un film su Berlusconi, quanto un Berlusconi in formato film; ed è un modo elegante per camuffare un’impotenza, l’impotenza ad uccidere per immagini il grande pharmakos.
    L’altra via maestra consiste nel mettere in scena quella stessa impotenza, farne l’oggetto di un film. E’ la via meta-cinematografica seguita da Nanni Moretti. “Il Caimano” (2006) è un film non tanto su Berlusconi, quanto sull’impossibilità di fare un film su Berlusconi; per le prudenze e le viltà della produzione, per il desiderio di quieto vivere degli attori e dei registi, ma più ancora perché Berlusconi ha colonizzato il nostro immaginario, anche – insinua Moretti – grazie al cinema di genere e allo spettacolo popolare, che hanno preparato il suo avvento foggiando un’Italia a sua immagine. Tre Berlusconi si susseguono nel “Caimano”: il primo, Elio De Capitani (il Berlusconi del “film nel film” di cui una giovane regista ha scritto la sceneggiatura), è la caricatura moralistica e dietrologica, quella che il pubblico antiberlusconiano si aspetta; il secondo, Michele Placido (l’attore scritturato per il film, che si defilerà con una scusa, preferendo un progetto più sicuro e redditizio), incarna la resa del cinema civile alle sirene del tempo nuovo; il terzo, Nanni Moretti stesso (il Berlusconi dell’unica scena che la regista riuscirà a filmare), celebra l’oscuro trionfo finale del Caimano, acclamato dal suo popolo perfino dopo la condanna. Ciascuno dei tre ribadisce a suo modo uno scacco, un’uccisione mancata, una partita di caccia da cui si torna a mani vuote.

    Il film “Shooting Silvio” segue, in questo, la parabola del “Caimano”. Opera prima del giovane regista Berardo Carboni, non passerà certo alla storia per le sue qualità estetiche o narrative, ma non è il caso di infierire più di quanto abbia fatto la critica al momento della sua uscita. L’ispirazione centrale viene da “Apocalypse Now” (F. F. Coppola, 1979), e dunque dalla spedizione sulle tracce di un tenebroso sovrano tribale. Un giovane ricco e annoiato, che si fa chiamare Kurtz come il personaggio di Joseph Conrad (e di Coppola), propone agli amici di scrivere un libro collettivo sui cento modi e i cento motivi per uccidere Berlusconi in senso “fisico, politico, metafisico, ognuno come crede”. Si tratta di annientare il simbolo e la causa prima di tutti i mali, il “cuore di tenebra” di un’intera generazione. Ma gli amici non lo seguono, e presto Kurtz si persuade che la via d’uscita dalla sua angoscia e dal suo senso di vuoto non sta nell’immaginazione letteraria dell’atto ma nell’atto stesso, ossia l’uccisione fisica di Silvio Berlusconi. Come definire il gesto che medita di compiere? Tirannicidio? Nei sopralluoghi preparatori per l’attentato il ragazzo ha un breve dialogo con Marco Travaglio, nella parte di se stesso: “Cosa succederebbe se qualcuno lo mettesse, come dire, fuori gioco, lo facesse uscire di scena di colpo? Sarebbe un deicidio, perché un uomo che si paragona a Gesù Cristo chiunque lo volesse eliminare commetterebbe non solo un omicidio ma un deicidio, che è molto più grave”.

    La battuta del giornalista coglie tutto il senso sacrificale del gesto: l’uccisione di Berlusconi avrebbe qualcosa dell’immolazione di un re sacro, al pari di quelle descritte da Frazer nel “Ramo d’oro” (una delle fonti di Coppola, per la mediazione di T. S. Eliot). E il suo potere simbolico non potrebbe che risultarne ingigantito e ormai incontrollabile: al Berlusconi nell’etere si sommerebbe il Berlusconi nei cieli. Quando il ragazzo, infine, rapisce Berlusconi e gli mette in volto la maschera calva di Marlon Brando (il Kurtz di “Apocalypse Now”, appunto), il presidente cerca di dissuaderlo con questo monito: “Se lei mi uccide io passerò alla storia come un imprenditore geniale, un grande statista e un martire civile, lei invece sarà ricordato come un pazzo incivile”. Quasi le stesse parole che Moro-Herlitzka rivolge ai suoi carcerieri in “Buongiorno, notte” (“Ma non capite che diventerò un martire? […] Quando la televisione, i giornali mostreranno le foto del mio cadavere, la gente non potrà capire, vi odierà!”). La divinizzazione “evemeristica” del defunto rischia dunque di riproporsi ancora. Che sia una scelta consapevole, un caso o anche solo un’“enigmatica correlazione”, nel finale di “Shooting Silvio” il presidente è condotto, in una macchina dai vetri oscurati, a Monte Mario: il quartiere romano dove, a via Mario Fani, fu sequestrato Aldo Moro.

    Il grande pharmakos resiste vittorioso a ogni tentativo di immolarlo, il capro espiatorio fugge per i boschi, imprendibile. Chi saprà catturarlo? L’impresa, suggeriamo, sarebbe potuta riuscire solo a quel cinema popolare e di genere che ha mostrato nel corso dei decenni un’inesauribile vitalità e immaginazione politica, e che però attraversa un lunghissimo letargo. Un primo tentativo, forse, c’è già stato. Quando fu presentato “Dracula 3D” (2012) di Dario Argento, a più di un osservatore parve di intravedere un secondo livello di significato dietro quella libera rivisitazione della saga del vampiro. Chi sarà mai questo anziano signore che si ciba di sangue giovane per assicurarsi l’immortalità, trascinandosi dietro un’improbabile compagnia di giro di complici squinternati e corrotti che vogliono abbandonarlo perché ha oltrepassato il limite e che finiscono travolti dalla sua ira? Riferisce un cronista dell’Agence France- Presse, dal Festival di Cannes del 2012: “Alla domanda se il suo Dracula potesse essere paragonato all’ex primo ministro italiano Silvio Berlusconi, Argento si è messo a ridere e ha aggiunto, misteriosamente: ‘C’è senz’altro qualcosa che riguarda la politica italiana, ma non sarò io a dirlo’”.

    Ci resta, nel dubbio, l’immagine finale di un vampiro dissolto in cenere dalla potenza del cinema. Perché a trafiggerlo non è stato il tradizionale paletto nel cuore, è stata una pallottola d’argento.

    Il saggio di Guido Vitiello qui pubblicato è un’anticipazione del dossier intitolato “Schermi politici. Storia, identità e ideologia nel cinema italiano” contenuto nel trimestrale Rivista di Politica, diretto da Alessandro Campi ed edito da Rubbettino, in uscita questa settimana con il primo numero del 2014. Il dossier, che è stato ideato e curato dallo storico del cinema Christian Uva, si occupa in particolare del modo con cui la politica italiana degli ultimi due decenni è stata raccontata sul grande schermo, e – leggiamo nella presentazione – intende “fornire un esame delle forme, delle formule e delle tendenze che caratterizzano il cinema politico italiano” a partire da una riflessione sullo stesso significato che la locuzione “cinema politico” è andata assumendo. Oltre al saggio di Vitiello, intitolato “Re folli, capri espiatori e spiriti dei defunti. Appunti (quasi) antropologici sui politici nel cinema italiano”, il dossier comprende gli interventi di  Christian Uva (“Articolazioni politiche del cinema italiano contemporaneo”); di Anton Giulio Mancino (“Genealogia del cinema politico italiano: lo strano caso del film politico-indiziario); di Andrea Minuz (“Noi c’eravamo. La crisi della sinistra come melodramma intergenerazionale del cinema italiano”; di Paolo Russo (“La politica come sistema produttivo”).