De Mita da Nusco a Nusco

Stefano Di Michele


E’ l’ultimo della sua specie. Il Supremo Superstite. L’ultimo grande democristiano che ancora attraversi il continente emerso dopo la glaciazione dell’èra del Biancofiore – l’altro è Forlani, che però la penombra quietamente preferisce, e con essa il silenzio e l’invisibilità. Invece Ciriaco c’è. L’ultimo dei democristiani che ebbe tra le mani un potere immenso – che come il Berlusconi fu lodato, come Monti considerato, come Renzi celebrato (e anzi, come Renzi tutto sommò: partito e governo): “A’ Cirì, dicci qualcosa”. Qualsiasi cosa, Cirì – dallo spizzichino alla globalizzazione, illuminaci, Cirì. Luigi Ciriaco De Mita è un superbo mammut (e mammut è detto qui a motivo di stupore, come potrebbe dirsi del bue primigenio, come di uno pterosauro: stupore di bestia non più vista, complessa, dall’elaborato Dna, altro che il modello basico ruminante che ora si aggira), e pure un grande migratore, che il mondo ha girato, e che sul luogo d’origine al tramonto torna: come saggia testuggine che va a depositare le uova nel luogo esatto dove lo stesso suo uovo di schiuse.

    “Io penso anche quando dormo…” (Ciriaco De Mita)

    E’ l’ultimo della sua specie. Il Supremo Superstite. L’ultimo grande democristiano che ancora attraversi il continente emerso dopo la glaciazione dell’èra del Biancofiore – l’altro è Forlani, che però la penombra quietamente preferisce, e con essa il silenzio e l’invisibilità. Invece Ciriaco c’è. L’ultimo dei democristiani che ebbe tra le mani un potere immenso – che come il Berlusconi fu lodato, come Monti considerato, come Renzi celebrato (e anzi, come Renzi tutto sommò: partito e governo): “A’ Cirì, dicci qualcosa”. Qualsiasi cosa, Cirì – dallo spizzichino alla globalizzazione, illuminaci, Cirì. Luigi Ciriaco De Mita è un superbo mammut (e mammut è detto qui a motivo di stupore, come potrebbe dirsi del bue primigenio, come di uno pterosauro: stupore di bestia non più vista, complessa, dall’elaborato Dna, altro che il modello basico ruminante che ora si aggira), e pure un grande migratore, che il mondo ha girato, e che sul luogo d’origine al tramonto torna: come saggia testuggine che va a depositare le uova nel luogo esatto dove lo stesso suo uovo di schiuse. A Nusco!, a Nusco! – la cui sorte da almeno mezzo secolo con quella di Ciriaco si impasta, così che Nusco fu elevata a volte quale sorta di “scuola di Atene” dell’ultimo soffio vitale democristiano, altre come paradosso e metafora della penisola che non muta e nell’estrema provincia si annida come lucertola intimorita – terra di “Basilischi”, appunto, e Nusco come Roccasecca o come Piovarolo o come il contado di Nonna Sabella. A Nusco, quando di gloria Ciriaco splendeva, e in verità pur anche quando lo splendore meno acceso si fece – simile quasi al suo compaesano settecentesco Niccolò de Mita, “canonico chiaro per ogni virtù cristiana e per pietà” – per la stessa festa del santo, e relativo onomastico del leader, grande accorrere di folla “nello spiazzo antistante la casa dell’on. De Mita”, e pure il vescovo e amici tanti, bucatini e stinco di maiale, registrano le cronache. Ecco, le cronache: che tanto su Repubblica si possono apprezzare, quanto sul Corriere dell’Irpinia, che “questa costumanza… un’abitudine, un rituale a cui il vecchio leone di Nusco, così ancora giovane nella mente e nell’aspetto…” con ben più pathos illustra (agosto 2012). Così i resoconti del giorno in cui insieme si celebrano Ciriaco celeste e Ciriaco terrestre nella contrada avellinese, quasi un fervore tolstoiano trasudano, “ieri mattina l’aria era immota, come paralizzata dal caldo asfissiante e dal sole dardeggiante. Non un alito di vento…”, e si attruppano folle tardo-democristiane, sapienti sperimentati e freschi virgulti da instradare – “è, come dicevamo, una guida, un riferimento, una scommessa per il futuro, per il loro futuro, in questo presente europeo, italiano e meridionale, che nega le cose buone del passato, rende precario e drammatico il presente, buio e imperscrutabile il futuro: ‘De Mita – mi diceva un giovane dall’aria intelligente e timida – è una incarnazione vivente e intelligente del primato della politica nella vita dei popoli…’”.

    Ha ottantasei anni, De Mita – e di sicuro così sta, come stampato sul Corriere irpino, “giovane nella mente e nell’aspetto”, ancor piacente e viepiù vispo. Si candida a fare il sindaco di Nusco. Ragionando, si capisce: “La razionalità mi dice di farlo…”. Alle sorti dell’Alta Irpinia tutta vuole votarsi. Nusco, va da sé, non potrebbe trovare di meglio. Per Ciriaco, ecco, è rimettere insieme l’alfa e l’omega, l’inizio e la conclusione, aver visto il mondo e poi essere tornato lì. A Nusco! A Nusco! E’ sempre uguale, Ciriaco, hanno ragione i cronisti concittadini. “Tutte le ombre passano, perché la terra gira”, ebbe a dire un giorno, copernicano oltre che democristiano. Tutto gira, e tutto al suo punto di partenza torna. Nusco – ecco. Ché dal bel borgo irpino, alto lassù – dagli inverni lunghi e freddi e secchi – il giovane figlio del sarto partì per la conquista del mondo, fino a fare di Napoli, la metropoli spocchiosa e signorile e voluttuosa, una semplice “Avellino marittima”, scalo e frazione. Senza Nusco non ci sarebbe stato De Mita, questo è sicuro, non altrove poteva sbucare, chissà persino se ci sarebbe stata l’Irpinia – vabbè, Francesco De Sanctis, vabbè Sergio Leone, proprio lui, proprio quello del western all’italiana, e tal padre Crescitelli, missionario e santo, decapitato e fatto a pezzi giù nel Catai: tutto giusto, ma senza Ciriaco mai l’Irpinia si sarebbe mutata, a seconda dei giornali e del clima nel paese, oggi in un avamposto di Shangri-la, domani nel perfetto calco di Gotham City, là dove, ha sempre sostenuto con sospetta esagerazione il diretto interessato, si radicò “il 70 per cento dell’intelligenza nazionale”. E’ sempre identico a se stesso, De Mita – pur ora che invece che incrociare Gorbaciov al Cremlino se ne va a comiziare a Montecalvo Irpino, e anziché dibattere con Reagan eccolo tenere banco a piazza Umberto I a Solofra (dove una volta, nei giorni dello scontro giovanile con Sullo, un biliardino elettrico un democristiano d’altra corrente gli scagliò addosso). Perché niente, fa intendere l’intera vita e l’opera tutta di De Mita, è onorevole come il luogo da dove sei partito. Lui è uguale a come fu, e come fu era già uguale a com’era – anche quando gli rinfacciavano i giornali certe terrificanti “basette gitane”, o il Cristo d’oro dal collo pendente. Davanti al viso dell’interlocutore sempre muove le dita nell’aria, come a cercare presa su una parete scivolosa, come a voler mantenere un equilibrio nel suo ragionamento all’infinito moltiplicato, quel suo groviglio di rovi e pensieri, “la costruzione di una motivazione comune”, “mai immaginato di essere disattento ai problemi dei singoli elettori”, “gli interessi omogenei”, “le categorie interessate”, “quella forma di motivazione”, “volendo recuperare la complessità”… E’ un comporsi e uno scomporsi continuo, De Mita, un po’ Lego un po’ cubo di Rubik: nella vita in gloria – quando pure il sospettoso Economist lo innalzava, “When De Mita presides, everybody sits up” – e nell’esistenza più appartata, “quest’anno, se così si può dire, c’era un’aria un po’ diversa tra i convenuti a Nusco. Un’aria più riflessiva, meno festiva, più raccolta, ma non sfiduciata…”.

    Di sicuro il corso del borgo natio percorre come quando lungo il Transatlantico di Montecitorio si spostava, e non era la sua semplice transumanza, ma quasi trionfale ingresso di un galeone in porto – il braccio ficcato con decisione dentro l’incavo di quello dell’interlocutore, concettuosi arabeschi nell’aria, avanti e indietro, la bella convinzione di un suggestivo ragionamento e la triste consapevolezza della scarsità intellettuale dell’altro. Dai giornalisti, mica a torto, poco si aspettava: “Dimiche’, io provo a formulare un ragionamento politico, non so se tu sei in grado di comprenderlo…”.
    Pausa, occhiata prima dubbiosa e poi rassegnata al cronista che gli offriva il sostegno del proprio avambraccio: “Mah, non credo… ne dubito molto…”. E non dava scampo, se per caso capitava di annuire a mo’ di condivisione, a mo’ di comprensione, a mo’ di sbadiglio: “Quando una cosa complessa appare semplice non vuol dire che l’hai capita, ma solo che l’hai semplificata”. Persino nei biglietti di auguri si faceva ammonitore: “Un Natale sereno per valutazioni più serene”. Adesso lo puoi trovare, De Mita, intervistato dalla tivvù di Cassino – ma in nulla il suo ragionare è mutato, le dita sempre in rapida ascesa e rapidissima discesa tra naso e bocca e occhi, discesa e arrampicata, arrampicata e discesa, come a favorire lo sgravarsi del pensiero, né troppo cambiano le parole, a Roma come a Montecalvo Irpino. Forse è un porsi in alto, un mantenere le distanze; forse è un affiancare chiunque a sé, un cancellare le distanze. Lo sa, Ciriaco lo sa, che “extra Dc nulla salus” – ma il glorioso galeone che fu, e di cui lui fu negli anni Ottanta insieme poppa e prua, partito e governo, è arenato e smontato e infradiciato dall’umidità. Né Ciriaco De Mita può più nulla – lui che “io ero Dc prima che nascesse la Dc”, e ancora eterno democristiano a Democrazia cristiana trapassata – né il Ciriaco celeste, che con tanta partecipazione si festeggia, dà speranze da lassù. “Quando morirò, siccome neanche io sono eterno – ha confidato al Corriere del Mezzogiorno – sulla mia lapide voglio inciso: ricordatevi che sono stato un democristiano”. Ma non ancora. A Nusco!, intanto. A Nusco!, allora.
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    Più e più di mezzo secolo fa, lì iniziò Ciriaco – a ragione, a battagliare, a costruire la ragnatela del potere, e c’erano i democristiani che provavano a impadronirsi del “Volare”, fresco trionfo sanremese, a sostegno della causa loro, “penso che un tempo così non ritorni mai più / se non votiamo lo scudo dipinto di blu / ché tutto il bene che abbiamo verrebbe abolito / da chi di falce e martello si è sempre servito…”. Per Ciriaco, Nusco è come Macondo per Márquez, Donnafugata per il Gattopardo, Mompracen per Sandokan: un universo inseparabile da se stesso. Dove gli ammiratori fanno la fila davanti alla sua magione, e i mille suoi antipatizzanti lo hanno con voluttà inchiodato – a sberleffo fonetico, a volte, “ragionamendo!, ragionamendo!”, ad accuse di gestione padronale, altre volte. Ogni tanto qualcuno scendeva giù al sud, e raccontava sui giornali del nord di quel luogo che languiva e pativa sotto la reggenza demitiana: e non molto dissimile, pareva allora, alla crudele isola di Sachalin narrata da Cechov. “I giovani manager della miseria” – titolò così un’inchiesta in loco di Giampaolo Pansa il Corriere di Ottone. “Mi raccontarono che De Mita comandava come uno zar e gestiva le clientele come un tecnocrate. Nei discorsi citava Antonio Gramsci e nella pratica usava metodi da Gestapo”, nientemeno, rievocò Pansa anni dopo. “Bandito e miserabile!”, replicò il diretto interessato. Perennemente incompreso da cronisti vanitosi e superficiali, così si è pensato per una vita De Mita. “Tu non mi capisci, come puoi pretendere di farmi delle domande?”. Forse solo Eugenio Scalfari lo intese, filosoficamente lo esortava e sezionava, “tu sei un insieme di arcaicità e modernità”, poi gli organizzava perigliose cene con Asor Rosa e Italo Calvino. Forse, chissà, Arrigo Levi che per un libro sulla Dc lo intervistò. Magari qualche valido collega del Corriere dell’Irpinia. Ma il resto no, il resto non sa, il resto non studia – non intende, non si applica: così che, quasi poeticamente, un’esistenza il futuro sindaco di Nusco ha passato in lamentazione: codesto solo oggi sapete dire, ciò che non sono, ciò che non voglio…

    Ciò che all’inizio degli anni Novanta De Mita vide sciogliersi davanti ai suoi occhi – la Dc dal motore e dalla carrozzeria andante che lui tenne in riparazione in autofficina per quasi tutti gli anni Ottanta, col conforto dei professori, la consolazione di Repubblica e l’apporto degli esterni: non ci fu verso di rimetterla su strada – sempre ha continuato a cercare. Persino nel Pd, persino nell’Udc: che ha lo scudocrociato sull’etichetta, ma all’originale sta come le uova di lompo al caviale, solo una sorta di fornitore della Real Casa, solo un acquartieramento di antica nobiltà scampata alla rivoluzione bolscevica. Tutto si è disperso: la Dc come i demitiani, “quando c’era il miele le api arrivavano”, adesso figurarsi, “quando mi è capitato di chiedere un’attenzione a qualcuno di quelli che ho nominato ho avuto come risposta tanta cortesia ma nessun atto concreto”. De Mita è stato quel che è stato – capo del governo, segretario della Dc che con Craxi a colpi di rivendicazioni di “palle” ha combattuto, “credo fossimo d’accordo sul fatto che le avevamo entrambi”, l’uomo che vasti settori del suo stesso partito amavano odiare – e perciò in nessun altro posto può trovare ciò che fu, pur se ciò che fu ancora sogna e sempre rivendica. Tra divani damascati e pile di libri ovunque – colonne di volumi lo circondano come una volta i giocatori di spizzichino, l’amato tressette a due, i richiedenti raccomandazione, i cronisti che in fondo amavano vederlo all’opera nel cavilloso disvelamento della loro coglionaggine – lì si trova De Mita, in quella sua Terra di Mezzo introvabile a chiunque altro. E’ stato eurodeputato, ma figurarsi – chi prendi sottobraccio, lassù, uno del Lussemburgo? E che ti racconti? Un bulgaro? Un sassone? C’è un solo luogo dove De Mita può tornare, uno solo: Nusco. Lì solo. L’Alta Irpinia, a volersi allargare. L’infinitamente piccolo come ultimo rifugio per chi è stato infinitamente potente. “Roma è un’integrazione della mia vita, ma senza Nusco non sarei io” – ecco. Che poi, come ebbe a spiegare a un amico prete, che si lamentava del fatto di essere tanto colto e così relegato in una piccola parrocchia, ovunque le anime si salvano – ovunque un democristiano (della diaspora, del nicodemismo) si incrocia.

    Da lì, da quella benedetta Irpinia arrivavano i pullman carichi quando il congresso democristiano dell’82 lo innalzò – c’era Christian De Sica, in platea, e pure Heather Parisi. E i cronisti ad annotare maliziosi le targhe dei pullman dei sostenitori – Viaggi Petrillo, Viaggi Vitale, Rubbobus, Avellino, Caserta, Salerno, Benevento, e Andreotti a mormorare malizioso: “Ci voleva così poco ad affittare pullman targati Zurigo…”, e gli striscioni sugli spalti mastellianamente disposti – “Siamo da sempre con De Mita”, “Ceppaloni plaude alla riconferma di De Mita”. E lui, Ciriaco, parlava e parlava e parlava, ragionamenti e ragionamenti e ragionamenti, al congresso dell’86 il suo discorso durò cinque ore cinque, e magnifica fu la sua successiva motivazione: “Ero un oratore curioso”. E TeleAvellino tutto in diretta mandava, con il commento nientemeno che di Ruggero Orlando, il doppiopetto demitiano allargava a dismisura l’orgoglio suo e l’orgoglio irpino tutto. E molti a sfottere – ma lo sfottere, poi, è segno di certa venerazione e sicuro riconoscimento del potere esercitato: è l’indifferenza la significanza del decadere dello stesso – il suo linguaggio, e lui ogni volta a rivendicarlo, a dirne meraviglie e, soprattutto, che a dirne meraviglie erano gli altri. E perciò: 1) “Una professoressa dell’Università di Roma ha scoperto che il mio linguaggio è innovativo rispetto alla realtà, perché non è la liturgia del suono, ma il tentativo di analizzare la situazione”. 2) “Ma lo sa che in un saggio il linguista Tullio De Mauro scrisse che la mia pronuncia era giusta?”. 3), su Pina Picierno, ora capolista alle europee, e che anni fa il Pd volle candidata proprio al posto di De Mita: “L’ho cresciuta io. Ha scritto una tesi sulla mia oratoria. Che dire? Il nuovismo al posto del progresso. Il nuovo è corruzione di minorenni”.

    Perciò, dove altro tornare, ora che una certa consolazione si trova forse tra le pagine di Cicerone – ovviamente “De senectute”, cos’altro mai, “lui parla di vecchiezza come accumulo di esperienza”, o nei versi di Machado, perché poi il valicare un ragionamento dietro l’altro non esclude la facile lacrima, e raccontò De Mita che gli venne dopo aver visto una mostra di Van Gogh, “perché le cose vere non si spiegano, si intuiscono”, e dunque, tra ragionamento e ragionamento, pure il demitismo ha il suo respiro di sollievo. Tanta emotività, per dire, che secondo un suo biografo fu per questo che mai ha preso la patente, pur due volte iscritto a una scuola guida di Avellino, “ma appena vede un camion arrivare in senso contrario, inchioda, sterza brusco, rischia di finire fuori strada” – con comprensibile sollievo tra pedoni e gatti irpini. Salvatore D’Agata, che ben lo conosceva, nel momento del trionfo di quasi un trentennio fa, scrisse una biografia, “Ciriaco De Mita, una presidenza annunciata”, e per raccontarlo s’inerpicò sul tutto e sul suo contrario: “Caparbio, superbo, ansioso, pigro, paziente, freddo, verace, vanitoso, scrupoloso, ingenuo, rigoroso, fortunato, permaloso, tenace, ermetico, complessato, profondo, presuntuoso, sincero, clientelare, rinnovatore, schivo, timoroso, iracondo, generoso, leale, sferzante, onesto, sottile, deciso, abile, irreprensibile, ambizioso, arrogante, prudente, ecc. ecc…”. Dunque, democristiano fatto e finito – di quelli che hanno ogni cosa, e l’esatto contrario di ogni cosa sanno pure contenere. Cioè, ecco: finito no. Rifinito, casomai. Quasi perfetto.