Egalité? Lasciar fare gli animal spirits

Stefano Cingolani

Jagdish Bhagwati non se n’è (ancora?) occupato, ma non è difficile immaginare che il sulfureo economista indiano docente alla Columbia University sia pronto ad applicare anche a Thomas Piketty l’etichetta appiccicata a Joseph Stiglitz, George Soros e al suo connazionale a un tempo amico e rivale Amartya Sen: “L’economia da Jurassic Park”. Bhagwati ha detto recentemente al Financial Times che la sua educazione a Cambridge gli impedisce di trattenersi quando gli viene in mente una battuta caustica, e così è stato nel libro “Why Growth Matters” sull’India dall’indipendenza a oggi.

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    Jagdish Bhagwati non se n’è (ancora?) occupato, ma non è difficile immaginare che il sulfureo economista indiano docente alla Columbia University sia pronto ad applicare anche a Thomas Piketty l’etichetta appiccicata a Joseph Stiglitz, George Soros e al suo connazionale a un tempo amico e rivale Amartya Sen: “L’economia da Jurassic Park”. Bhagwati ha detto recentemente al Financial Times che la sua educazione a Cambridge gli impedisce di trattenersi quando gli viene in mente una battuta caustica, e così è stato nel libro “Why Growth Matters” sull’India dall’indipendenza a oggi. Tuttavia resta suo profondo convincimento, al quale ha dedicato l’intera vita scientifica, che la povertà e la diseguaglianza (tra i popoli come tra le classi sociali) possono essere sconfitte solo con la diffusione della crescita e questa è possibile soprattutto grazie al libero scambio e al libero mercato. Il protezionismo, l’oligopolio, l’oligarchia politica, sono i nemici principali sia dello sviluppo sia dell’equità sociale. E l’ignoranza è il brodo nel quale ribolle l’emarginazione degli uomini e dei popoli. Ma che succede quando lo sviluppo è bloccato da un’accumulazione delle ricchezze “passiva” che non diventa investimento, quando la rendita parassitaria prende il sopravvento sul profitto?

    Gli economisti Bhagwati e Piketty, preoccupati dal corto circuito della stagnazione tanto quanto Lawrence Summers, su questo sono molto più vicini di quanto si possa immaginare. Ma l’economista francese vuole “rimettere la questione della ripartizione al cuore dell’analisi economica”, mentre per l’economista indiano l’obiettivo principale resta rimuovere tutti gli ostacoli di ogni origine (sociale, economica, culturale, politica) per il dispiegarsi degli “animal spirits” (anche se sarebbe meglio chiamarli spiriti umani perché solo all’uomo è dato di trasformare se stesso e il mondo che lo circonda).
    Si ripropone, insomma, il dibattito tra redistribuzione e crescita della ricchezza che divide il pensiero economico moderno e che in epoca post marxista separa destra e sinistra. Non prima, perché Karl Marx non credeva nelle politiche redistributive, come scrive chiaramente nella sua “Critica al programma di Gotha”, un attacco implacabile all’approdo teorico e pratico del partito socialdemocratico tedesco adottato nel congresso del 1875 nella cittadina di Gotha in Turingia. Da allora, il giusto salario e la giusta tassazione diventano il paradigma della socialdemocrazia in tutto l’occidente. Marx, sviluppista fin dai tempi del Manifesto del partito comunista, vuole invece che la classe operaia si impadronisca dei mezzi di produzione, strappandoli alla borghesia e usandoli per i propri interessi e il progresso della società.  L’Unione sovietica ha segnato il fallimento dell’utopia marxista. Ma la globalizzazione ha messo in crisi anche la redistribuzione socialdemocratica: la politica dei redditi e il welfare state su base nazionale non reggono più di fronte ai nuovi termini di scambio, con una ripartizione del valore aggiunto determinata ormai su scala mondiale. Proprio questo oggi è l’impasse teorico e pratico in cui si trova sia il keynesismo sia ogni pensiero protezionista e neocorporativo. Piketty ha il merito di aver riportato il dibattito su alcuni fondamentali dell’economia (il capitale appunto), di aver smentito il luogo comune secondo il quale i baby boomer lasciano ai loro figli solo debiti (invece lasciano tanto patrimonio quanto mai nella storia moderna). E certo non intende riverniciare il comunismo né sovietico né maoista. Ma la sua “giusta” tassa mondiale sulla ricchezza non si sottrae al tramonto secolare del programma di Gotha.

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    Non viviamo certo nel migliore dei capitalismi possibili e la crisi lo ha dimostrato. Bhagwati sa bene che l’uscita dalla povertà richiede anche politiche specifiche (molte delle quali egli stesso ha proposto a governi nazionali e istituzioni internazionali), ma è un nemico giurato dell’assistenzialismo sotto ogni forma, dai prezzi amministrati alle sovrattasse, fino agli “aiuti allo sviluppo” che finiscono per alimentare ceti parassitari e autocrati corrotti. Su questo ha attaccato duramente il collega Jeffrey Sachs colpevole di aver dispensato consigli tecnocratici agli avidi e pasticcioni oligarchi della Russia eltsiniana.
    Paul Krugman è stato allievo di Bhagwati, con lui ha preparato il dottorato specializzandosi proprio sugli scambi internazionali e, diventato il campione dei neo liberal, resta sempre un convinto sostenitore del libero scambio. Amartya Sen, dal canto suo, è un grande studioso di Adam Smith. Insomma, le divisioni partigiane si stemperano, ma resta un divario di fondo tra chi vive drammaticamente le “Illusioni perdute” (visto che Balzac ricorre più volte, anche se Piketty preferisce “Papà Goriot”) e chi preferisce il quotidiano, instancabile, aggiustamento della realtà. Quel lavoro dell’artigiano che Albert Camus nell’“Uomo in rivolta” contrappone all’architetto dei rovinosi grandi sistemi novecenteschi.

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