Speciale online 13:30

Crisi di governance e sportiva, così il Barcellona deve provare a reinventarsi

Francesco Caremani

El Prat, aeroporto, lo store del Barcellona è immaginifico, grande e le indicazioni per il ritiro dei bagagli sono fatte apposta per passarci davanti. Maglie blaugrana, maglie giallorosse (tipo Lecce) in onore della Catalogna, e un foglio A4 che ricorda la partita contro l’Athletic Bilbao, si giocherà la sera di Pasqua e ci sono ancora biglietti disponibili. Pensi al tutto esaurito ma sia nel negozio ufficiale di Carrer de Jaume I, sia nel chiosco sulla Rambla, a due passi dalla statua di Cristoforo Colombo che guarda verso l’isola non trovata, c’è lo stesso avviso: più per i turisti che per i tifosi culés.

    El Prat, aeroporto, lo store del Barcellona è immaginifico, grande e le indicazioni per il ritiro dei bagagli sono fatte apposta per passarci davanti. Maglie blaugrana, maglie giallorosse (tipo Lecce) in onore della Catalogna, e un foglio A4 che ricorda la partita contro l’Athletic Bilbao, si giocherà la sera di Pasqua e ci sono ancora biglietti disponibili. Pensi al tutto esaurito ma sia nel negozio ufficiale di Carrer de Jaume I, sia nel chiosco sulla Rambla, a due passi dalla statua di Cristoforo Colombo che guarda verso l’isola non trovata, c’è lo stesso avviso: più per i turisti che per i tifosi culés. Alla fine gli spettatori sono stati solamente 57.090, una piccola crepa in un club che ha una media di 72.011. Più che l’eliminazione dalla Champions ad opera dell’Atletico Madrid è stato il gol di Bale a Valencia (2-1 Real e Coppa del Re nella bacheca del Santiago Bernabeu) ad aprire la ferita e mettere il Barcellona in stato di crisi. Non certo una crisi economica, non ancora comunque: 483 milioni di euro di ricavi, 96 in tre anni (più 5 di bonus per eventuale conquista della Champions League) grazie al contratto con la Qatar Airways (che ha intensificato i voli su El Prat), altri 70 in dieci anni da McDonald’s.

    La squadra “mas grande de la historia”, come continuano a chiamarla e raccontarla i quotidiani sportivi catalani, sta affrontando innanzi tutto una crisi di governance e di conseguenza sportiva che si sostanzia nella Supercoppa spagnola d’inizio stagione, pochino per chi nelle ultime cinque aveva vinto ben 16 trofei, tra cui 2 Champions. Secondo alcuni giornalisti locali il caso Neymar e il conseguente avvicendamento alla presidenza che ha portato Josep Maria Bartomeu a sostituire Sandro Rosell i Feliu è stato il grilletto che ha fatto detonare la carica. È un risveglio brusco questo per i catalani che sembrano quasi storditi, non tanto dalle mancate vittorie, quanto dagli errori che il loro primo simbolo pare commettere, uno dietro l’altro. Si credevano un club invincibile, invece si è scoperto fallibile, dalla successione di Guardiola, mal gestita e peggio raccontata (tristi e di cattivo gusto le polemiche, vere o presunte, a distanza sul compianto Tito Vilanova), al mancato ricambio di alcuni uomini chiave: Puyol in particolare.

    Pep ha creato un unicum, anche e soprattutto negli uomini, tant’è che i grandi investimenti dell’era d’oro non hanno mai entusiasmato: Ibrahimovic (69,5 milioni di euro), Villa (40), Fabregas (34) e Neymar (57,1) di fatto non hanno mai spostato gli equilibri e non sono serviti ai trionfi del Barcellona che aveva in altri calciatori (Messi) e in un gioco orchestrale i suoi punti di forza. Qualcosa che Tito Vilanova conosceva e con cui è riuscito a vincere la Liga lo scorso anno, ma di fatto irripetibile: “Al Barça devo rispettare la filosofia della squadra. Non posso giocare alla maniera di Fabregas, o alla maniera che piace a Fabregas. È impossibile”, ha dichiarato Cesc, confermando l’analisi. Senza contare che Guardiola e Rosell avevano suggestioni differenti sul futuro del club. Infatti, mentre Xavi e Iniesta invecchiavano Pep stava pensando a Modric, Javi Martinez e Götze per continuare a coltivare il mood culé, ma più che un problema di soldi lo è d’immagine visto che i grandi giocatori del Barcellona di origine catalana (così come il club) non sono solo strumenti sportivi ma anche politici: disfarsene o venderli è quasi impossibile, assioma su cui si basa pure la filosofia della Masia, la cantera blaugrana.

    Puntare il dito contro i calciatori che quest’anno non hanno vinto appare quanto mai bieca irriconoscenza, ma la consapevolezza che si debba ripartire da zero, vendendo anche gli idoli, pervade la città, dalla Sagrada Familia al mercato della Boqueria. Gerardo Martino difficilmente sarà confermato e alcuni si sono chiesti perché lui e non Rijkaard che conosceva bene l’ambiente e che aveva già vinto in Europa, creando quell’humus sul quale Guardiola ha poi costruito la squadra “mas grande de la historia”.

    [**Video_box_2**]Barcellona, quando si diffuse l’Art Nouveau, riuscì a stupire l’Europa e il mondo con il Modernismo, attraverso le mani e la testa di Gaudì (figlio di artigiani calderai), che ha lasciato segni indelebili e bellissimi del suo genio. Laporta prima e Rosell poi hanno fatto lo stesso nel calcio, attraverso la mente e le visioni di Pep Guardiola, ma il football come l’arte è espressione di un periodo storico mai paragonabile con altri, per questo dirsi i più forti di sempre stona, soprattutto se l’aura viene costruita con una buona dose di ipocrisia, fair play da quattro soldi (dalla simulazione must di Busquets all’irrigazione accesa dopo essere stati eliminati dall’Inter), buonismo (leggi Unicef, anche se poi arrivano soldi veri all’istituzione internazionale), valori catalani. Gli scandali, infatti, non sono mancati così come gli affari gestiti male.

    Se a Barcellona chiedi indicazioni ti rispondono subito, poi cambiano discorso e ti spiegano come arrivare al Camp Nou, il suo museo è il più visitato della Catalogna con una media di 1.160.000 visitatori l’anno, che trovano i trofei del Barça, memorabilia calcistiche e opere d’arte. I bambini e le bambine che scorrazzano per le strade della città vestono la maglia blaugrana originale con il proprio nome sulle spalle (o quello del loro idolo) e la riporteranno in patria come un cimelio inestimabile. Ecco, il club è anche questo, fondamentale volano del turismo e dell’economia locale, un’immagine che non può sbiadire all’improvviso e che non dovrebbe nemmeno essere sporcata perché i catalani ne potrebbero risentire prima nel portafoglio che nel cuore. Un’immagine così forte che è riuscita a cancellare l’altra squadra della città, l’Espanyol, quasi mai raccontata, ma soprattutto mai presente negli angoli del Barrio Gotico, il quartiere storico di Barcellona, dove nei ristoranti si raccontano le storie di Pepe Carvalho; come se non esistesse, come se non fosse mai esistita, come se in Catalogna ci fosse stato sempre e solo il Barcellona: “Se tu consideri il Barça solo come una squadra di calcio non vedi il nous intangibile che da senso al club”, ha dichiarato Piquè al mensile francese So Foot, confermando quello che gli agiografi blaugrana cercano costantemente di sminuire.

    Calcisticamente, mercato o non mercato, dimenticando che dai tempi di Kubala il Barcellona (così come il Real Madrid poi con Puskas) ha sempre goduto di un occhio di riguardo da parte della Fifa, la vittoria nella Uefa Youth League (la Champions dei giovani) pare già assicurare nuovi adepti alla filosofia blaugrana, pronti a sostituire Puyol, ma anche Xavi, Iniesta e altri perché stanchi o perché troppo vecchi per rimanere ai massimi livelli. Se non fosse un club potrebbe sembrare una setta con regole rigide e precise, nell’eterna dicotomia con il Real: qui si crescono talenti per un fine metafisico superiore, a Madrid si crescono talenti e il fine superiore è la Decima. Ma allora cos’è che ha provocato la crisi del Barcellona? “Penso che siamo schiavi del nostro stile”, Piquè dixit.