Liberisti di stato

Stefano Cingolani

Honi soit qui mal y pense. Guai a chi rispolvera i soliti luoghi comuni, i detti popolari, la saggezza della nonna. L’onta ricada su chi parla di topi alla guardia del formaggio e altre bestialità. Perché la scelta di paracadutare nelle aziende a partecipazione statale liberisti di chiara fama con inappuntabili curricula, non è una pensata birichina dei toscanacci alla Matteo Renzi e Marco Carrai, né la ricerca di alibi da parte dei soliti boiardi che poi attaccano il carro dove vuole il signore e padrone. Niente di tutto questo: è davvero una cosa seria, una garanzia per gli utenti, per la concorrenza, per il libero mercato, istituzione da tanti disprezzata, ma che poi fa bene a tutti.

    “Il mio onor, se lo infango, è su me che si vendica e voi vorreste spingermi a mancar di parola!”  (Pierre Corneille, “Il Cid”, atto III, scena VI)

    Honi soit qui mal y pense. Guai a chi rispolvera i soliti luoghi comuni, i detti popolari, la saggezza della nonna. L’onta ricada su chi parla di topi alla guardia del formaggio e altre bestialità. Perché la scelta di paracadutare nelle aziende a partecipazione statale liberisti di chiara fama con inappuntabili curricula, non è una pensata birichina dei toscanacci alla Matteo Renzi e Marco Carrai, né la ricerca di alibi da parte dei soliti boiardi che poi attaccano il carro dove vuole il signore e padrone. Niente di tutto questo: è davvero una cosa seria, una garanzia per gli utenti, per la concorrenza, per il libero mercato, istituzione da tanti disprezzata, ma che poi fa bene a tutti. Finalmente avremo tariffe elettriche più basse, concorrenza, privatizzazioni di tutto quel che è privatizzabile, merito, primato del consumatore e, ultimo ma non per importanza, il funerale della lottizzazione. Le aspettative sono alte, forse troppo; non è giusto caricare sulle spalle di tre stimati professori e professionisti come Luigi Zingales, Alberto Pera e Alessandro De Nicola, consiglieri freschi di nomina rispettivamente all’Eni, all’Enel e nella Finmeccanica, tutte le speranze frustrate da ottant’anni di monopolismo pubblico e un quarto di secolo di monopolismo privato. Ma se uno li apprezza, li stima e spera in loro, comme il faut, non può non incoraggiarli a spezzare i tanto deprecati lacci e lacciuoli.

    Chi ha più esperienza di consigli di amministrazione, anche se proviene da un percorso accademico, è senza dubbio Luigi Zingales. I sette anni trascorsi in Telecom Italia (sette anni di vacche magrissime) debbono averlo forgiato e vaccinato. Anche questo, oltre ai brillanti e popolari articoli, alle taglianti apparizioni televisive o alla voglia di far politica manifestata nella breve e tempestosa apparizione in Fare (per fermare il declino, ovviamente) ha spinto Carrai a presentarlo a Renzi. E’ vero, l’azienda telefonica non è più statale, è stata privatizzata sia pur malamente e su di lei si sono avvicendati capitalisti dal braccino corto (gli Agnelli), capitani coraggiosi (Colaninno & C.), eredi blasonati (Tronchetti Provera in Pirelli) e i caballeros della nuova Spagna. Tuttavia Telecom, inutile negarlo, non è un’impresa come le altre, viene chiamata di volta in volta “sensibile” o strategica (anche perché attraverso i suoi cavi e le sue bande passano gli ascolti dei servizi segreti e della magistratura) e resta vincolata alle concessioni pubbliche, quindi ai vizi e vezzi della politica.

    Il professor Zingales si è laureato alla Bocconi, ma s’è fatto le ossa negli States, prima al Massachusetts Institute of Technology di Boston e poi alla Chicago Booth School of Business dove ricopre l’incarico di Robert C. McCormack professor of Entrepreneurship and Finance (dunque un cervellone che di impresa e finanza ne capisce). In Telecom non ha avuto vita facile. E’ entrato come consigliere indipendente, con in testa l’idea che la concorrenza è il bene supremo. Ma come farlo capire ai padroni e ai manager di un incumbent (così dicono gli anglofoni pescando un termine latino) cioè di chi è il più forte e difende il proprio privilegio di fronte ai nuovi arrivati? Impossibile. Infatti, non lo hanno capito. Lo stesso Zingales si è trovato di fronte al dilemma corneilliano (da Pierre Corneille) tra quel che si deve e quel che si ama. Prendiamo lo scorporo della rete: per seguire le proprie convinzioni liberiste, Zingales avrebbe dovuto sostenere la separazione della distribuzione dei dati dalla loro produzione, ma per fare gli interessi dell’impresa doveva difenderne la proprietà. E lui, seguendo l’esempio di Rodrigo Díaz de Bivar, detto El Cid Campeador, ha soffocato i sentimenti e scelto il dovere schierandosi contro la separazione: “Sarebbe un esproprio”, ha dichiarato. Di rospi ne ha ingoiati molti, come la superliquidazione con la quale è stato accompagnato alla porta Franco Bernabè: 8,2 milioni di euro. “La buonuscita grida vendetta”, ha dichiarato il professore che ha salutato i suoi colleghi convinto di lasciare, tutto sommato, “un’azienda migliore”.

    Wait and see, direbbero a Chicago, ma più di un dubbio frulla nella testa dei clienti di Telecom, per non parlare dei concorrenti tenuti a bada con l’astuzia della volpe e la forza del leone. Un po’ lo stesso stile mostrato da Mauro Moretti alle Ferrovie dello stato, dove ha difeso con le unghie e con i denti il primato nell’alta velocità mettendo con le spalle al muro lo sfidante Italo. Il treno di Montezemolo è finito su un binario morto, come quelli sui quali lo hanno fatto parcheggiare negli angoli più remoti della stazione Ostiense a Roma. Di Moretti che ora guida Finmeccanica parleremo dopo. Perché la prova che adesso Zingales deve superare è ben più ardua. L’Eni, infatti, è di fronte a dilemmi strategici di primo piano.

    La crisi ucraina impone di allentare i legami con la Russia diventati strettissimi, praticamente indissolubili nel breve periodo. Tutti sanno che il gas in arrivo da Mosca in Europa (180 miliardi di metri cubi l’anno) attraverso Gazprom è insostituibile di qui al resto del decennio. Quello che gli americani estraggono dalle rocce deve essere liquefatto, trasportato per nave e poi rigassificato. Costa molto e soprattutto né gli Usa né il Canada hanno impianti di liquefazione pronti. I primi funzioneranno, probabilmente, a partire dal prossimo anno. Se scattassero sanzioni dure contro Vladimir Putin, l’Italia (come pure la Germania) resterebbe al freddo e al gelo. Il flusso dal Nordafrica non è ovviamente sufficiente. E anche lì i problemi per Greenstream (otto miliardi di metri cubi l’anno) non mancano: gli impianti sono perennemente minacciati dai signori della guerra che oggi si spartiscono la Libia.

    Il nuovo amministratore delegato, Claudio Descalzi, conosce bene ogni dettaglio, è cresciuto all’Eni dove s’è occupato soprattutto di cercare nuove riserve di idrocarburi e a lui si deve il maggior risultato degli ultimi tempi: i nuovi giacimenti in Mozambico scoperti tre anni fa. Uomo di fiducia di Scaroni, è sempre stato più che convinto della strategia filo-russa e lo ha anche detto in pubblico più volte. Ma a lui toccherà dare un colpo di barra al timone e aggiustare la rotta. Non ci sono alternative. Gli americani sono stati chiarissimi e di fronte al mutamento del paradigma strategico che determina la sicurezza in Europa c’è poco da scherzare. Ci vorrà tempo, sarà costoso, ma è inevitabile. Vedremo al suo insediamento, giovedì prossimo, quali segnali invierà, Descalzi intanto ha fatto capire che bisognerà puntare sulle fonti rinnovabili: acqua, vento, sole, a parte il gas americano, il rilancio del petrolio e un dilemma difficile riguardo a nuovi gasdotti. L’Eni è impegnata nel South Stream (63 miliardi di metri cubi l’anno sotto il mar Nero) insieme a Gazprom e all’azienda elettrica francese Edf; gli Stati Uniti e altri paesi europei puntano sui tubi che vengono dal mar Caspio attraverso la Turchia e porteranno fino a dieci miliardi di metri cubi annui.

    [**Video_box_2**]Progetti con tanti punti interrogativi. E comunque non bastano. Dunque, fonti rinnovabili, il nuovo mantra recita così. E mette i liberisti ancora una volta di fronte al dilemma corneilliano. Perché le rinnovabili sono costosissime e soprattutto sovvenzionate dallo stato. Ovunque, anzi in Germania e Spagna ancor più che in Italia, perché oggi come oggi sono fuori mercato. Non solo. Le conseguenze pratiche di questa bolla gonfiata con tariffe più care e con le tasse che gravano sui contribuenti, sono ovunque negative. Si è creata una distorsione che ha provocato alcune vittime illustri. In Germania è in crisi il colosso E.On. In Italia il collasso della Sorgenia di Carlo De Benedetti è colpa di scelte produttive sbagliate, ma anche di una sovrapproduzione elettrica spinta fino agli eccessi grazie allo spreco dell’energia pulita. Ancora una volta, per seguire le proprie convinzioni ideali, Zingales dovrebbe opporsi, per fare gli interessi dell’Eni dovrebbe appoggiare la svolta. Il professore ha messo le mani avanti: “Gestire l’Eni non è facile e se uno cerca persone di talento sono più i no dei sì. Se poi ci sono forti limiti rispetto a quanto può pagarli allora li attira ancora di meno”, ha dichiarato al forum Ambrosetti. Dicono che quando lo hanno chiamato dal ministero dell’Economia per proporgli di andare all’Eni si sia fatto desiderare. Su Facebook spiega: “Da privato cittadino rimango a favore delle privatizzazioni delle imprese statali, ma questa è una decisione politica che spetta al ministro e al governo, non ai consiglieri di amministrazione. Che sia in procinto di essere privatizzata o no, qualsiasi impresa statale deve essere gestita bene. E il mio compito come consigliere è proprio quello di assicurare che la gestione della società sia volta a creare il massimo valore possibile”. Come Rodrigo, “Feci quel che dovevo, quel che debbo ora faccio” (“Il Cid”, atto III, scena IV).

    Il dilemma si pone in modo altrettanto netto per Alberto Pera all’Enel. Tanto più che a gestire l’azienda è stato scelto l’uomo che ha guidato il settore rinnovabili, cioè Francesco Starace, top manager di Green Power. Pera è un avvocato e un economista (con un master alla London School of Economics e parecchi anni a Washington), grande esperto di concorrenza, già coordinatore regionale del Lazio per Fare per fermare il declino e tra i promotori di Ali, Alleanza liberaldemocratica per l’Italia, insieme a De Nicola. Conosce bene l’odiato Leviatano: è stato il primo segretario dell’Antitrust, capo delle ricerche economiche in Iri e lo studio legale di cui è socio dal 2001, il Gianni-Origoni-Cappelli-Grippo, ha avuto mille occasioni di lavorare con lo stato. La coordinatrice di Ali, Silvia Enrico, intervistata da Formiche.net avverte: “Se dal socio di maggioranza dovesse arrivare una indicazione di apertura al mercato delle società nelle quali sono stati nominati amministratori, sono certa che De Nicola e Pera non faranno melina come altri nel passato”. Nessuno ne dubita. Intanto anche l’Enel deve far fronte alla nuova emergenza energetica. Prima di andarsene, l’amministratore delegato Fulvio Conti ha lasciato in eredità un contratto con la statunitense Cheniere Energy per tre miliardi di metri cubi l’anno di shale gas da portare in Spagna e scaricare nei sei rigassificatori di Endesa (l’azienda elettrica spagnola controllata da Enel). Un terzo sarà poi veicolato nell’Italia che continua a opporsi alla costruzione di impianti di trasformazione. Ben fatto, ma il tutto avverrà non prima del 2018 per i noti motivi che gli americani non sono pronti: il primo impianto di liquefazione nel golfo del Messico entrerà in funzione solo tra quattro anni. Nel frattempo, c’è da risolvere la grana degli incentivi alle fonti rinnovabili, bestia nera dei liberisti.

    Anche Alessandro De Nicola, fresco consigliere di Finmeccanica, è un avvocato d’affari e lavora nello studio Orrick, presiede la Adam Smith Society, insegna alla Bocconi e al Master del Sole 24 Ore, ma è anche membro dell’organo di Vigilanza di Ing Direct, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Credit Suisse AG e pure di Expo 2015. Editorialista della Repubblica (Rodolfo De Benedetti apprezza i liberisti e lo zio Franco è presidente dell’Istituto Bruno Leoni), dalle colonne del quotidiano ha chiesto la liberalizzazione dei servizi postali e del trasporto ferroviario e locale: “Uno dei maggiori ostacoli alla liberalizzazione, è la pervicace presenza del Leviatano all’interno dell’economia, in un intreccio fatto di proprietà azionaria, golden share, concessioni, autorizzazioni, influenze politiche e sindacali che spaziano dalla concessione di crediti al salvataggio delle aziende decotte”. E ancora: “La natura dello stato-imprenditore, che provoca guai soprattutto nei settori dove le sue aziende godono di protezioni normative, nonostante, come è ovvio, non tutte le società pubbliche siano malgestite. La vicinanza con il regolatore, le influenze del potere politico, il ripianamento delle perdite a piè di lista, l’occhio di riguardo del sistema bancario, le assunzioni legate all’appartenenza partitica sono fattori che generano distorsioni della concorrenza, inefficienza e al peggio corruzione”.

    Parole da leggere con attenzione e meditare perché oggi De Nicola è finito nell’accampamento degli infedeli. Alla guida del gruppo Finmeccanica si trova Mauro Moretti il quale, quando era capo delle Ferrovie, non si è dimostrato esattamente un fan né delle privatizzazioni né delle liberalizzazioni. Intervistato nel dicembre scorso dalla Repubblica gettava acqua fresca sulle speranze privatizzatrici del governo Letta. Non solo. Il suo predecessore Alessandro Pansa gli ha lasciato in eredità un piano industriale che prevede la cessione di Ansaldo Breda e Ansaldo Sts. La prima produce i treni Etr ad alta velocità e la seconda fa segnalamento ferroviario, due settori considerati strategici e cari a Moretti il quale finora ha mostrato di parteggiare per l’idea di creare dei campioni nazionali in grado di competere con i gruppi privati e quelli stranieri. Protezionismo, politica industriale, incentivi, sussidi, ruolo guida della mano pubblica. Bestemmie per i turbo-liberisti. Parole bandite nei manifesti e nei programmi del club dal quale provengono i neo consiglieri delle partecipazioni statali. Anche De Nicola è un Rodrigo alle prese con un altro dilemma dell’onore, quello che dovrebbe spingerlo a liberarsi dal dominio dell’oppressore, lavorando al suo fianco. O magari i professori, neo consiglieri nelle partecipazioni statali, fanno dell’entrismo, cioè si comportano come i vecchi seguaci di Trotsky che pensavano di rovesciare il potere dall’interno, entrando nelle stanze dei bottoni? E perché vengono tutti da lì, da Fare (per fermare il declino naturalmente)? Se lo chiedono in molti e non è una coincidenza.
    Ci sono dietro ragioni ideali, come abbiamo visto, da non sottovalutare. Mettere del pepe liberista favorisce la preparazione di pietanze indigeste. E certo le privatizzazioni, se il governo rispetterà i propri impegni, non sono facili da assorbire. Ma contano anche le affinità politiche emerse in più occasioni. Un articolo de Linkiesta.it ha ricordato che subito dopo la sconfitta di Renzi alle primarie del Pd nel 2012, Fermare il declino faceva proselitismo in questo modo: “Se hai votato Renzi vieni con noi, abbiamo un’agenda così simile alla sua che molti dei nostri hanno votato per lui. Un’agenda che non può essere portata avanti da Bersani o Vendola”. E proseguiva: “Renzi ha perso, ma la sua battaglia non è stata invano. Ha dimostrato che nel paese c’è un grande bisogno di idee e facce nuove, che la lotta contro lo statalismo ha un grande seguito popolare”. Wishful thinking, ma non si sa mai. Zingales, del resto, potrebbe persino essere etichettato come renziano antemarcia. Nel 2011 ha partecipato alla Leopolda, poi ha fondato Fare e lo ha terremotato rivelando che Oscar Giannino non era laureato tanto meno a Chicago. Un colpo gobbo, anzi mortale per il nascente movimento, che non poteva non lasciare strascichi. Chi non ha nascosto la sua irritazione per la svolta “entrista” dei colleghi è Michele Boldrin, anche lui professore “americano”, tra i fondatori di Fare: “Le capriole intellettuali e i contorcimenti etici non sono mai stati il mio forte. Li lascio ai ‘liberisti doc’”, ha cinguettato online. Ma il pessimismo brontolone non deve chiudere l’uscio alla speranza. Scavate bene, vecchie talpe, e anche il Leviatano si rivelerà una tigre di carta. Prima o poi.