L'ultimo dei Bhutto
Benazir Bhutto non voleva che i suoi figli guardassero i cartoni animati perché la sua infanzia, per quanto agiata, non aveva conosciuto frivolezze ed era convinta che fosse stato un bene, ma per quanto si sforzasse di essere ferma, alla fine capitolava: c’era sempre un discorso impetuoso da scrivere, un consigliere da ricevere, un aereo a dividerla dai suoi bambini. Un giorno sta scendendo le scale di corsa quando sua figlia Bakhtwar, 7 anni, accenna un saluto con la mano e dice: “Ciao, è stato bello vederti. Torna presto”. “Cosa vuoi dire? – risponde Benazir – Io sono tua madre, noi siamo unite come il tuo braccio è attaccato al tuo corpo”. “Mamma, il mio braccio non fa che staccarsi”, la gela Bakhtwar. “Torna sempre però!”, insiste Benazir. E’ a quel punto che Bilawal, il primogenito di otto anni, corre ad abbracciarla e mentre la stringe ripete: “Torna, torna, sempre”.
Benazir Bhutto non voleva che i suoi figli guardassero i cartoni animati perché la sua infanzia, per quanto agiata, non aveva conosciuto frivolezze ed era convinta che fosse stato un bene, ma per quanto si sforzasse di essere ferma, alla fine capitolava: c’era sempre un discorso impetuoso da scrivere, un consigliere da ricevere, un aereo a dividerla dai suoi bambini. Un giorno sta scendendo le scale di corsa quando sua figlia Bakhtwar, 7 anni, accenna un saluto con la mano e dice: “Ciao, è stato bello vederti. Torna presto”. “Cosa vuoi dire? – risponde Benazir – Io sono tua madre, noi siamo unite come il tuo braccio è attaccato al tuo corpo”. “Mamma, il mio braccio non fa che staccarsi”, la gela Bakhtwar. “Torna sempre però!”, insiste Benazir. E’ a quel punto che Bilawal, il primogenito di otto anni, corre ad abbracciarla e mentre la stringe ripete: “Torna, torna, sempre”.
L’episodio lo racconta la stessa Benazir in uno degli articoli scritti per la rivista Slate nel giugno del 1997, una serie intitolata “A week in the life of Benazir Bhutto”. C’è molta sofferta vita pubblica in quelle pagine (il suo governo è stato destituito da un anno e suo marito Asif Zardari, “Mr 10 per cento” per le cronache dell’epoca, è in carcere accusato di corruzione) e uno spiraglio sulla sua vita domestica: i bambini che implorano un milk shake da McDonald’s; Bilawal seduto sulle sue ginocchia; la figlia minore Aseefa che le chiede: “Sei più piccola o più grande di un dinosauro?”. E c’è soprattutto la sorpresa nel constatare quanto poco ci voglia a far sorridere i suoi bambini. “Cosa ci succede quando diventiamo adulti?”.
Quando muore in un attentato a Rawalpindi il 27 dicembre del 2007 i suoi tre figli hanno 19, 17 e 14 anni. Bilawal, il primogenito, ha seguito le sue orme, studia storia nella sua alma mater, l’Università di Oxford, e si fa chiamare Mr Lawalib. Per Benazir quelli a Oxford erano stati anni felici: era bella e consapevole del suo fascino quanto del suo status (Arianna Huffington che la conobbe a quel tempo ha spesso descritto la sua incredibile vitalità “come si sentiva bene Benazir nella sua pelle”). L’età dell’innocenza di Bilawal è stata molto più breve. A due mesi dall’inizio dell’anno accademico è accanto al padre che lo presenta al mondo come l’erede di Benazir, non più Bilawal Zardari ma Bilawal Bhutto Zardari. “Il sacrificio è parte della nostra tradizione, è quello in cui crede il partito – spiegherà in seguito Zardari a Steve Coll del New Yorker – C’era bisogno di qualcosa, a parte me, qualcosa che tenesse insieme il partito”. Quel “qualcosa” è il brand dei Bhutto. “Dicono che a 19 anni i ragazzi siano giovani, dei bambini, ma non lo sono. Possono essere inesperti, ma sono abbastanza grandi per capire”.
Quando Bilawal torna a Oxford, Mr Lawalib è scomparso assieme a sua madre, Bilawal è un Bhutto e i media vogliono sapere tutto del figlio di Benazir. Il Guardian pubblica una foto che lo ritrae a una festa di Halloween con delle corna rosse in testa e la didascalia: “Dalle feste di Oxford alla politica del Pakistan”. Il Daily Mail e il Sun raccontano che non è affatto timido, anzi, frequenta molte ragazze, ma è un’amica in particolare, conosciuta con il soprannome di “Boozie Suzie” (booze in inglese è sinonimo gergale di alcol), ad alimentare la curiosità dei tabloid. Nel frattempo lo scrittore di origine pachistana Tariq Ali definisce l’investitura politica di Bilawal “una grottesca e disgustosa farsa medievale”. I fotografi lo braccano e lui decide di farsi immortalare a Christ Church, il college di suo nonno Zulfikar. Cammina sotto la pioggia con un ombrello a scacchi bianco e nero e ha l’espressione “né felice né triste” che sua madre aveva imparato dal padre. (“Nella vita pubblica la felicità è poco seria e la tristezza inutile”, le ripeteva da ragazzina), è lo stesso sguardo che ostenta quando l’Oxford Union organizza un incontro per dibattere il senso dell’eredità politica di sua madre, Bilawal ascolta e non dice una parola. Victoria Schofield, amica di lunga data della defunta leader del PPP (Pakistan People’s Party) commenta a caldo che è tutto terribilmente ingiusto, perché Benazir avrebbe voluto che il figlio proseguisse gli studi, senza distrazioni, né responsabilità troppo gravose per la sua età.
Cosa pensasse davvero Benazir riguardo al futuro politico dei suoi bambini e di Bilawal in particolare però è un mistero. “No, mai”, rispose alla giornalista Mary Anne Weaver nel 1993, “la politica in Pakistan è una faccenda troppo dolorosa. Sarei contenta se mio figlio diventasse un avvocato e mia figlia un’assistente sociale”. I vecchi saggi del partito sostengono invece che è impossibile che l’aristocratica figlia di Zulfikar Ali Bhutto, orgogliosa com’era dell’epopea familiare, non considerasse suo figlio l’erede naturale della sua storia e alcuni amici di famiglia sottolineano che non è un caso che alla nascita di Bilawal, un mese prima dell’elezione di Benazir nel 1988, lei abbia ribattezzato la villa di famiglia a Karachi “Bilawal House”: Bilawal in urdu significa “qualcuno senza eguali” e pare un nome all’altezza delle ambizioni della dinastia.
Il suo ritorno in patria è graduale, interrotto da intermezzi a Dubai (la città in cui Benazir si trasferisce nel ’97) e a Londra, ma dal 2010, quando si laurea, Bilawal passa sempre più tempo in Pakistan. Suo padre governa dal 2008 una maggioranza fragile e litigiosa che resisterà a forza di rattoppi fino al 2013, ma il Pakistan è più violento che mai, Karachi non è ancora Baghdad, ha i suoi due porti, la Borsa, i centri commerciali, l’acquario, i musical, ma l’insicurezza è misurabile nella quantità di vetri antiproiettile montati sulle macchine. Non si tratta più della violenza delle gang criminali legate al traffico di droga, né agli scontri che tradizionalmente oppongono mohajirs (di lingua urdu) e pashtun. A Karachi sono arrivati i militanti islamici che un tempo seminavano il terrore solo in Waziristan. Talebani e alleati fanno esplodere autobus, attaccano cristiani, sciiti, poliziotti, paramedici e giornalisti (ultimo in ordine di tempo il celebre anchorman di Geo Tv Hamid Mir che sopravvissuto a 6 colpi di arma da fuoco accusa l’Isi, il servizio segreto pachistano per il suo attentato), e Bilawal è un altro dei tanti bersagli. Le sue prime apparizioni pubbliche sono accolte con scetticismo. Se i fan orfani della dinastia vedono in lui tracce di sua madre – una certa somiglianza fisica e un eloquio disinvolto – molti osservatori lo definiscono semplicemente un pesce fuor d’acqua che parla urdu con l’accento inglese ed è appena un gradino più a suo agio nel brand Bhutto di quanto non sia l’erede dell’altra grande dinastia del subcontinente, Rahul, in quello dei Gandhi. Nel 2012 un giornale del Bangladesh insinua che ci sia del tenero tra il figlio di Benazir e l’elegante ministro degli Esteri, Hina Rabbani Khar.
[**Video_box_2**]Rabbani è sposata, il marito infastidito nega il pettegolezzo. Nel frattempo si rincorrono le voci di un dissidio tra Bilawal e suo padre. Nella primavera del 2013 partecipa per la prima volta a una campagna elettorale, ma è piu presente sui social network che ai comizi ed Imran Khan, l’ex campione di cricket che flirta con i talebani, lo attacca: “Non si apre il cuore da dietro un vetro antiproiettile”. Il PPP soffre prima nei sondaggi e poi alle urne. Bilawal ha 24 anni ed è troppo giovane per essere eletto, ma la sua presenza non sembra offrire dividendi alla causa del Pakistan People’s Party. Le promesse di rilancio economico di Nawaz Sharif sono molto più seducenti della memoria appannata di sua madre e Bilawal pare destinato all’oblio, non tanto dei media pachistani quanto di quelli internazionali.
Invece, da qualche mese a questa parte, Bilawal Bhutto Zardari conquista interviste su Bbc e Cnn, profili sul Guardian, lodi del Telegraph, della Brookings Institution e soprattutto dell’Economist che gli ha dedicato un articolo dal titolo: “The renaissance man”. Il “rinascimento” targato Bilawal parte da un festival culturale organizzato a febbraio nella provincia del Sindh, la roccaforte dei Bhutto. E’ nel Sindh che si intrecciano le leggende sulle origini del clan, origini che, con un pizzico di megalomania, il fondatore della dinastia fa risalire all’invasione musulmana dell’India nel 712 d. C: è nel Sindh che il suo bisnonno Sir Shah Nawaz fonda un partito ai tempi del raj britannico ed è in un mausoleo in stile Moghul, del Sindh, che sono sepolti sua madre e suo nonno Zulfikar. La trovata del festival è celebrare l’antica cultura pre-islamica della provincia, onorando le antiche rovine della città di Mohenjodaro con rievocazioni e caroselli tra i più variegati: si sono disputate corse di carri trainati da asini, concerti di musica sufi, stravaganze di gusto Bollywood, gare di aquiloni e fuochi d’artificio. Il momento più spettacolare dell’evento è stata l’inaugurazione del festival a Mohenjodaro. La cittadella dell’età del bronzo fondata da una civiltà misteriosa vissuta circa cinquemila anni fa era illuminata da giochi di son et lumière. Davanti a centinaia di politici, diplomatici e artisti, modelle in costumi succinti danzavano intorno a un calderone fumante. C’erano i ricchi e famosi di Karachi e una nutrita pattuglia di ex compagni di università di Bilawal. “Questa è la storia del Pakistan, questa è la nostra cultura e ne siamo fieri – ha detto il figlio di Benazir – Noi difenderemo il nostro diritto di dire chi siamo e combatteremo contro coloro che ce lo impediranno”. Parole coraggiose, ha scritto l’Economist, parole che non si erano mai sentite nel feroce dibattito politico pachistano, “la sua visione potrebbe fornire la piattaforma filosofica per rivitalizzare una nazione, oppure risultare nella sua condanna a morte”. A chi gli domanda se Mohenjodaro sia stato il suo battesimo politico, Bilawal risponde che no, il festival “è un evento pre-politico”, ma è chiaro che quando il figlio di Benazir rivendica un Pakistan multiculturale, quando dice che il Pakistan deve lottare per la sua integrità territoriale e insieme per i suoi spazi culturali, quando dal palco attacca l’ignavia di Nawaz Sharif e le pericolose connivenze di Imran Khan, sta lanciando un guanto di sfida. C’è chi punta il dito alla forma irriverente della sua comunicazione – dai poster che lo immortalano vestito da Superman, alla canzone rap per Mohenjadaro scritta dalla sorella Baktawar – e gli ripete che la politica non si fa con i festival. “Preferisco la politica dei festival a quella degli attacchi suicidi e degli strike”, risponde lui. Tra un gioco di laser colorati e un tableau vivant, Bilawal prova a indicare una nuova identità per il Pakistan: non è l’islam interpretato da Zia ul Haq né l’esercito di Pervez Musharraf .
Certo, resta da dimostrare quanto possa essere fertile il terreno per le sue idee. Un sondaggio condotto nel 2013 su un campione di giovani tra i 18 e i 29 anni suggerisce che i pachistani sono in maggioranza conservatori, il 64 per cento si definisce religioso o tradizionalista e il 38 vorrebbe l’introduzione della sharia. Bilawal obietta che i partiti oltranzisti non hanno mai ottenuto i successi che auspicavano alle urne e che, senza le minacce di morte dei talebani, il PPP avrebbe potuto condurre una campagna elettorale più efficace. Nel frattempo il potere del suo partito si è ridotto al controllo del Sindh e in Parlamento l’opposizione a Sharif è portata avanti soprattutto da Khan e del suo Pakistan Tehreek-e-Insaf. Bilawal vorrebbe affiancare un governo ombra all’amministrazione del Sindh, ma creare una nuova classe dirigente è un progetto ambizioso che si scontrerà con inevitabili resistenze.
Poi ci sono gli interrogativi sulla sua storia e sulla sua personalità: Bilawal è forse troppo straniero? C’è troppa Oxford in lui e troppo poco Sindh, nonostante Mohenjodaro? Assomiglia forse troppo a sua madre: un minuto la creatura con più charme sulla faccia della terra, e quello successivo una maharani, nel suo caso un maharaja, gelido e inaccessibile? Si trasformerà anche lui in un incantatore di serpenti più bravo a sedurre durante le campagne elettorali che a governare? Il figlio di Benazir ha 25 anni e suo padre dice che il suo unico orizzonte sono le elezioni del 2018, ma Bilawal ultimanente parla con l’urgenza di qualcuno disposto a giocarsi tutto. Lyse Doucet della Bbc gli ha chiesto se ha paura. “Non c’è paura nei miei geni. Io non ho paura degli assassini di mia madre, io li voglio sconfiggere”, ha risposto. Pareva sincero e aveva un furore calmo nella voce che ricordava quello di sua madre. Quando le domandavano come avesse resistito al dolore per la perdita del padre impiccato e ai lunghi anni di prigionia, Benazir diceva: “E’ stata la rabbia, la rabbia mi ha salvato”. C’è rabbia anche nella voce di Bilawal quando dice: “Pensavo che dopo la morte di mia madre avrebbero capito. Negli ultimi dieci anni abbiamo provato più volte a negoziare con i talebani e la storia ci insegna che non puoi negoziare con qualcuno che dice: ‘Quel che è mio è mio e quel che è tuo è mio’”. Reagisce con altrettanta rabbia quando qualcuno gli ricorda il “pragmatismo” che spinse Benazir a turarsi il naso davanti all’alleanza tra l’Isi, i servizi segreti pachistani, e i talebani. C’è rabbia quando attacca Sharif: “Io vorrei che Sharif fosse il nostro Churchill. Sfortunatamente sta diventando il nostro Neville Chamberlain”. Pensa che i talebani vadano sradicati e osteggia i negoziati di pace di un leader “vittima della sindrome di Stoccolma”. Contro i talebani – insiste – va usata la forza: “Non riusciranno a trascinarci all’età della pietra – ha detto dopo l’ennesimo attentato – anche noi siamo musulmani e non abbiamo bisogno che dei terroristi ci insegnino cosa è l’islam”. Il profilo di Bilawal cresce – Sharif e persino Khan hanno timidamente minacciato il pugno duro contro i talebani anche come reazione agli attacchi di Bilawal – e insieme crescono i suoi nemici. Il gruppo terroristico Lashkar - e - Jahngvi lo ha minacciato di morte e Bilawal ha tuittato giovedì scorso: “Considererò il governo del Punjab (il feudo del clan Sharif, ndr) responsabile se Sharif continua a proteggerli”.
L’edizione inglese dell’autobiografia di Benazir Bhutto era intitolata “Figlia dell’oriente”, quella americana “Figlia del destino”. Il New Yorker chiese a Benazir quale delle due copertine la rappresentasse meglio. Bhutto rispose: “Figlia dell’oriente”, o “figlia del Pakistan”, come è stato tradotto in altre edizioni, ma la sensazione fu che la risposta fosse forzata. Benazir era soprattutto la figlia di Zulfikar Ali Bhutto, una geniale e sofferente Elettra contemporanea. Quanto a Bilawal è ancora presto per stabilire se sarà un novello Edipo, incastrato nella tragica staffetta dei Bhutto o, davvero, “colui che non ha eguali”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano