Così, molto prima di Molotov e Ribbentrop, Mosca e Berlino vagheggiavano la loro Europa rosso-bruna

Alessandro Giuli

Non bisognava aspettare la stretta di mano tra Molotov e Ribbentrop per accorgersi che Mosca e Berlino possono amoreggiare come la Luna e il Sole nel piccolo scrigno culturale nazionalbolscevico. E questo accadde tra le due guerre civili europee del Novecento. Accadde quando il movimento völkisch germanico – un meticciato di naturismo giovanilistico, fantasticherie folcloriche e rifiuto della società borghese – cominciò a rispecchiarsi nella purezza della plebe slava ordinata in classe operaia. Contano, sì, ma fino a un certo punto l’esperienza bismarckiana e il socialismo prussiano teorizzato da Oswald Spengler.

    Non bisognava aspettare la stretta di mano tra Molotov e Ribbentrop per accorgersi che Mosca e Berlino possono amoreggiare come la Luna e il Sole nel piccolo scrigno culturale nazionalbolscevico. E questo accadde tra le due guerre civili europee del Novecento. Accadde quando il movimento völkisch germanico – un meticciato di naturismo giovanilistico, fantasticherie folcloriche e rifiuto della società borghese – cominciò a rispecchiarsi nella purezza della plebe slava ordinata in classe operaia. Contano, sì, ma fino a un certo punto l’esperienza bismarckiana e il socialismo prussiano teorizzato da Oswald Spengler. Torreggia, piuttosto, la coda di cometa del romanticismo tedesco, la riscoperta fichtiana della nazione germanica messa brutalmente alla gogna dalla Grande guerra – le “Tempeste d’acciaio” di Ernst Jünger, che non a caso avrebbe poi preconizzato, forgiandone il profilo bronzeo, la Gestalt dell’Operaio (Der Arbeiter). Perduto il conflitto in superficie, una minoranza di tedeschi s’introflette fino alle proprie radici e si accorge che la linfa scorre ancora verde nel popolo. Da Berlino, la Russia è pur sempre a pochi passi dell’oca, già piegata in un lampo ma rianimata (a quale prezzo…) da Lenin. E, come insegna Carl Schmitt nella sua “Teoria del partigiano”, poche cose uniscono i popoli come il nitore del conflitto di classe e la difesa dei propri confini. Il disamore estetizzante per la dissipazione del ceto guglielmino – il Thomas Mann delle “Considerazioni di un impolitico” – si combina così con l’esigenza di trovare il riscatto in un’illusoria ordalia a venire: dalla perduta “battaglia di materiali” (sempre Jünger) ci si slancia verso una rivincita che dovrebbe sigillare il trionfo del sangue e del suolo europei sulla mega-macchina dell’occidente esangue, disanimato, declinante. Nel 1918 Spengler avvia la stesura del suo “Tramonto dell’occidente”, il nazionalsocialismo è ancora un dèmone lontano. Nulla di scontato. E’ questo il momento in cui tutto è possibile nell’Europa dei vinti e dei vincitori. Irrompe sulla scena Ernst Niekisch, lettore di Machiavelli e Haushofer, ammiratore di Stalin ma innamorato di una lotta di classe nutrita da una precisa antropologia culturale, più che dalla mitizzazione di quei “borghesi mancati” vagheggiati da Marx con i suoi proletari di tutto il mondo. Niekisch patrocina così il nazionalbolscevismo. Trova un nome parlante per una dottrina coltivata in vitro dai circoli intellettuali del più anziano e meno fortunato Moeller van den Bruck, traduttore di Dostoevskij, assertore dell’invincibilità russo-prussiana: Mosca come polmone, riserva d’inesauribili energie latenti e materie prime da usare in guerra; Berlino come matrice eterna degli antichi guerrieri Germani ammirati dallo sgomento Tacito.

    [**Video_box_2**]Presto questo sogno lucido sarebbe stato spazzato via, bon gré mal gré, dall’hitlerismo che pure ne aveva vampirizzato suggestioni e intenti fino alla spartizione della Polonia. A posteriori, per dare un volto a quella minuta e tragica temperie, alcuni storici hanno utilizzato espressioni come Konservative Revolution (Armin Mohler, segretario di Jünger, nel 1950, rubando a Hofmannsthal un felice ossimoro intorno a una letteratura possibile nello spazio della nazione) o “Modernismo reazionario” (Jeffrey Herf negli anni Ottanta). Oggi ne restano cascami più o meno pittoreschi e romanzabili. Sono gli ammiratori del movimento russo di Eduard Limonov. Nostalgici in camicia rosso-bruna, alla terra dell’occaso preferiscono i bagliori accecanti della steppa russa, lì dove il Fronterlebnis, l’esperienza interiore che a volte illumina l’ardimento del soldato, ancora pulsa d’inquietudine. Non è questa, oggi, la linea di faglia che separa l’occidente americanomorfo dalla Germania di Angela Merkel. Né certo s’intravede, in quelle categorie e in quelle convulsioni novecentesche, un possibile punto d’incontro tra la Kanzlerin e lo Zar Putin. Però ricordarsene non farà male.