Termometro Ucraina
Interessi e radici di chi, in Germania, tifa per Putin
Fino a che punto è “occidentale” la Germania? La domanda, secondo un numero crescente di analisti, tedeschi e non, è tornata d’attualità. Merito, innanzitutto, della crisi ucraina e di un partito filo russo che riaffiora in parti significative dell’establishment e dell’opinione pubblica tedesca, non solo per ragioni economiche: “Pensavate che i tedeschi fossero per antonomasia i campioni del diritto internazionale e di un ordine mondiale fondato sul diritto? Allora dovrete ricredervi”. Questo invito a scavare dietro le posizioni ufficiali di Berlino – simpatetica con i manifestanti che a fine febbraio spinsero alla fuga il presidente ucraino Yanukovich e contraria all’invasione della Crimea da parte di Mosca – è arrivato due giorni fa da Clemens Wergin, editorialista della Welt, sotto forma di editoriale per l’International New York Times.
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Fino a che punto è “occidentale” la Germania? La domanda, secondo un numero crescente di analisti, tedeschi e non, è tornata d’attualità. Merito, innanzitutto, della crisi ucraina e di un partito filo russo che riaffiora in parti significative dell’establishment e dell’opinione pubblica tedesca, non solo per ragioni economiche: “Pensavate che i tedeschi fossero per antonomasia i campioni del diritto internazionale e di un ordine mondiale fondato sul diritto? Allora dovrete ricredervi”. Questo invito a scavare dietro le posizioni ufficiali di Berlino – simpatetica con i manifestanti che a fine febbraio spinsero alla fuga il presidente ucraino Yanukovich e contraria all’invasione della Crimea da parte di Mosca – è arrivato due giorni fa da Clemens Wergin, editorialista della Welt, sotto forma di editoriale per l’International New York Times. In discussione non è (soltanto) la linea di politica estera di Berlino, ma il fatto che nel paese siano emersi in queste settimane sentimenti contraddittori, per molti apparentemente incomprensibili.
Secondo un sondaggio pubblicato lo scorso mese da Infratest/dimap, il 49 per cento dei tedeschi vuole che il paese prenda “una posizione di mezzo” tra occidente e Russia rispetto alla crisi ucraina; soltanto il 45 per cento ritiene che Berlino debba posizionarsi fermamente nel fronte occidentale. Il 69 per cento dei tedeschi, secondo un sondaggio Forsa pubblicato su Handelsblatt, non è d’accordo con l’utilizzo delle sanzioni contro Mosca. “Io non ho una risposta a quanto sto per dire, ma sono sicuro che oggi sia legittimo porsi un quesito sul mio paese: si è forse riaperta la questione tedesca?”, dice Wergins al Foglio. La rivista conservatrice statunitense National Interest declina così la stessa domanda: “Si sta sviluppando un nuovo asse tra Berlino e Mosca?”.
Ieri il presidente Putin ha annunciato che le truppe russe si sono ritirate dal confine orientale dell’Ucraina (smentito dalla Nato), ha chiesto ai separatisti ucraini filorussi di Donetsk di rinviare il referendum di domenica prossima sull’indipendenza da Kiev, poi ha aggiunto che Angela Merkel avrebbe proposto una tavola rotonda tra le parti in causa, legittimando anche la presenza dei separatisti filorussi. Un’apertura non da poco, anche se gli equilibri diplomatici sono quantomeno cangianti. Si è detto che ci fossero anche le potenti fondazioni dei partiti tedeschi tra i finanziatori della dissidenza ucraina e della sua scelta filo-europea. Vero. Come è pure vero, tuttavia, quanto scritto la settimana scorsa dal Wall Street Journal a proposito della missione della cancelliera a Washington: “Merkel sta portando un messaggio chiaro da parte della lobby tedesca degli affari: basta sanzioni”.
Tra gli azionisti del carsico partito filo russo in Germania, infatti, ci sono senza dubbio le società tedesche che hanno rapporti con Mosca. L’Amministrazione Obama sta contattando i vertici di alcuni colossi americani (tra cui Alcoa, Goldman Sachs, PepsiCo, Morgan Stanley e ConocoPhillips) per convincerli a disertare il Forum di San Pietroburgo a fine mese. In Germania per il governo sarà più difficile alzare il telefono: i principali colossi privati del paese, con il passare dei giorni e l’allontanarsi degli episodi più sanguinolenti che avevano investito i manifestanti di Kiev, hanno cominciato a esprimersi pubblicamente contro un atteggiamento troppo punitivo verso Mosca. Il messaggio è arrivato da gruppi come Basf, Siemens, Volkswagen, Deutsche Bank e Adidas, per esempio. La Germania è il terzo più importante partner commerciale della Russia (dopo Cina e Olanda); dalla Russia, nel 2013, ha ricevuto il 38 per cento del petrolio che utilizza e il 36 per cento del gas. Ma il punto vero è che i flussi economici non spiegano tutto, ha scritto John Vinocur, già direttore esecutivo dell’International Herald Tribune: per la Germania, per esempio, la Russia è soltanto l’11esimo partner commerciale, e poi la società più esposta sul mercato russo (Metro) deve l’11,5 per cento dei suoi ricavi al paese di Putin, Volkswagen meno del 5 per cento. Insomma, dietro la politica estera fatta di “parliamone” (“let’s-talk-this-over”) e di “forse non possiamo farci nulla” (“maybe-we-can-do-nothing”) c’è dell’altro.
Wergin, capo della redazione Esteri della Welt, parlando con il Foglio, invita a non limitarsi alla lettura dei giornali tedeschi per capire cosa sta cambiando: “La carta stampata è molto più netta nelle critiche all’atteggiamento di Putin, alle sue violazioni del diritto internazionale. Ma in televisione, dove tra l’altro l’influenza della sinistra intellettuale è più forte, è tutto un altro discorso. In tutti i talk show politici più popolari, innanzitutto, ci sono soltanto ospiti tedeschi e russi a confrontarsi. Il messaggio forte, seppur sottinteso, è che quella ucraina sia una nazione di poco conto, a sovranità limitata. Da una parte gli analisti tedeschi ribadiscono sempre che ‘una voce in capitolo’ i russi devono averla, dall’altra si ospitano spesso posizioni fortemente filo Putin, espresse anche da tedeschi. Il sottinteso sulla sovranità limitata degli ucraini è dunque ricorrente”. In tedesco questo punto di vista, finora oscurato all’estero da un certo attivismo merkeliano e dalla necessaria semplificazione che ogni racconto mediatico impone, ha perfino un nome. Sono i “Russlandversteher”, cioè “quelli che comprendono la Russia”. Dove la comprensione indica un legame simpatetico, più che una perizia accademica.
Secondo Wergin, per esempio, “non va sottovalutato il ruolo che, nell’orientare il dibattito, viene svolto da alcune personalità ‘attentamente curate’ da Mosca”. Un tempo qualcuno le avrebbe definite “quinte colonne”, oggi si va più cauti, ma la Welt ha dedicato per esempio una sua inchiesta a Alexander Rahr, il più in vista (oltre che il più invitato in tv) tra gli esperti filo Cremlino. Rahr, di origini russe e praticamente madrelingua, recentemente ha dichiarato che l’Unione europea intende “vincere” anche in Georgia e Armenia non appena avrà finito in Ucraina, dopodiché tenterà di “liberare anche la Bielorussia dall’influenza russa”. Le ragioni di Putin vengono spiegate con cura, oltre che condivise, da questo storico che nel 2012 è diventato “senior adviser” di Wintershall, primo produttore tedesco di energia da idrocarburi e controllata da Basf, società che collabora con la russa Gazprom. Ma secondo l’inchiesta della Welt Rahr non sarebbe l’unico nel suo genere, considerati per esempio gli ex informatori della Stasi (ex agenzia di spionaggio della Germania dell’Est) che passano per think tank e forum di dialogo russo-tedeschi, prima di finire in tv come “esperti di Russia”. Lo European Council on Foreign Relations, in uno studio appena pubblicato, cita altri famosi appeaser nei confronti della Russia, protagonisti del dibattito pubblico: Rainer Lindner, Ceo di Ost-Ausschuss (lobby delle società tedesche che investono in Russia e negli ex paesi sovietici); Rainer Seele, presidente della Camera di commercio russo tedesca e presidente di Wintershall. Un ruolo speciale lo occupa il Forum di dialogo di Pietroburgo, fondato nel 2001 da Putin e dall’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (oggi presidente di Nord Stream, gasdotto della russa Gazprom), dove siedono imprese e politici (soltanto se accettati da Mosca), qualcuno perfino già colpito dalle morbide sanzioni americane. “Il risultato – ha scritto Stefan Meister dell’Ecfr – è che la politica verso la Russia viene plasmata da un misto di wishful thinking e lobbying piuttosto che da un’analisi e da una conoscenza più complessive”.
Non è tutto. Argomentazioni filoputiniane, poi, secondo Wergin, “vengono ovviamente dall’estrema sinistra, attratta dal quid anti americano presente nel pur reazionario imperalismo putiniano. E sempre di più da personalità come Alexander Gauland, responsabile della politica estera di Alternative für Deutschland, la nuova formazione conservatrice ed euroscettica” che in occasione delle europee dovrebbe riuscire a superare la soglia del 4 per cento necessaria ad entrare anche nel Parlamento federale. “Dai rappresentanti di Afd viene ripresa una posizione anti occidentale di origine pre nazista – dice Wergin – di stampo romantico. La Russia è vista come paese con una cultura autoctona, forte e in fondo meno corrotta dal capitalismo”.
[**Video_box_2**]Ma se discorsi simili sono sempre meno confinati ai gruppi più estremi dello schieramento politico, sostiene Wergin, è soprattutto perché “troppo a lungo abbiamo pensato che fosse scontato che la Germania è un paese occidentale. Ma questo era soprattutto un risultato della Guerra fredda. In quegli anni per i tedeschi non c’era scelta. Oggi che la Russia non è più un pericolo immediato, pezzi d’establishment e di opinione pubblica si riprendono la libertà di ragionare in maniera più aperta sul ‘chi’ e sul ‘dove’ siamo”. Secondo Luciano Pellicani, sociologo della Luiss ed ex direttore della rivista socialista Mondoperaio, è plausibile dunque che riaffiori adesso “una riflessione sul rapporto problematico con la Russia. La consapevolezza che gli americani possono ragionare di Ucraina seduti a tavolino, ma che per i tedeschi non è così. Ora si capisce come dietro l’apertura a est dei socialdemocratici à la Willy Brandt, cancelliere dal 1969 al 1974, quella Ostpolitik osteggiata dagli Stati Uniti, ci fossero solidarietà socialdemocratica, pragmatismo, ma anche la forte tradizione della Sonderwer, cioè della via speciale per la Germania”. Un filone che alimenta le uscite pubbliche di personalità come Erhard Eppler, già ministro di Brandt, che sullo Spiegel ha sostenuto che Putin non aveva altra scelta che quella di invadere la Crimea, rinfacciando all’establishment tedesco di non aver escluso Washington dai consessi internazionali ai tempi della guerra in Iraq con la stessa prontezza con cui oggi si esclude Mosca. L’antiamericanismo infatti, dai tempi della guerra in Iraq per arrivare fino agli scandali sulle intercettazioni made in Usa, si porta molto nella Germania di oggi. Non soltanto a sinistra.
Di recente, sul Wall Street Journal, un economista conservatore come Hans Werner Sinn, presidente dell’Istituto Ifo e fustigatore dei vizi fiscali dei paesi dell’Europa periferica, è intervenuto per spiegare “perché dovremmo offrire un’altra chance a Putin”. L’economista sostiene che invadere la Crimea avrà pure costituito una violazione del diritto internazionale, ma “la crisi attuale è pur sempre stata causata dall’occidente”. E se gli Stati Uniti non avrebbero troppo da soffrire da una Russia destabilizzata economicamente, la Germania invece sì. Per questo Merkel – dice Sinn – farebbe meglio a mediare di testa sua con Putin, senza cadere nelle trappole di una Nato “che può essere desiderosa di rimettersi in movimento”, proponendo piuttosto alla controparte “un accordo di libero scambio”. Perfino più prioritario di quello tra Ue e Stati Uniti. Fiori nei cannoni, insomma, e attenzione ai disturbatori atlantici.
Più “profondo” ancora dell’antiamericanismo, dunque, il filone cui attingono gli atteggiamenti odierni sarebbe quello più onnicomprensivo dell’“antioccidentalismo”. Per Wergin siamo ancora una volta alla “Kultur” tedesca contro la “Zivilisation” occidentale, dicotomia antica almeno come le “Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann, pubblicate originariamente nel 1918. In cui il tedesco Mann scriveva che “la ‘germanicità’ è cultura, anima, libertà, arte, e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura”. Da qui la vicinanza percepita con una Russia pressata dall’occidente, piuttosto che con l’occidente di “mercanti e bottegai”, come li chiamava lo scrittore. Che aggiungeva quindi: “La democrazia e la politica stessa sono estranee e venefiche al carattere tedesco. “Quantificare davvero la diffusione nell’opinione pubblica di ragionamenti che si ispirano a questa cultura è difficile”, dice Wergin, che comunque separa “tutto ciò dall’attuale posizione del governo Merkel, molto netta e che al massimo sarà stata influenzata da ciò”. Poi ripete: “Ma se anche non ho una risposta a quanto sto per dire, ma sono sicuro che oggi sia legittimo porsi un quesito sul mio paese: si è forse riaperta la questione tedesca?”. “Alcuni diranno che questo atteggiamento si può spiegare pure col senso di colpa dei tedeschi per le atrocità avvenute in Russia nella Seconda guerra mondiale – conclude l’editorialista della Welt – Ma io ritengo sia importante osservare che la guerra cominciò con la Germania che invadeva la Polonia da ovest. Dopo alcuni giorni l’Unione sovietica fece lo stesso da est. E i due paesi si erano accordati in segreto sulla divisione dell’Europa”.
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