Requiem per la concertazione
Flosci e litigiosi. I riti paralleli (e corporativi) di Cgil e Confindustria
Dal governo sono arrivate parole definitive sull’abbandono della concertazione come forma di mediazione tra le esigenze della politica e le istanze dei rappresentanti delle parti sociali, che accusano il colpo. Il premier Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, un ex della Lega delle cooperative, non vogliono che si ripetano i lunghi meccanismi di discussione forieri di paralisi decisionali deleterie per la competitività economica. “La concertazione molte volte è stata usata per fare finta di avere colpa tutti e colpa nessuno, un male per il paese”; in passato è stata “utile” e non va considerata come il “diavolo”, ma quella fase è chiusa.
Dal governo sono arrivate parole definitive sull’abbandono della concertazione come forma di mediazione tra le esigenze della politica e le istanze dei rappresentanti delle parti sociali, che accusano il colpo. Il premier Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, un ex della Lega delle cooperative, non vogliono che si ripetano i lunghi meccanismi di discussione forieri di paralisi decisionali deleterie per la competitività economica. “La concertazione molte volte è stata usata per fare finta di avere colpa tutti e colpa nessuno, un male per il paese”; in passato è stata “utile” e non va considerata come il “diavolo”, ma quella fase è chiusa: il governo “ascolta le proposte e si prende la responsabilità di decidere”, ha ripetuto ieri Poletti davanti all’Assemblea dei piccoli e medi imprenditori di Rete Impresa Italia. Quasi un esorcismo, quello del governo, per come si ripetono con cadenza ormai giornaliera le frasi scandite da Renzi (“avanti anche senza sindacati”, “la musica è cambiata”, “dov’è stata la Cgil in questi anni quando le cose non andavano?”) dopo l’offensiva del segretario della Cgil Susanna Camusso diretta al premier (“contrasteremo l’insofferenza verso la concertazione”). L’esorcismo non è compiuto: la Cgil si contorce, riesuma vecchie litanie (“torsione democratica”), riconosce di avere un “problema di disorientamento” a causa della crisi che “morde”, come ha detto ieri Camusso (eppure le sono passati davanti la revisione al rialzo delle stime su pil e occupazione dell’Italia da parte dell’agenzia Moody’s di ieri e, nel bene o nel male, il piano investimenti da 10 miliardi promesso da Fiat-Chrysler nel paese martedì scorso). Ora i reggenti del Pd più legati al sindacato paiono non seguire Camusso sulla linea del contrattacco duro a Renzi, con varie sfumature.
“Sgombriamo il campo dalla concertazione, oggi non c’è più. E’ finita”, ha detto Sergio Cofferati, ex segretario Cgil e oggi europarlamentare Pd. “Credo che nessuno voglia tornare agli stanchi riti della concertazione, ma tra negare questo e dire che dobbiamo fare in Italia l’orchestra felliniana ce ne passa”, ha detto ieri l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani all’assemblea nazionale della Cgil alla quale Renzi non ha preso parte. Entrambi, Cofferati e Bersani, chiedono chiarimenti al premier sui rapporti che vorrebbe instaurare con le parti sociali e lo avvertono sulla necessità di non discutere l’utilità del dialogo. D’altronde permangono le tensioni tra il governo e quella coalizione parasindacale interna al Pd che ha difeso le istanze della Cgil modificando il Jobs Act in Parlamento.
[**Video_box_2**]Le minoranze interne crescono - Le ricadute sulla strutture apicali del sindacato dei lavoratori e degli imprenditori, però, si sentono. Camusso è stata rieletta a grande maggioranza (80,5 per cento) dal congresso Cgil chiuso ieri a Rimini ma dovrà confrontarsi con la Fiom di Maurizio Landini – alleato di Renzi pro tempore e pro domo sua – che ormai costituisce una minoranza di blocco all’interno del sindacato (con il 17 per cento). Il capo dei metalmeccanici mercoledì al congresso ha rinfacciato a Camusso le sconfitte su pensioni, ammortizzatori sociali e fisco, le ha imputato l’allontanamento del sindacato dall’opinione pubblica, dai giovani, dai precari e la carenza di trasparenza e di democrazia interna. Specularmente, il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ieri ha incassato a maggioranza della giunta (76 voti a favore su 104, 28 tra contrari e schede bianche) l’approvazione del suo piano biennale e il ricambio della squadra (più snella, ma senza più gli ex manager delle partecipate di stato; Recchi-Eni, Conti-Enel, Sarmi-Poste). Clima freddo, plenaria di sole due ore, interventi tecnici. La sostituzione di Aurelio Regina dalla vicepresidenza ha contrariato molti (soprattutto i laziali che hanno declinato offerte d’incarichi). La minoranza alternativa alla linea Squinzi s’allarga: ora s’aggiungono ai noti nemici bombasseiani coloro che sostennero Squinzi alle elezioni due anni fa, come d’altronde Regina stesso (vicino a Luca di Montezemolo e Luigi Abete) il quale – già distanziatosi dal presidente – ambisce a prenderne il posto alla scadenza del mandato nel 2016. Al patron della Mapei viene rimproverato di non avere preso posizione su crisi importanti come l’Ilva e Vado Ligure (dove la magistratura è stata determinante), di reclamare inutilmente la concertazione e non incalzare un governo che va veloce.
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