Fermi, e la Siria muore

Paola Peduzzi

“Frustrazione” è la parola che più si sente citare dalle delegazioni diplomatiche che oggi s’incontrano a Londra per discutere della crisi siriana. Martedì l’inviato dell’Onu in Siria, l’algerino Lakhdar Brahimi, ha dato le dimissioni e ancora una volta si è scusato con il popolo siriano. Si sapeva che Brahimi se ne sarebbe andato: ha supervisionato i due vertici di Ginevra che avrebbero dovuto delineare un piano di transizione in Siria e fermare le violenze, e sa che lo sforzo è stato inutile.

Leggi anche Raineri Il Foglio trova in Siria le prove degli attacchi al cloro del regime di Assad

    “Frustrazione” è la parola che più si sente citare dalle delegazioni diplomatiche che oggi s’incontrano a Londra per discutere della crisi siriana. Martedì l’inviato dell’Onu in Siria, l’algerino Lakhdar Brahimi, ha dato le dimissioni e ancora una volta si è scusato con il popolo siriano. Si sapeva che Brahimi se ne sarebbe andato: ha supervisionato i due vertici di Ginevra che avrebbero dovuto delineare un piano di transizione in Siria e fermare le violenze, e sa che lo sforzo è stato inutile. Bashar el Assad è saldo al suo posto a Damasco e si occupa di farsi rieleggere il 3 giugno alle presidenziali; la violenza continua, anzi, se possibile la strategia del regime di Assad è sempre più feroce e punitiva.

    Daniele Raineri ha raccontato ieri sul Foglio quel che ha visto a Kfar Zeita, nel governatorato di Hama, colpito dalle bombe al cloro: le prove lasciano poco spazio ai dubbi. Laurent Fabius, ministro degli Esteri francese, ha confermato che ci sono “indicazioni” sul fatto che Assad abbia portato a termine almeno 14 attacchi chimici. Fabius ha criticato – con una franchezza che il New York Times ha definito “inusuale” – la decisione dell’Amministrazione Obama di non usare la forza contro Assad, alla fine dell’agosto del 2013, dopo che erano stati documentati gli attacchi al sarin. La Francia non voleva agire da sola, ha detto Fabius, e si fermò, ma se quell’operazione militare fosse stata organizzata, “pensiamo che avrebbe cambiato molte cose”.

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    Il dipartimento di stato americano dice di voler aspettare il risultato dell’inchiesta in corso dell’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons sui nuovi attacchi con il cloro (l’Opcw ha chiesto al giornalista del Foglio di poter visionare il suo materiale), ma molte fonti sostengono che dentro l’Amministrazione c’è uno scontro su quale sia la strategia da adottare nei confronti di Damasco. Parlando a un incontro privato con i leader dell’opposizione siriana in visita a Washington qualche giorno fa, il segretario di stato, John Kerry, ha detto che la comunità internazionale ha “buttato via un anno” non lavorando assieme contro Assad, come ha riportato Josh Rogin sul Daily Beast. A marzo due senatori americani che avevano partecipato a un incontro con Kerry avevano poi riferito che il segretario di stato aveva ammesso il fallimento della strategia in Siria e che era venuto il momento di cambiarla.

    Samantha Power, ambasciatrice americana all’Onu, ha manifestato pubblicamente la sua insofferenza. Per lei la questione siriana è anche personale: dopo aver scritto uno splendido libro su come l’America in tutta la sua storia non ha visto, o non ha voluto vedere, le crisi umanitarie e i genocidi in corso, ora non può rimanere a guardare senza fare nulla un dittatore che stermina il suo popolo. Il 30 aprile, in un discorso alla cena dell’Holocaust Memorial Museum, Power ha detto: “Per prevenire le atrocità, bisogna raddoppiare l’enfasi su un impegno immediato. Prima ci si muove, più alternative ci sono: è necessario sviluppare soluzioni prima che le atrocità diventino realtà. E a chi dice che un capo di stato deve scegliere tra non fare niente e mandare l’esercito, io rispondo che posta così la scelta è sbagliata, e si traduce in disimpegno e passività”. Jeffrey Goldberg, su Bloomberg View, ha ricordato che a fare quella distinzione – o i marine o niente – è stata la stessa Amministrazione Obama e che la Power con Kerry si è dissociata da quell’approccio e sta proponendo alternative. Tom Malinowski, il nuovo assistant del dipartimento di stato per democrazia e diritti umani, ha raccontato che sua figlia gli aveva chiesto che ruolo lui avesse avuto nella gestione del genocidio in Ruanda, vent’anni fa. Malinowski era lo speechwriter dell’allora segretario di stato Warren M. Christopher e mentre parlava con la ragazza realizzò che non aveva scritto la parola “Ruanda” in nessuna dichiarazione pubblica del suo capo. “Che cosa penseranno di noi tra vent’anni?”, chiede oggi Malinowski. Secondo Mark Landler del New York Times, l’Amministrazione sta avendo il suo “Ruanda moment” sulla crisi siriana, quel momento in cui capisci che il prezzo dell’inazione è il più alto di tutti.

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    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi