Imbarazzo sul complotto

Solo Napolitano dice due parole due sul complotto contro il Cav.

Salvatore Merlo

Pubblicamente le parole sono pochissime, “le dimissioni di Berlusconi furono motivate dagli eventi italiani”, dice Napolitano. E gli amici lo descrivono raggelato, spiegano che dietro il suo basso profilo s’intuisce il biasimo. Certamente le necessità elettorali di Berlusconi non disarmano la muta irritazione del Quirinale che si sente strattonato da Forza Italia né la freddezza sorniona del Pd e di Matteo Renzi che per lo più fanno spallucce, e forse pensano pure che il Cavaliere in fondo abbia ragione, che qualcosa all’estero è successo, ma lo sussurrano all’orecchio del cronista con l’aria ironica e fatalista di chi dice: “Tuttavia non importa”.

    Pubblicamente le parole sono pochissime, “le dimissioni di Berlusconi furono motivate dagli eventi italiani”, dice Napolitano. E gli amici lo descrivono raggelato, spiegano che dietro il suo basso profilo s’intuisce il biasimo. Certamente le necessità elettorali di Berlusconi non disarmano la muta irritazione del Quirinale che si sente strattonato da Forza Italia né la freddezza sorniona del Pd e di Matteo Renzi che per lo più fanno spallucce, e forse pensano pure che il Cavaliere in fondo abbia ragione, che qualcosa all’estero è successo, ma lo sussurrano all’orecchio del cronista con l’aria ironica e fatalista di chi dice: “Tuttavia non importa”. E così, mentre Renato Brunetta presenta una proposta di legge per istituire una commissione d’inchiesta “sul complotto internazionale”, solo le lingue più sciolte del governo e del centrosinistra, cavalleria leggera del disincanto, cominciano a correre. Qualcuno con placida insolenza e padronanza di sé, come l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema: “Che in Europa ci fossero capi di stato o di governo che ritenevano Berlusconi un danno per l’Unione è comprensibile. Ma questo non è un complotto”. Più malinconica e più derisoria, la signora ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ha definito “molto affascinante il romanzo del complotto” e ha ricordato i vecchi brontolii tra Berlusconi e Tremonti e Fini, quando nel 2011 “il centrodestra era esploso e impaludato, mentre esplodevano anche i conti pubblici”. Ma poi, nei capannelli di Montecitorio, tra i deputati del Pd, si fanno largo anche ammissioni spiritose, e su Berlusconi si riversa la pesante allegria degli uomini di Renzi: “Sarà anche vero quello che dice Geithner. Ma Berlusconi sarebbe caduto comunque. Non gestiva la crisi”, dice Ivan Scalfarotto, che recita quella poesia di Spoon River che si chiude così: “La verità era questa: non aveva genio”. E insomma nel Pd c’è un’atmosfera imprecisa, fatta di vaghe risonanze, ammiccamenti, ambiguità. E nel partito, come nel governo, si discute del Cavaliere come si discute di antropologia, con superiore distacco. “Renzi non dirà una parola”.

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    Dunque solo Giorgio Napolitano manifesta un po’ d’irritazione, accorcia le distanze, sceglie con accuratezza le parole, e in uno di quei suoi pignoli comunicati nei quali la sostanza è tutta nel dettaglio, descrive “libere” e “responsabili” le dimissioni di Berlusconi del 12 novembre 2011. Ricorda Gaetano Quagliariello, che c’era: “All’estero gli hanno sempre fatto la guerra, a Berlusconi. Ma all’interno, a Roma, la maggioranza si reggeva a stento”. E Scalfarotto: “Chiunque abbia rapporti con l’estero sa che Berlusconi non piaceva e non piace. Almeno nel mondo occidentale. Ma il governo stava in piedi solo grazie al pallottoliere di Denis Verdini”. E insomma, dall’America, Timothy Geithner fa sapere che è tutto vero, conferma la sua ricostruzione sulle pressioni dei “funzionari europei”, e pure in Italia, tra sberleffi e silenzi, scrollate di spalle e mezze ammissioni, nessuno nega quello che Giulio Tremonti chiama “l’antropomorfismo politico dei sorrisetti tra Merkel e Sarkozy”. Nemmeno il vecchio Napolitano, indispettito dalla foga contundente con la quale Forza Italia gli ha affibbiato il ruolo catartico di acerrimo nemico. “Complotto?”, sorridono al Quirinale: “Secondo la mentalità italiana, la via più corta tra due punti e un nodo sabaudo”. Dunque contorsioni, rovelli, arabeschi. Così, mentre Daniela Santanchè sale sul pennone più alto, e coltello tra i denti lo indica alla ciurma come “regista di un colpo di stato contro Berlusconi”, e mentre Grillo urla all’inciucio tra destra e sinistra “voluto dal presidente Morfeo”, lui, Napolitano, confessa agli amici di vivere una condizione pirandelliana: “Alcuni dicono che sono il tenebroso, il tessitore instancabile ma sempre nell’ombra. Altri sostengono che sono quello che vuole fabbricare l’inciucio, raddrizzare le gambe ai cani”. Uno, nessuno e centomila. Dice Fabrizio Cicchitto: “La storia del complotto è vera, ma anche no. Qui tutti hanno una mezza verità. Persino Berlusconi. Una volta, parlandomi di Erasmo da Rotterdam, della teoria sulla bugia nera e sulla bugia bianca, mi ha spiegato che la bugia piccola è giustificata quando serve a spianare la strada alle grandi verità”. E davvero l’Italia politica adesso sembra un’allegoria di Pirandello.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.