Il bello, il buono e Farage
C’è un motivo per cui Nigel Farage sta avendo tanto successo in vista del voto alle europee del 22 maggio (coincidono con il voto alle amministrative, ma i risultati saranno dati dopo che tutti i paesi dell’Ue avranno votato il 25 maggio), e non dipende soltanto dal fatto che il leader dell’Ukip, il partito indipendentista britannico, raccoglie il voto di protesta e quello – trasversale – degli euroscettici. Il motivo è che Farage è vero, mentre gli altri leader politici inglesi sono falsi.
C’è un motivo per cui Nigel Farage sta avendo tanto successo in vista del voto alle europee del 22 maggio (coincidono con il voto alle amministrative, ma i risultati saranno dati dopo che tutti i paesi dell’Ue avranno votato il 25 maggio), e non dipende soltanto dal fatto che il leader dell’Ukip, il partito indipendentista britannico, raccoglie il voto di protesta e quello – trasversale – degli euroscettici. Il motivo è che Farage è vero, mentre gli altri leader politici inglesi sono falsi. Professionalmente falsi. Strategicamente falsi. Secondo Peter Oborne, capo dei commentatori politici del Daily Telegraph e direttore associato dello Spectator, il sistema partitico inglese è al collasso perché i leader politici preferiscono dedicarsi alla tecnica piuttosto che al cuore della politica, e finiscono per essere mentitori di professione.
Ora, Oborne ha un’idea molto precisa e molto perfida degli spin doctor e dei professionisti del marketing politico: nel 2004 scrisse un libro contro Alastair Campbell, mitico capo della comunicazione dell’ex premier laburista Tony Blair, che ancora oggi è citato come il saggio più antipatico e sgraziato scritto sulla rivoluzione politica – e della politica – del New Labour (Campbell è il male assoluto, arrogante, supponente, dominatore, un bullo ambizioso e innamorato del potere al punto che, se fosse stato una donna, “sarebbe stato inevitabilmente accusato di aver fatto carriera grazie alla sua capacità di finire nei letti giusti”). Quel modo di vendere la politica, più che farla, è per Oborne il motivo della crisi identitaria dei partiti inglesi. Immaginatevi che cosa può aver pensato e scritto questo giornalista che definire controverso è sottostimarlo: sulla politica estera ha idee quantomeno discutibili, difende gli iraniani e i siriani dall’ingerenza occidentale, ha fatto alzare un ospite da una trasmissione continuando a chiamarlo “tu, idiota di Bruxelles”, ha scritto un articolo per dire che l’America è il più grande nemico di Londra – immaginate, dicevamo, che cosa può aver pensato Oborne quando qualche giorno fa s’è visto arrivare a Londra David Axelrod, il demiurgo baffuto dell’obamismo, arruolato da Ed Miliband per la campagna del Labour in vista delle elezioni del 7 maggio del 2015. Per dovere di cronaca va anche detto che i Tory hanno assunto come consigliere strategico Jim Messina, un altro del dream team obamiano, l’artefice della rielezione del presidente americano nel 2012, e il fatto regala un meraviglioso senso di promiscuità al via vai transatlantico di spin doctor. Il tecnico della politica arriva, dà i suoi consigli e se ne va (Axelrod sta scrivendo un libro, dicono i maligni che coccola Miliband soltanto nei ritagli di tempo), poi magari ritorna, ma ripartirà, non subirà le conseguenze delle sue strategie. Per Oborne questo è il classico motivo per cui un inglese vota Farage piuttosto che il partito laburista o quello conservatore: con l’Ukip sai cosa compri, altrove c’è solo immagine. Axelrod simboleggia a tal punto la deriva della politica britannica che Oborne arriva addirittura a preferirgli l’odiato Peter Mandelson, uno degli architetti del New Labour meglio noto come “il principe delle tenebre”: Mandelson resta lo spacciatore più pericoloso di falsità, “ma almeno è inglese, vive qui”, quel che fa poi gli rimane appiccicato addosso.
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In questo mondo “post democratico”, come lo definisce Oborne, non può che svettare Nigel Farage (il quale ai suoi spin doctor riserva tutt’altro trattamento: non si fa che parlare della sua storia con la trentenne Annabelle Fuller, affaire che lui nega anche per non offuscare l’altra splendida storia della sua vita, quella con sua moglie, la teutonica Kristen, che gli fa anche da segretaria e gli scrive tutte le e-mail perché lui odia i computer e battere sulla tastiera). Farage non ha bisogno degli Axelrod, s’è arrampicato da solo fino alla leadership dell’Ukip – “Dickens lo avrebbe adorato”, scrive Oborne – e ora ancora più su, verso la vittoria alle europee. Senza marketing, ma pure senza il sostegno della stampa, con quel suo fare ironico, fatto di sorrisi e di continue alzate di spalle, e di ricordi del passato un po’ corretti dal tempo e dal ruolo: non c’è giornale inglese che abbia scritto qualcosa di vagamente positivo su Nigel Farage, il New York Times gli ha appena dedicato un ritratto paragonandolo ai Tea Party americani ed è forse l’articolo più neutrale che sia stato pubblicato di recente. In compenso sappiamo tutto della passione di Farage per le birre, i sigari e le donne, dei guai con i soldi del partito, delle foto nude di una delle sue “poster girl” così impresentabili che il Sun (il Sun!) non voleva nemmeno pubblicarle, per non parlare della polemica ancora più surreale sulla già citata moglie Kristen: Farage assume un’immigrata invece che una britannica!
Eppure il leader dell’Ukip conquista consensi e ha gioco facile contro i devoti dello spin e della cautela strategica, come s’è visto durante il dibattito elettorale con Nick Clegg, leader dei Lib-Dem e vicepremier, nonché quintessenza della costruzione d’immagine senza nulla dietro (chiedete ai suoi elettori, scoprirete che delusione c’è). Ci sono motivazioni politiche profonde, come hanno spiegato Robert Ford e Matthew J. Goodwin in “Revolt on the Right”, che è considerato lo studio più approfondito dell’ascesa di Farage. Gli indipendentisti non sono soltanto dei conservatori in esilio, come vengono spesso definiti (Farage lasciò i Tory nel 1992, quando John Major firmò il Trattato di Maastricht), ma sono dei “left behind”, persone che sono state dimenticate dai partiti politici tradizionali.
Molti hanno anche votato il Labour in passato, e lo ammettono, e adesso si ritrovano in una battaglia identitaria radicale: fuori dall’Europa ora e subito; bulgari, polacchi e rumeni non soltanto da ricacciare indietro quando arrivano, ma da ricacciare indietro anche se già vivono e lavorano nel Regno Unito. Ford e Goodwin sostengono che né i Tory né il Labour possono contenere l’Ukip limando le loro politiche d’immigrazione o per l’Europa, ma solo diventando radicali, cosa che ovviamente è difficile da fare perché rischia di far fuggire il voto centrista che, come si sa, decide chi vince le elezioni. Ma mentre i partiti tradizionali si dedicano al make-up, Farage pone la questione in termini culturali: “Questo paese è diventato irriconoscibile – ha detto durante la conferenza primaverile dell’Ukip a fine febbraio – E’ ora di fare una battaglia in nome del patriottismo”. Questa nostalgia – soprattutto dopo la crisi economica da cui il Regno Unito sta uscendo con trionfo, ma le cui ferite sono ancora ben visibili – attira più delle raffinate elucubrazioni di spin doctor d’oltreoceano, anche se ancora non è chiaro come l’Ukip voglia o sappia relazionarsi con modernità e globalizzazione.
Questo è un momento molto delicato per il paese e gli interrogativi che pone Farage – sulla nostalgia, sull’identità – sono molto sentiti dagli inglesi. C’è il referendum sull’indipendenza della Scozia a settembre, e se gli unionisti dovessero perdere la lora battaglia – che non sta andando bene, ci sono pochi soldi e poco interesse: gli indipendentisti scozzesi sono ben più determinati, si preparano per questo momento da anni – l’identità britannica perderà un pezzo importante di sé, al punto che il paese non potrà nemmeno più chiamarsi “Regno Unito” (e immaginate la nostalgia se si perde pure il proprio nome!). C’è il referendum sull’Europa, da tenersi entro il 2017, altrettanto drammatico perché coinvolge non soltanto il banale euroscetticismo inglese, ormai proverbiale, ma soprattutto il ruolo dell’Inghilterra nel mondo, un’altra faccenda che ha molto a che fare con l’identità e con la nostalgia. E in questa fase così delicata i partiti tradizionali, con il mondo mediatico che li circonda e che continua a definire “Other” forze politiche dell’entità dell’Ukip infilandole in un calderone che è tutt’altro che ininfluente, s’affidano alla tecnica più che al cuore. Conservatori di vecchio stampo e che hanno costruito una carriera sulle menzogne dei politici come Peter Oborne non possono che inorridire, ma non sono gli unici. James Landale, commentatore politico della Bbc, ha scritto due giorni fa un articolo molto divertente per rispondere alla domanda che gli fanno sempre i tassisti appena sentono che fa il giornalista: chi vince le elezioni? La sua risposta è: volete la verità? Non ne ho la più pallida idea. I sondaggi ormai quotidiani segnalano i Tory in grande ripresa rispetto a un Labour che ha ormai perso il vantaggio accumulato negli ultimi due anni, i Lib-Dem sono ormai un partito finito e poi c’è l’Ukip. Che arriva anche al 20 per cento a livello nazionale, che potrebbe vincere le elezioni come non è mai accaduto nel Dopoguerra, che è sempre accusato di razzismo e pure di filonazismo ma riesce a non perdersi nelle trame opache della bella politica. Nigel Farage non saprebbe che farsene di un Axelrod, come Maggie Thatcher con la borsetta, anche lui non rinuncerebbe mai alla sua birra e a quella risata volgare e contagiosa. E piace proprio per questo.
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