Il buono e il cattivo
Amauri-Cerci: ovvero il riscatto e l'harakiri
Nella Juventus attuale anche lui avrebbe (forse) fatto una degna di figura. Il problema di Amauri è stato aver incrociato il bianconero negli anni confusi del dopo Calciopoli, quelli in cui il club spendeva, ma a sproposito. Per averlo nel 2008 erano stati investiti 30 milioni, una follia allora e maggiormente ai nostri giorni, parametrati a ciò che si può concedere il calcio italiano. Ma erano gli ultimi lampi di un'altra epoca, la Juventus non poteva ancora permettersi di trattare da una posizione di forza con le controparti.
Nella Juventus attuale anche lui avrebbe (forse) fatto una degna di figura. Il problema di Amauri è stato aver incrociato il bianconero negli anni confusi del dopo Calciopoli, quelli in cui il club spendeva, ma a sproposito. Per averlo nel 2008 erano stati investiti 30 milioni, una follia allora e maggiormente ai nostri giorni, parametrati a ciò che si può concedere il calcio italiano. Ma erano gli ultimi lampi di un'altra epoca, la Juventus non poteva ancora permettersi di trattare da una posizione di forza con le controparti. E l'attaccante brasiliano sembrava quello giusto per dare peso e profondità alla prima linea, come gli era successo a Palermo, salvo poi rivelarsi inadatto a prendersi sulle spalle la responsabilità di guidare una squadra ancora alla ricerca di se stessa. Soprattutto non poteva farlo, in presenza di gestioni tecniche come quella declinante (e polemica) di Claudio Ranieri e quella acerba (e debole) di Ciro Ferrara. Così anche lui si era perso nell'involuzione collettiva, sedotto e abbandonato in bianconero come presto lo sarebbe stato in azzurro: mesi trascorsi a inseguire le carte per diventare italiano e un bilancio fatto di una sola presenza. Quella della prima partita del nuovo corso prandelliano, coincisa con un'amichevole tutt'altro che brillante contro la Costa d'Avorio. Passare da speranza a capro espiatorio è strada agevole e senza deviazioni, in Italia. Così è stato per Amauri, caduto nel girone dei dimenticati nell'inferno calcistico. Fino a quando sulla sua strada non si è materializzato Roberto Donadoni, allenatore tanto schivo quanto preparato, con la sola colpa di non saper vendersi, come invece sa fare benissimo la gran parte dei colleghi. Uno che sa valorizzare quanto gli viene messo tra le mani, basta solo dargli il tempo di poter lavorare. Quello che non gli era stato concesso da presidenti insofferenti, quali Preziosi a Genova e De Laurentiis a Napoli. Oppure quale Giancarlo Abete, numero uno della Federcalcio desideroso di richiamare Marcello Lippi sulla panchina azzurra, con i risultati ben noti di quattro anni fa in Sud Africa. Nella prima stagione con il Parma, Donadoni ha dato ad Amauri quella fiducia che non aveva più avuto. E in quella attuale non lo ha mai dimenticato, pur avendo provato con successo differenti alternative tattiche in attacco. Un rapporto che il centravanti ha apprezzato e ripagato, facendosi trovare sempre pronto nelle occasioni richieste. Come ieri sera, giorno in cui il Parma si giocava un ritorno in Europa dopo otto anni, in una serata in cui battere il retrocesso Livorno si stava rivelando più complicato del previsto. Donadoni lo ha chiamato dalla panchina nel secondo tempo, lui è entrato in campo per confezionare in pochi minuti i due gol che hanno significato sorpasso sul Torino in classifica e innescato la festa a Parma. Per uscire dal girone dei dimenticati e per entrare nella storia, piccola ma sempre storia.
[**Video_box_2**]
Tutto questo non sarebbe però stato possibile se, a pochi chilometri di distanza, il Torino non avesse compiuto - secondo abitudine - il suicidio perfetto. Se il Parma mancava nelle coppe da otto anni, i granata non le assaporavano da quasi due decenni (non considerando la folkloristica Intertoto). E credevano in un ritorno, forti di una posizione di classifica privilegiata e di una partita apparentemente difficile, come quella in casa della Fiorentina. Apparentemente perché, analizzandola, si pensava a un'avversaria demotivata dall'Europa League già raggiunta e amica per uno storico gemellaggio. Una vigilia di positività aumentata dai buoni rapporti tra Urbano Cairo e Diego Della Valle, sia come colleghi nel calcio sia come imprenditori alleati sullo stesso fronte in Rcs. Per questo le certezze hanno sempre avuto ragione dei dubbi, malgrado lo sviluppo di una partita sempre a inseguire, per di più privi per squalifica di Ciro Immobile, numero uno tra i marcatori. Così alle reti viola seguivano regolarmente quelle granata e il rigore nei minuti di recupero appariva la conclusione non scritta, ma sicuramente prefigurata, di una classica partita di fine anno in Italia, come centinaia già viste. Una storia su cui Alessio Cerci avrebbe messo la sua personalissima firma, a conclusione di una stagione eccellente, premiata dalla convocazione in azzurro per il Mondiale. Ma i rigori sono una brutta bestia, la testa conta più del piede. E l'abitualmente preciso Cerci ha calciato il suo come neppure quelli del Benfica contro il Siviglia nella finale di Europa League. Una Europa League consegnata docilmente al Parma, tenendo per sé unicamente le lacrime. Come troppe volte accaduto nella storia granata.
Il Foglio sportivo - in corpore sano