La via della spada
Ogni anno durante la golden week, la festa di primavera degli inizi di maggio in Giappone, si celebra un evento al quale ogni praticante di kendo, l’arte della spada giapponese, sogna di assistere. Perché il Kyoto Taikai è molto più che un’esibizione di centinaia di maestri d’arti marziali. Anzitutto il contesto. Il Kyoto Taikai si svolge dentro un tempio, il Butokuden di Kyoto, dove risiedeva una delle due più antiche scuole di arti marziali, la Budo Senmon Gakko. Qui i bambini giapponesi venivano introdotti all’arte del kendo, del judo, della naginata e del kyudo.
Ogni anno durante la golden week, la festa di primavera degli inizi di maggio in Giappone, si celebra un evento al quale ogni praticante di kendo, l’arte della spada giapponese, sogna di assistere. Perché il Kyoto Taikai è molto più che un’esibizione di centinaia di maestri d’arti marziali. Anzitutto il contesto. Il Kyoto Taikai si svolge dentro un tempio, il Butokuden di Kyoto, dove risiedeva una delle due più antiche scuole di arti marziali, la Budo Senmon Gakko. Qui i bambini giapponesi venivano introdotti all’arte del kendo, del judo, della naginata e del kyudo. La costruzione del Butokuden, su richiesta dell’imperatore Kammu, iniziò nel 1895, nell’anniversario del trasferimento della capitale giapponese da Tokyo a Kyoto e sul finire della guerra sino-giapponese. Dopo la Seconda guerra mondiale le truppe alleate confiscarono la scuola, ne fecero una sala da ballo e vietarono la sua riapertura come scuola di arti marziali. Nel 1951 la città di Kyoto riprese possesso dell’edificio, che negli anni Ottanta tornò a essere un luogo di pratica di arti marziali. E’ lì, dove sono stati ospitati per la prima volta, che tra un anno esatto si svolgeranno i sedicesimi campionati del mondo di kendo. La scorsa settimana al Butokuden si è tenuto il 110° Kyoto Taikai e uno dei momenti più emozionanti è stato l’arrivo nell’area di gara del maestro Ota di Osaka, che quest’anno ha compiuto cento anni. Ha combattuto come tutti gli altri, con l’armatura addosso, per due minuti, contro un avversario del suo stesso grado. L’incontro è finito in parità. Nell’anno di nascita del maestro Ota la Budo Senmon Gakko diplomava i primi otto giapponesi in arti marziali e anche lui ha studiato lì, prima della guerra. Oggi è settimo dan hanshi di kendo, vuol dire che nel corso della sua vita ha superato non solo i sette esami per stabilire i gradi di abilità nella disciplina della spada, ma gli è stato riconosciuto anche il titolo di hanshi, quello più alto, che corrisponde a una completa coincidenza tra conoscenza e virtù dello spirito. Ancora oggi ogni mattina il maestro Ota esegue duecento suburi (esercizi ripetuti) con la sua katana.
Il kendo, l’arte della spada, è un atto d’amore, un lungo difficile percorso fatto di sacrificio e dedizione, talmente lungo che possono volerci cento anni per capirlo. Un maestro coreano ripeteva spesso ai suoi allievi che non capivano il senso delle sue spiegazioni: “Per i primi vent’anni è molto difficile capire”.
Senza kokoro, il cuore, è difficile anche solo iniziare, specialmente per un occidentale. Eppure in Italia il kendo si pratica da molti anni ormai, grazie alla Confederazione italiana kendo (conta circa 2.500 iscritti) e a decine di dojo – così si chiamano i luoghi di pratica – nati con lo scopo d’insegnare l’aspetto sportivo della scherma giapponese insieme con l’unica vera missione della disciplina, cioè “la ricerca della perfezione come essere umano attraverso l’esercizio dei princìpi della katana”. La difficoltà è nel cercare di unire i due aspetti, quello sportivo e agonistico a quello più filosofico e tradizionale. Che si usi la shinai, la spada costituita da quattro listelli di bambù uniti dal manico di pelle che serve per il combattimento sportivo a punti, o il bokken, usato solo per le dieci forme essenziali del kendo, i kata, i princìpi della katana sono gli stessi. Senza kokoro, il cuore, non si vince e in Italia lo hanno dimostrato i ragazzi che fanno parte della nazionale di kendo. Grazie a loro quest’anno, a Clermont-Ferrand, in Francia, l’Italia ha vinto per la prima volta nella storia i Campionati europei a squadre, sia femminili sia maschili. La squadra degli uomini ha disputato la finale contro la Francia, campione in carica, e le donne invece sono arrivate a battere l’Olanda per un solo, determinante punto. Nel kendo la gara a squadre, la più prestigiosa di qualsiasi torneo, funziona così: i cinque atleti si schierano in un ordine deciso precedentemente dal capitano e sconosciuto agli avversari. Uno per volta, si entra in area di gara e si combatte per quattro minuti con l’avversario corrispondente al proprio numero. I punti sono gli stessi del combattimento singolo, si arriva fino a due punti, e i colpi validi sono alla testa (men) al braccio (kote) all’addome (do) alla gola (tsuki). A differenza della scherma occidentale, che ha introdotto l’elettronica per la rilevazione dei punti, nel kendo sono ancora i tre arbitri a decidere se una stoccata è buona o meno. Perché non vale solo “toccare”: il punto (ippon) è valido se il colpo avrebbe potuto effettivamente tagliare, e si può tagliare solo se il gesto è accompagnato da Ki Ken Tai ichi: cioè la simultaneità di volontà, il colpo della spada e lo spostamento del corpo. E’ sempre filosofia, il kendo, anche quando sembra solo l’espressione del gesto atletico. E a conferma del fatto che senza il kokoro, il cuore, nel kendo non si arriva da nessuna parte c’è un curioso particolare. Spesso a far parte del gruppo di atleti più forti in Italia sono fratelli di sangue, i fratelli Mandia, i fratelli Giannetto, le sorelle Ricciuti. E vengono tutti dalla Sicilia. Come se la terra legasse indissolubilmente la tecnica al cuore, e il legame di sangue cementasse la squadra. I ragazzi che sono saliti sul podio europeo più alto quest’anno sono cresciuti insieme, e non prendono soldi per quello che fanno. E’ un dono gratuito, quello di rappresentare l’Italia all’estero, e forse per questo – banalmente – più nobile e arricchente.
Per un occidentale comprendere il significato di uno sport che diventa arte, e viceversa, può risultare complicato. Difficile è immaginare che il teatro No, per esempio, o la pratica del tè, o l’ikebana, possano essere più vicine al kendo di quanto non lo sia la scherma occidentale. Spiega Miyamoto Musashi nel “Libro dei Cinque anelli” che “ci sono molte Vie, quella di Budda che conduce alla salvezza, quella di Confucio, quella dei medici per la guarigione dei malati, la Via della woka per i poeti, la Via delle cerimonie rituali, la Via del tiro con l’arco e altre ancora. Ciascuno segue la propria Via secondo il suo talento. Pochi, però, si dedicano all’Hejo”, che letteralmente sarebbe la via della strategia, ma per Musashi è l’arte dei samurai. La parola “Via” è fondamentale per capire il percorso che si intraprende per trasformare una tecnica in una pratica d’illuminazione e di perfezionamento sociale. E’ tradotta dal giapponese do, suffisso che si trova in quasi tutte le discipline. Il bushi-do è quindi la Via del guerriero, il ju-do è la Via della cedevolezza, il katate-do è la Via della mano vuota, l’aiki-do è la Via dell’armonia dello spirito, lo iai-do è la Via dell’estrazione della spada. Yukio Mishima, uno degli autori giapponesi più celebri in occidente, nel suo commento a “Hagakure”, il trattato di etica samurai scritto nel 700 da Yamamoto Tsunetomo, parla di Bun-bu-ryo-do, che letteralmente significa la Via della scrittura e della spada insieme. La saggezza e la conoscenza, rappresentata dal kanji (ideogramma) Bun, unite alla determinazione del guerriero, rappresentata dal kanji Bu, percorrono insieme un’unica Via. Mishima iniziò la pratica del kendo nel 1958, a trentatré anni, e nel 1970, l’anno del suo seppuku, il suicidio rituale, partecipò ai primi Campionati del mondo di kendo al Nippon Budokan di Tokyo. Era quinto dan.
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Scrive Aldo Tollini nella “Cultura del Tè in Giappone”, appena uscito per Einaudi: “Man mano le Vie si andarono moltiplicando diventando uno degli aspetti più caratteristici della cultura giapponese, soprattutto del periodo medievale. La Via, in qualsiasi forma e ambiente si manifestasse, prendeva sempre spunto dalla Via buddhista della coltivazione di se stessi, che era considerata la Via per eccellenza. Perseguire una pratica di autocoltivazione significava per prima cosa rafforzare e raffinare la propria sensibilità verso la dimensione non materiale, e in secondo luogo esplorare il proprio mondo interiore; in altre parole conoscere se stessi attraverso pratiche statiche o performative”. E qui si torna al cuore, alla Via come atto d’amore: “Raffinare continuamente le azioni da parte di chi esegue la pratica del Tè comporta, per analogia, un raffinare lo spirito attraverso l’estetizzazione degli atti concreti. Una frase condensa in poche parole questo processo: Kokoro wa katachi wo motome, katachi wa kokoro wo susumeru (Il cuore ricerca la forma esteriore corretta, e la forma esteriore corretta corregge il cuore), e crea un collegamento diretto tra esteriorità e interiorità, in un reciproco autoinfluenzamento. Ciò che siamo dentro di noi si manifesta all’esterno, e quello che esteriormente facciamo, o meglio, il modo in cui lo facciamo, si riflette dentro di noi e ci cambia”. All’inizio della pratica del kendo – ma spesso anche successivamente, se la lezione non viene assimilata – capita di sentirsi ripetere dai maestri quanto sia importante che i vestiti e l’armatura del praticante appaiano perfettamente in ordine. L’hakama, per esempio, l’indumento tradizionale giapponese che somiglia a una gonna pantalone e con cui si praticano molte arti marziali, deve essere pulita e stirata. Imparare a ripiegarla correttamente dopo averla indossata fa parte della disciplina. Le quattro cinghie che la legano alla vita devono essere correttamente lisciate e aderire al corpo. Le sette pieghe dell’hakama (cinque anteriori, due posteriori) devono cadere perfettamente fino ai piedi, perché esse rappresentano le sette virtù del codice del Budo: rettitudine, coraggio, benevolenza, rispetto, onestà, onore, lealtà. Il cuore ricerca la forma esteriore corretta, appunto.
Il manuale di kendo di Junzo Sasamori e Gordon Warner è del 1964, è il primo scritto in una lingua non giapponese e approvato dalla Dieta “per una reale e sincera comprensione dell’arte del kendo, un aspetto della nostra cultura giapponese”. Nel ripercorrere l’evoluzione storica dell’arte della spada, gli autori spiegano una differenza fondamentale – nata in epoca medievale – che esiste ancora oggi tra la filosofia di combattimento dei samurai e quella del cavaliere europeo. Questa: in Giappone “la spada era considerata l’arma principale e nell’addestramento si faceva prevalentemente uso di essa. Le varie tecniche su come portare colpi, fendenti o attacchi particolari, erano insegnate nelle scuole di spada o dojo. Di regola ogni castello aveva il suo dojo, o ve n’era uno nelle vicinanze, dove un maestro di spada impartiva questi insegnamenti. La spada lunga o katana era l’arma principale; essa poteva essere impugnata con una mano sola o con tutte e due le mani. La differenza nell’uso della spada tra il samurai e il cavaliere europeo era nella posizione del corpo e nella distanza dall’avversario durante il combattimento. Talvolta le spade europee erano lunghe più di due metri e, con una simile arma in mano, il cavaliere poteva proteggere se stesso e allo stesso tempo assalire il nemico, senza mettere troppo in pericolo la propria persona. Il samurai, invece, affrontava il nemico a distanza ravvicinata, con la katana impugnata con ambedue le mani – la destra sopra la sinistra – opponendoglisi frontalmente, con il piede destro tenuto più avanti del sinistro. La punta della spada era diretta, generalmente, contro la gola dell’avversario”. La posizione che insegnavano i maestri di spada è ancora oggi la prima cosa che si impara nelle scuole di kendo. La distanza ravvicinata, e lo sguardo rivolto dritto negli occhi dell’avversario, rappresentano la filosofia del combattimento giapponese che viene tramandata nel duello sportivo. Sempre nel manuale di Sasamori e Warner, tra le difficoltà dell’allenamento moderno viene annoverato il metsuke, ovvero il modo di osservare: “Guardare l’avversario negli occhi è molto importante. Infatti, si dice comunemente che gli occhi sono lo specchio dell’anima: ciò che l’avversario pensa è riflesso nei suoi occhi. Tuttavia, per cogliere tutti i movimenti dell’avversario bisogna guardare contemporaneamente gli occhi, la punta della spada e le mani. Il kendoka può fare ciò se si dispone mentalmente a guardare l’avversario come se guardasse una montagna lontana. Questo modo di guardare è detto enzan no metsuke”. Del metsuke parla anche Miyamoto Musashi nel “Libro dei Cinque anelli”: “In combattimento tenete sempre gli occhi bene aperti. Ma non basta soltanto saper guardare, bisogna saper percepire e intuire. Percepire è più importante di vedere”. E’ facile spiegare perché alcuni dei testi fondamentali per lo studio del kendo furono adottati, nel corso degli anni Novanta, dalle scuole di business per i giovani samurai della Borsa. Ma in quel mondo manca, appunto, l’amore. Scrive ancora Musashi: “E’ regola che il portamento da tenersi in un incontro deve essere usato anche nella vita normale, di conseguenza il portamento che si tiene durante uno scontro è quello abituale di tutti i giorni. Non contravvenite mai a questa norma”. L’etichetta nel kendo prevede una cerimonia all’inizio di ogni incontro: i due opponenti si salutano sia all’ingresso nell’area di gara sia alla fine. Come scrive Mario Vattani, diplomatico italiano e profondo conoscitore della tradizione giapponese, nonché praticante di kendo: “L’avversario è il tuo maestro. […] La punta della tua arma segue una linea ideale che passa tra la gola e lo sterno dell’avversario. Lo stesso fa la sua. Lui è il riflesso delle tue scelte. I suoi occhi cercano il momento per attaccare, senza mai allontanarsi dai tuoi.
Proverà a spingerti, a costringerti, e quando reagirai ti colpirà dove sei più debole. Si concentrerà su di te, studierà i tuoi movimenti, registrerà i tuoi difetti. Nello stesso modo tu dovrai studiare lui, scoprire quali siano le sue paure, quali parti del corpo stia coprendo più delle altre. Dovrai leggere lui come leggeresti un libro su te stesso. Dovrai conoscere il suo ritmo senza seguirlo, osservare i suoi passi senza vederli”. E’ anche per questo che nel kendo non esiste una differenza di abbigliamento a seconda dei gradi acquisiti, così come avviene nel karate per esempio, e non esistono categorie di peso. Alcuni tornei sono aperti a tutti, dedicati ai praticanti a prescindere da sesso, età e grado. E il kendo, proprio come il cuore (kokoro), parla una lingua universale. Che ci si trovi a praticare ad Hanoi, a Los Angeles, a Roma oppure a Osaka, all’ingresso del dojo ognuno sa cosa deve fare. Perché nel kendo non c’è niente che sia lasciato al caso. Quando ci si mette in seiza (la posizione seduti in ginocchio) davanti allo shomen (la bandiera) e al maestro, lo si fa in ordine di rango. Il praticante più basso in grado si posizionerà sempre vicino alla porta. Una regola che viene dal Giappone feudale, quando le incursioni dei nemici erano frequenti ed era compito dei praticanti più giovani (kohai) proteggere quelli più anziani (senpai) e il proprio maestro. Sacrificando anche la vita per chi aveva insegnato loro a percorrere la Via della spada, il kendo, come atto d’amore estremo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano