Putsch contro le milizie

In Libia il generale Haftar sfida gli islamisti (su mandato del Cairo?)

Daniele Raineri

Ieri in Libia è stato il quarto giorno dell’operazione Karamah (in arabo dignità), lanciata dal generale freelance Khalifa Haftar per sconfiggere le milizie islamiste, imporre al governo di Tripoli un programma tutto legge e ordine e anche nominarsi uomo forte del paese. Riccardo Fabriani è un analista del gruppo londinese Eurasia specializzato nella valutazione del rischio politico nei paesi del nord Africa e in queste ore è a Tripoli per valutare la situazione in Libia. Al telefono con il Foglio dice che nella capitale la situazione si è calmata, “ieri (domenica) non usciva nessuno e sentivo le esplosioni e gli spari, oggi le attività stanno ripredendo normalmente”.

    Ieri in Libia è stato il quarto giorno dell’operazione Karamah (in arabo dignità), lanciata dal generale freelance Khalifa Haftar per sconfiggere le milizie islamiste, imporre al governo di Tripoli un programma tutto legge e ordine e anche nominarsi uomo forte del paese. Riccardo Fabriani è un analista del gruppo londinese Eurasia specializzato nella valutazione del rischio politico nei paesi del nord Africa e in queste ore è a Tripoli per valutare la situazione in Libia. Al telefono con il Foglio dice che nella capitale la situazione si è calmata, “ieri (domenica) non usciva nessuno e sentivo le esplosioni e gli spari, oggi le attività stanno ripredendo normalmente”. Una bomba è esplosa davanti all’ambasciata francese però e il Pentagono ha raddoppiato le forze d’intervento rapido pronte in Sicilia in caso d’evacuazione d’emergenza dell’ambasciata americana a Tripoli (otto aerei a decollo verticale Osprey, circa trecento marine). Inoltre a Bengasi si spara ancora.

    In questi scontri libici c’è un salto di qualità: “Quando Haftar annunciò di voler intervenire nella politica del paese con quel video in uniforme diffuso il 14 febbraio dalla Tunisia, fu ridicolizzato e preso poco sul serio – dice Fabriani – Invece ha poi dimostrato di poter mobilitare un grande numero di uomini e pure ben armati, abbastanza da sfidare le milizie islamiste. Le milizie hanno poi obiettivi a breve termine, Haftar no, ha un piano per esautorare il governo e imporre al paese un’autorità centrale – per questo ieri ha fatto dichiarare l’interruzione delle attività del Congresso nazionale”. Perché Haftar dopo soltanto tre mesi non è più considerato un pagliaccio? Dove ha trovato la forze? “E’ riuscito a stringere un’importante rete di alleanze, anche con le tribù nell’est. Inoltre fa leva sullo scontento generale. A Tripoli c’è nostalgia per l’ordine che c’era sotto il regime di Gheddafi. Non è una questione di disordine politico, è una questione spicciola, quotidiana, sono stanchi della microcriminalità. C’è rigetto contro il governo. E nell’altro polo del paese, la città di Bengasi, gli abitanti sono stanchi delle milizie islamiste. Non perché abbiano subìto un’applicazione dura della sharia, non è successo, ma per la violenza continua: ogni giorno c’è un omicidio per motivi politici, molti sono ufficiali dell’esercito e del governo tra quelli che stanno cadendo sotto i colpi dei sicari. Il vice dell’intelligence militare nell’est del paese è appena stato ritrovato morto”.
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    Il dipartimento di stato americano non ha confermato né negato di essere in contatto con Haftar, che ha vissuto per vent’anni in esilio in Virginia e che in passato ha raccontato di essere stato un asset della Cia contro Muammar Gheddafi. “C’è molta fluidità sul terreno”, è il commento di Washington, che per ora non vuole definire “colpo di stato” quello che sta succedendo in Libia. L’esercito libico – che riceve addestramento anche in Italia, nell’ambito di un programma di stabilizzazione – sta però passando in parte con il generale. Una base aerea nell’est del paese, a Tobruk, ieri ha dichiarato la propria lealtà a Haftar, e così anche le forze speciali. Il generale comincia a controllare i settori più specializzati e meglio addestrati delle Forze armate, che sono i più nostalgici del passato regime. Fabriani, che sta facendo interviste a Tripoli, dice che “Haftar non è un felool, un avanzo di regime – per prendere in prestito una parola della rivoluzione egiziana, che indica come felool gli uomini dell’apparato di Mubarak – ma gioca anche su quell’aspetto lì”.

    Haftar a febbraio sostenne di avere l’appoggio del generale egiziano Abdul Fattah al Sisi, che si offrì di collaborare militarmente. Ora che Sisi sta per diventare presidente al Cairo, con elezioni dall’esito scontato, la guerra di Haftar sembra parte di un ritorno generale alla subalternità al potere militare.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)