Lacrime e sangue granata

Piero Vietti

Vent’anni in undici metri

Vent’anni in undici metri. Quando domenica sera Alessio Cerci si è presentato sul dischetto del rigore, a Firenze, il Torino e la Fiorentina erano ferme sul 2-2. Il cronometro segnava 93 minuti dal fischio d’inizio e sul sinistro del numero 11 granata pesavano due decenni di retrocessioni, fallimenti, dolori e umiliazioni. Con il 3-2 finale i granata sarebbero andati in Europa League, a vent’anni dall’ultima volta in una competizione europea. Fino a quel momento i Viola se l’erano giocata, alla faccia di chi sospettava biscotti: andati due volte in vantaggio, erano stati raggiunti dal Toro, soprattutto grazie alla partita generosa di Cerci, ex non rimpianto e rinato a Torino due stagioni fa.

 

Quando, al penultimo minuto di recupero dell’ultima partita di un campionato che nessuno a settembre avrebbe potuto prevedere così bello, Alessio Cerci si è presentato sul dischetto del rigore, non può non avere lanciato uno sguardo al settore ospiti, laggiù dietro la porta, alla sua sinistra. Erano in seimila, ma forse molti di più, i granata arrivati a Firenze. Mescolati tra i tifosi amici della Fiorentina c’erano bambini, ragazzi, genitori e nonni con al collo la sciarpa granata, in tinta con il cuore. Un popolo che vent’anni di oscenità societarie e pallonare avrebbero dovuto cancellare, annichilire, rendere cinico. Invece erano tutti lì. A guardare in silenzio Alessio Cerci che al 93’ di Fiorentina-Torino metteva il pallone sul dischetto e prendeva la rincorsa. Non può non averli guardati, non può non averci pensato. E’ il più forte, si sussurravano tra loro i tifosi. Non può sbagliarlo. Appena sette giorni prima, quando sarebbe bastato battere il Parma per qualificarsi in Europa League, Cerci aveva detto che a Firenze bisognava vincere per i tifosi, per i bambini che finalmente erano tornati a essere orgogliosi di tifare Toro e per i giocatori che avevano fatto una stagione straordinaria.

 

Non sa raccontare bugie, Alessio. Non pratica la lingua ambigua della retorica, non dice frasi per piacere ai tifosi. Se dice certe cose è perché ci crede. Non ha mai giurato amore eterno alla maglia granata, anche se è quella che lo ha salvato dall’oblio calcistico in cui era piombato. E’ forte ma non si applica, il giudizio cucitogli addosso frettolosamente dopo le ultime stagioni prima di Torino. E’ forte ma discontinuo, ridacchiavano i suoi denigratori. A Cerci mancava un padre, semplicemente. Un padre calcistico, si intende. E lo ha trovato in Giampiero Ventura. O meglio, lo ha ritrovato. Ventura era l’allenatore con cui Alessio aveva cominciato a far parlare di sé dopo le belle promesse non mantenute nella Primavera della Roma. Dieci gol nel Pisa che nel 2008 sfiorò i Playoff della serie B, prima di una lunga serie di infortuni. Poi Cerci e Ventura si erano persi di vista, fino a quando l’allenatore del Torino lo ha voluto con sé nella prima stagione di A. Sarà un fallimento, pensarono in molti. Alessio invece si prese il Torino sulle spalle, fece dimenticare l’allora capitano Rolando Bianchi e convinse Prandelli a farlo esordire in Nazionale contro il Brasile. Dopo mezza stagione le critiche diventarono elogi: uno dei migliori esterni d’Europa, diceva qualcuno. Dall’estero gli osservatori delle grandi squadre venivano a vederlo. Ventura lo utilizzava a destra, da dove poteva rientrare e calciare con il sinistro. Otto reti a fine campionato, nel 2013, erano un bel raccolto per un’ala. Ventura però non si accontenta, e nella nuova stagione lo reinventa punta. Cerci non può giocare attaccante, ricominciano i soliti denigratori.

 

Alessio invece stupisce di nuovo, giocando da punta atipica: al 93’ minuto di Fiorentina-Torino ha già segnato 13 gol e fatto 10 assist vincenti. Non è una punta vera, Alessio: “Il Torino gioca con il modulo 3-5-1-Cerci”, scherza lui intervistato da Sky Sport. L’1 è Ciro Immobile, con cui si trova a memoria, tanto da solleticare la nostalgia per Pulici e Graziani nei supporter granata, la coppia gol degli anni Settanta. Cerci e Immobile non sono Pulici e Graziani, però. La loro forza è riuscire a far dimenticare il passato e far vivere finalmente un presente di vittorie ai tifosi del Torino. Roba non da poco. Con quei due a Torino sono ricomparse le maglie granata sulle spalle dei bambini. Cerci e Immobile, Immobile e Cerci: le vie attorno allo stadio prima di ogni partita casalinga del Torino quest’anno si riempivano di piccoli cloni della coppia gol più forte della serie A. Il rapporto con Ventura è decisivo per Alessio: timido e introverso, Cerci sa che nel suo allenatore può trovare una presenza fondamentale per non affondare come troppe volte è successo in passato. I due si stimano, si cercano con lo sguardo dopo ogni gol, si mandano anche a stendere quando serve. Se Alessio non è in palla nel primo tempo Ventura non si fa problemi e lo sostituisce nell’intervallo o a inizio ripresa. Quest’anno è successo qualche volta. Giornali e tv provavano subito a montare un caso, loro se ne fregavano e la domenica successiva Ventura schierava Cerci titolare e Cerci segnava. Poche chiacchiere.

 

Quando domenica sera Alessio Cerci ha preso la rincorsa per battere quel rigore forse ha pensato che quest’anno ne aveva sbagliato soltanto uno, di tiro dal dischetto. Quasi infallibile. La pausa tra la rincorsa, il fischio dell’arbitro e l’impatto del suo sinistro sul pallone è stata brevissima ed eterna. Appena qualche domenica prima, da quel suo piede era partita una traiettoria impossibile, che a qualcuno aveva ricordato certi gol di Maradona. Torino-Genoa. I rossoblù erano passati in vantaggio a pochi minuti dalla fine, ma al 91’ Ciro Immobile aveva pareggiato con un gol bellissimo. Già, Immobile. Un altro capolavoro di Ventura. Da scarto del Genoa a capocannoniere della serie A. All’1-1 di Immobile una gioia folle e consapevole era esplosa in campo e sugli spalti. Il tempo di rimettere la palla a centrocampo e Cerci se la prendeva di forza sulla trequarti, puntava l’area dei genoani e dopo averne saltati un paio lasciava partire un pallone imprendibile di esterno sinistro sul palo lontano. 2-1 per il Toro, Cerci seminudo sotto la curva Maratona e la gente granata che piangeva di gioia, perché erano anni che non succedevano cose del genere, alla prima squadra di Torino. Era il 93’ e il Toro aveva vinto una partita incredibile. Alessio Cerci, fino a quel giorno restìo a commenti entusiastici sull’ambiente, si era lasciato andare dicendo che non aveva mai provato una gioia del genere, sotto quella curva.

 

Già, il 93’. Lo stesso minuto in cui sette giorni dopo la Lazio aveva pareggiato, a Roma, il 3-2 del Torino. Beffa e amaro in gola. Come quando accendono un fumogeno poche file più sotto, ma meno bello. Già, il 93’. Lo stesso minuto del rigore di Balotelli a Torino, con i granata in vantaggio 2-1 e i rossoneri che spingono, l’arbitro che non permette ai granata di sostituire un giocatore che si è appena rotto il piede, l’azione che riprende da un fallo laterale e il Milan che ottiene un calcio di rigore. Al 93’. Prima Cerci aveva segnato un gol dei suoi, contropiede e portiere fulminato con un pallonetto in uscita.

 

La stagione del Torino si è decisa spesso negli ultimi minuti. Nel bene e nel male. I gol dei 3-3 a Inter e Livorno (rigore di Cerci), il penalty per la Sampdoria, il gol di Higuaín. Inevitabile che fosse Cerci a poter chiuderla in bellezza al 93’ dell’ultima partita. Cerci più di Immobile, che pure quest’anno ha fatto innamorare i tifosi del Torino come non capitava da tempo. Marco Ferrante, attaccante granata che negli anni bui della storia recente ha saputo accendere il cuore dei tifosi, un giorno ha detto che per capire che cosa significa giocare con la maglia del Toro bisogna indossarla almeno per due stagioni. A quel punto non te la togli più di dosso. Anche se te ne vai. Lo scorso anno il Torino salutò la salvezza con un gol su rigore di Cerci all’ultima giornata. Quest’anno un rigore di Cerci all’ultima giornata poteva riportare il Torino in Europa. Non sapremo mai che cosa ha pensato Alessio colpendo quel pallone al 93’, mentre i seimila tifosi al Franchi trattenevano il respiro assieme a qualche decina di migliaia di altri davanti alla tv. Non lo sapremo mai ma sappiamo che cosa hanno pensato i tifosi quando il pallone calciato da Cerci è finito sul corpo del portiere della Fiorentina, strangolando vent’anni di attesa in un istante. Neppure il peggior sadico avrebbe potuto scrivere un finale del genere. Illusorio, folle e bastardo. Al fischio finale Cerci è caduto a terra come svenuto. Piangeva abbracciato dai compagni. Piangeva abbracciato dagli avversari. Piangeva salutando i tifosi. Piangeva. Piangeva. Sembrava che non potesse smettere mai. Attorno, il silenzio surreale dello stadio, con i tifosi della Fiorentina ammutoliti e abbracciati a quelli granata.

 

Le lacrime nel calcio sono infingarde. Figlie dell’istinto più che del cuore, spesso raccontano la verità di un momento che, con il passare del tempo, nella vita del calciatore che le ha piante diventa uno dei tanti. Chi conosce bene il Toro e la sua storia, però, domenica sera ha avuto l’impressione che con quell’errore Alessio Cerci sia diventato finalmente, e a pieno titolo, uno del Toro.

 

Partita per salvarsi senza affanni, la squadra di Giampiero Ventura ha disegnato il più bel campionato dal 1994 a oggi, riportando l’entusiasmo tra la gente, l’orgoglio tra i tifosi e il rispetto di avversari e commentatori. Alessio Cerci è stato uno dei volti di questa piccola impresa, e se il calcio non fosse così simile alla vita domenica sera quel rigore avrebbe gonfiato la rete della Fiorentina. O il pallone respinto avrebbe trovato un granata pronto a ricacciarlo dentro. Non Immobile, però, squalificato per una stupida espulsione nel turno precedente. Ma non si può andare contro la storia, modificare un Dna ultra centenario, farsi beffe della sfiga. Non così in fretta. C’è sempre una pagina amara, ma vera, alla fine di ogni capitolo nella storia del Torino. Nel lungo elenco di fregature, forse mancava un rigore sbagliato nel recupero. Eccolo qua. Sui piedi del più forte.

 

Alessio Cerci si è giocato vent’anni in undici metri. Eppure con quell’errore e quelle lacrime si è guadagnato l’amore indiscusso di una tifoseria che preferisce gli uomini ai robot, i mezzi matti ai soldatini. Adesso la cosa migliore che il presidente Cairo può fare è ripartire da lui. Rinnovargli il contratto, alzargli lo stipendio. Tutto questo se lui vorrà, ovviamente. Le voci di mercato dicono che Immobile andrà via, e che Cerci potrebbe fare lo stesso. Forse quel rigore sbagliato al 93’ è l’ennesima occasione gettata da una squadra abituata dalla storia a sfiorare il traguardo per inciampare prima di tagliarlo e restare soltanto con le lacrime. Forse invece sarà l’inizio di una storia nuova. Proprio ieri la seconda commissione istituita per deliberare le licenze Uefa ha negato i requisiti al Parma per partecipare all’Europa League dell’anno prossimo. I gialloblù aspettano l’ultimo grado di giudizio previsto, l’Alta corte del Coni, il 28 maggio. Se la decisione verrà confermata il Torino sarà ripescato e potrà partecipare all’Europa League. Cerci andrà ai Mondiali in Brasile, e se saprà superare la delusione di domenica sera potrebbe essere uno dei protagonisti della Nazionale azzurra. I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli. E’ una frase di Baggio. E’ perfetta per Cerci. Mai così granata come dopo domenica sera.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.