Se un alieno atterra in Cina

Giulia Pompili

Il presidente russo Vladimir Putin riponeva molte speranze nella sua visita di ieri e oggi a Shanghai. Dopo dieci anni di contrattazioni con i cinesi, che sono dei negoziatori durissimi e resistenti, ieri Putin e il presidente cinese Xi Jinping avrebbero dovuto annunciare la firma di un gigantesco contratto di fornitura di gas tra Gazprom e la China National Petroleum. Quattrocento miliardi di dollari sul lungo termine, enormi investimenti in infrastrutture, una relazione politica e militare rinsaldata. Putin aveva preparato il terreno accuratamente, con una serie di dichiarazioni d’amore e promesse di collaborazione inviate a Pechino a mezzo stampa nei giorni scorsi.

di Giulia Pompili e Eugenio Cau

    Il presidente russo Vladimir Putin riponeva molte speranze nella sua visita di ieri e oggi a Shanghai. Dopo dieci anni di contrattazioni con i cinesi, che sono dei negoziatori durissimi e resistenti, ieri Putin e il presidente cinese Xi Jinping avrebbero dovuto annunciare la firma di un gigantesco contratto di fornitura di gas tra Gazprom e la China National Petroleum. Quattrocento miliardi di dollari sul lungo termine, enormi investimenti in infrastrutture, una relazione politica e militare rinsaldata. Putin aveva preparato il terreno accuratamente, con una serie di dichiarazioni d’amore e promesse di collaborazione inviate a Pechino a mezzo stampa nei giorni scorsi. Le relazioni con la Cina, il nostro amico fidato, non vanno così bene da secoli, ha detto Putin a Rt. “La nostra cooperazione diventerà un modello per tutte le potenze mondiali”, ha aggiunto, come a dire: la Cina sta dalla nostra parte, questo cambia i rapporti di forza, le altre potenze farebbero meglio ad abituarsi. Con i giornali Putin dava l’accordo per scontato, il suo viceministro per l’Energia diceva che l’affare era fatto “al 98 per cento”. Dopo dieci anni di trattative intense, il fatto che la firma dell’accordo arrivasse nel pieno della crisi tra Russia e Ucraina, con le sanzioni dell’occidente e Mosca isolata economicamente, era stato interpretato come un segno di debolezza. Con l’Europa che si organizza per fare a meno della Russia e l’America che si dà allo shale, l’economia drogata di idrocarburi di Mosca è stata costretta a scendere a patti con la Cina e a cedere. Gazprom ha sempre detto che il prezzo minimo per il suo gas sarebbe stato di 12 dollari per piede cubo (circa 28 litri), ma si dice che Mosca avesse garantito a Pechino un prezzo di 10-11 dollari. Xi Jinping sa che la Russia è alle strette, e ha tirato la corda. Per questo tutti gli analisti si sono stupiti quando ieri, dal loro incontro bilaterale, Putin e Xi sono usciti con un protocollo di collaborazione generica, belle promesse e nessuna firma. Tutto rimandato, l’accordo si farà “prossimamente”, per ora la Cina, che grazie ai giacimenti in Asia centrale e in Birmania ha riserve garantite per i prossimi dieci anni, del gas della Russia può fare a meno. Da Gazprom fanno sapere che si continuerà a trattare, ma Xi sa che il tempo è dalla sua parte, e che più che la crisi in Ucraina, sarà l’isolamento internazionale di Mosca a portare la Russia da lui.

    L’incontro in Cina tra Putin e Xi Jinping ha un motivo politico, oltre che economico. “Hanno bisogno l’una dell’altra più del solito”, ha detto ieri a Bloomberg Li Lifan, professore associato all’Accademia delle Scienze Sociali di Shanghai. Il pivot asiatico di Putin è pronto a partire da Pechino. La Cina è stata una delle poche nazioni a non prendere posizione sull’invasione russa della Crimea. Da un lato i funzionari di Pechino hanno bisogno di evitare che l’indipendentismo dei filorussi in Ucraina venga preso a modello dalle zone a rischio su territorio cinese, il Tibet per esempio, o la regione autonoma uigura dello Xinjiang. D’altra parte il pericolo era che Pechino potesse considerare la mossa di Putin in Crimea come un modello, un pericoloso precedente dal punto di vista del diritto internazionale per allungare le mani sui territori contesi con i vicini. Intanto i due paesi mostrano i muscoli, dando molto risalto alle esercitazioni navali congiunte che stanno iniziando nel mar Cinese orientale, e che dureranno una settimana, per celebrare il 70esimo anniversario della vittoria della Seconda guerra mondiale. Che siano esercitazioni navali è strategico: molti dei problemi della Cina oggi vengono dal mare. Ed è un fatto che recentemente la cooperazione militare tra Russia e Cina si sia rafforzata. Nonostante “il fantastico pacchetto di accordi”, come lo ha definito l’assistente del presidente russo, Yuri Ushakov, la Russia considera ancora la Cina una potenziale minaccia. Per questo per anni ha evitato di vendere a Pechino il meglio del suo equipaggiamento militare. Ora potrebbe non poter più rinunciare a quel mercato, e la due giorni di Putin serve anche per discutere della possibilità di incrementare le esportazioni di risorse militari. Mosca ha ricominciato a fornire alla Cina equipaggiamenti militari (nel 2006 Pechino ha acquistato 100 caccia Sukhoi Su-30 per l’aeronautica e 48 Sukhoi Su-33 per la marina), e alcuni sistemi di difesa missilistica e aerea. Tra il 1990 e il 2007, il 90 per cento delle armi convenzionali importate in Cina era venduto dalla Russia. Fino a dieci anni fa la Cina rappresentava il 40 per cento dell’export militare russo, con un giro d’affari da 30 miliardi di dollari. Le esercitazioni navali su larga scala di quest’anno sono le terze di questo tipo tra i due paesi, ma le forze di terra russe e cinesi partecipano ogni anno alle esercitazioni congiunte come parte dei preparativi in caso di destabilizzazione dell’Asia centrale.
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    Dopo l’annuncio del Pivot asiatico di Obama – che con gli accordi di libero scambio e trattati militari bilaterali con i paesi del Pacifico punta al contenimento della Cina – i rapporti di Pechino con Washington sono peggiorati. Ieri Pechino era infuriata per l’incriminazione formale che l’Amministrazione americana ha annunciato lunedì contro cinque hacker dell’esercito cinese. I cinque appartengono al gruppo hacker 61398 e sono accusati di spionaggio industriale e cyberattacchi. Le accuse con tanto di foto segnaletica sono arrivate con un tempismo notevole, pochi giorni dopo la visita a Washington del generale cinese Fang Fengshui, il numero tre della gerarchia militare di Pechino che ha ricevuto molti onori e ha restituito dichiarazioni durissime, e alla vigilia della visita di Vladimir Putin in Cina. La guerra di hacker e di accuse tra Stati Uniti e Cina va avanti da anni, ma Washington ha dovuto aspettare che le acque si calmassero dopo le rivelazioni di Edward Snowden per riprendere l’offensiva. Le prime rappresaglie sono già arrivate, per ora sono solo formali, come l’uscita da un gruppo di lavoro per la sicurezza digitale, e la convocazione dell’ambasciatore. Le prossime potrebbero essere infinitamente più dannose: ieri Pechino ha annunciato che Windows 8, il sistema operativo dell’americana Microsoft, sarà bandito dai computer del governo. Non è stato citato nessun legame con la vicenda degli hacker, ma è facile capire che se Pechino rompe con la Silicon Valley quello dello spionaggio industriale potrebbe essere un problema limitato.

    Elizabeth Economy e Michael Levi sono due senior fellow al Council on Foreign Relations, una si occupa di Asia e l’altro di politiche energetiche, e a febbraio hanno fatto uscire in America un libro intitolato “By all means necessary”, con tutti i mezzi necessari, che è la più ampia relazione recente su tutti i modi e i luoghi in cui la Cina sta estendendo i suoi tentacoli per ottenere materie prime e risorse energetiche – e su come questo sta cambiando la politica estera di Pechino. Le miniere in Mongolia, i pozzi di petrolio in Iran, i terreni agricoli in Argentina e in Nuova Zelanda, i centri estrattivi di sabbie bituminose in Canada. La crescita della Cina (che sta rallentando, ma è comunque colossale) sta drenando risorse in tutto il mondo con efficienza centralizzata grazie alle sue compagnie di stato. L’aumento dei prezzi delle materie prime e dei beni alimentari degli ultimi anni è da imputarsi soprattutto alla fame di risorse di Pechino. Gli analisti economici fanno previsioni apocalittiche di carestie e picchi superati, gli strateghi militari si preparano a quando la Cina ci farà la guerra per l’acqua e il petrolio. Dove alla fame di risorse si aggiunge un progetto più grande, quello della costruzione di un dominio regionale, come avviene nel mar Cinese, la guerra quasi c’è già, o comunque una tensione che le assomiglia molto. Sotto alle isole Senkaku, contese con il Giappone, e sotto alle Paracel, contese con il Vietnam, si stima che ci siano giacimenti di gas e petrolio considerevoli. Economy e Levi, nel loro libro, cercano di evitare il catastrofismo. La fame di risorse della Cina, dicono, non è molto differente da quella del Giappone quarant’anni fa, quando Tokyo era chiamata la tigre asiatica, voleva trasformare l’Australia in una miniera a cielo aperto e gli analisti facevano previsioni non meno apocalittiche di quelle di oggi. Ci sono però alcune differenze notevoli, come le dimensioni dei due paesi, il grado di globalizzazione dell’economia e l’immigrazione. I cinesi nel mondo sono milioni, e sono una forza (anche una debolezza, come dimostrano le evacuazioni di cittadini cinesi dal Vietnam in questi giorni) che per esempio in Africa sta instaurando cambiamenti di lungo periodo. Poi, appunto, c’è l’uso della forza. Nella sua ricerca di risorse, il Giappone non ha mai dispiegato le navi da guerra contro i concorrenti, e non ha mai minacciato con i missili chi avesse contrastato le sue “legittime” aspirazioni territoriali. Il salto di qualità sta in gran parte qui: la ricerca di risorse della Cina è un mezzo funzionale alle sue aspirazioni di dominio geopolitico.

    Queste aspirazioni sono esplose di recente nel mar Cinese meridionale. Nel 2009 Pechino ha definito i nuovi confini della “nine-dash line”, le “nove linee di divisione” che attribuiscono alla Cina il 90 per cento dei 3,5 milioni di chilometri quadrati di quell’area. Quando, all’inizio di maggio, la Cina ha dato il via alle attività di perforazione di una piattaforma petrolifera al largo delle isole Paracel (un arcipelago conteso tra Cina, Vietnam e Taiwan), tutto l’odio anticinese dei vietnamiti è tornato a manifestarsi scatenando la crisi più violenta tra Cina e Vietnam dal 1975. I fondali del mare intorno alle isole, che si chiamano Hoang Sa per i vietnamiti, Xisha per i cinesi, pare siano ricchi di gas e petrolio. Il governo di Hanoi ha chiesto a Pechino di sospendere i lavori, ha mandato delle imbarcazioni a controllare, quelle cinesi hanno risposto con cannoni ad acqua (Pechino nega, ma i video su YouTube sono eloquenti). Il Vietnam ha sfruttato il sentimento nazionalista per autorizzare manifestazioni contro la Cina tra Hanoi e Saigon – anche il Giappone ha autorizzato i vietnamiti a manifestare davanti l’ambasciata di Pechino a Tokyo. Solo che le manifestazioni sono passate alla violenza il 13 maggio scorso, quando diverse fabbriche cinesi in una zona industriale nella provincia di Binh Duong, nel sud del Vietnam, sono state date alle fiamme. Negli scontri tra polizia e manifestanti sarebbero morte due persone. All’inizio di questa settimana due imbarcazioni inviate dal governo di Pechino hanno messo in salvo almeno mille cittadini cinesi residenti in Vietnam per il pericolo di altri attacchi. L’altro ieri a Myanmar, durante il colloquio dei ministri della Difesa Cina-Asean, il ministro della Difesa cinese Chang Wanquan ha incontrato il suo omologo vietnamita Phung Quang Thanh. Hanno tenuto le proprie posizioni, rinnovando però l’importanza dell’“unità e dell’amicizia” tra i due paesi.

    Ad Abuja, la capitale della Nigeria, nei giorni in cui scoppiava la crisi politica delle 200 ragazze rapite dagli islamisti di Boko Haram, insieme al presidente Goodluck Jonathan non c’erano i diplomatici dell’occidente, ma il premier cinese Li Kequiang. Il viaggio era programmato da tempo ma l’immagine degli alti rappresentanti cinesi che sono già sul posto a promettere aiuti militari mentre noi tuittiamo hashtag è stata notevole. Da marzo la Cina è diventata il maggior partner economico del continente africano, il volume dei commerci è passato da 10 miliardi di dollari nel 2000 a 210 miliardi nel 2013. Pechino sa come coccolare i leader stranieri, e quelli africani sono deliziati quando la Cina fornisce loro viaggi di stato di primissima classe, con limousine, tappeti rossi e hotel a cinque stelle, finanzia la costruzione di stadi e di residenze presidenziali, sviluppa legami militari con l’addestramento dei soldati africani e la fornitura di armi avanzate. La Cina ha due vantaggi con cui l’occidente non può competere. Ha una montagna di denaro immediatamente disponibile e non è per niente schizzinosa. Che ci sia da fare affari con il sanguinario Bashir in Sudan o con il democratico Sudafrica, Pechino non si scompone. In questo modo il pragmatismo cinese ha riempito silenziosamente tutti gli spazi lasciati liberi dalle istanze morali americane. La Cina può elargire finanziamenti sull’unghia, e può farlo subito, senza procedure, senza audizioni parlamentari. Non deve esportare la democrazia, la Cina, deve importare petrolio e alleanze geopolitiche, poco importa se c’è sangue sulle mani che stringe per fare affari – chi non ne ha un po’ sulle sue? Il prossimo progetto monumentale di Pechino in Africa sono le ferrovie. La settimana scorsa il premier Li Keqiang ha annunciato che ne costruirà una, enorme e ramificata e ad alta velocità, per collegare la costa del Kenya con Nairobi e con i paesi confinanti a est e a nord, tutti ricchi di risorse. E’ un progetto enorme, che impiegherà anni per essere realizzato – ovviamente da aziende statali cinesi.

    Xi Jinping, durante la sua visita in Europa di un mese e mezzo fa, ha chiesto alla Germania di lavorare insieme a una Silk road economica che unisse definitivamente la Cina all’Europa. Fare da ponte tra l’Europa e la Cina è un vecchio pallino di Vladimir Putin, ma per realizzarlo c’è bisogno anche di Pyongyang, ed è stato Yuri Trutnev, vicepremier del governo di Mosca, a prendere accordi all’inizio di maggio, durante un viaggio ufficiale nella capitale del regime di Kim Jong-un. Nel settembre del 2013 la Russia ha concluso i lavori di ristrutturazione della ferrovia che collega la città russa di Chasan al porto nordcoreano di Rason. Chasan si trova a 130 chilometri da Vladivostok – dove termina la Transiberiana – ed è l’unico comune russo al confine con la Corea del nord. La zona economica speciale di Rason è l’unica area nordcoreana che confina sia con la Cina che con la Russia, ha uno sbocco sul mar del Giappone ed è una di quelle zone franche nordcoreane dove si investe di più dall’estero, per traffici più o meno leciti. Russia e Cina da tempo collaborano con il governo di Pyongyang perché il porto di Rason resti vivo. Ora la Russia promette di investire di più, secondo le parole di Trutnev per cui “la cooperazione è molto meglio dell’isolamento”. Dal canto suo, Pechino è da sempre l’alleato più stretto della Corea del nord. A marzo la Cina ha rifiutato di riconoscere il rapporto di quattrocento pagine dell’Onu che denunciava la violazione dei diritti umani in Corea del nord definendolo “scollegato dalla realtà”. I rapporti tra Pechino e Pyongyang sono di collaborazione sin dal 1950, quando la Cina è entrata nella guerra di Corea proteggendo il nord contro le truppe delle Nazioni Unite. La Cina è il principale partner commerciale della Corea del nord (3,4 miliardi di dollari di volume commerciale nel 2010), e gode di particolare favore perché le politiche sull’immigrazione prevedono il rimpatrio per i nordcoreani che fuggono dal regime dei Kim attraversando il confine. A Pyongyang se sei un rimpatriato finisci direttamente nei campi di lavoro, quando non sei condannato a morte. C’è poi il problema delle armi nucleari in possesso della Corea del nord. Nel 2010 la Cina ha manifestato un atteggiamento di debole condanna delle minacce nordcoreane, una posizione più vicina a quella della Corea del sud, del Giappone e degli Stati Uniti. Ieri Vladimir Putin e Xi Jinping hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale esprimono le loro speranze per la ripresa dei negoziati a sei – che coinvolgono rappresentanti di Corea del sud, Corea del nord, Cina, Russia, Giappone e Stati Uniti e che sono in fase di stallo dal dicembre 2008 – volti a stabilire la pace nella penisola coreana. Cina e Russia hanno espresso “preoccupazione per la mancanza di una risoluzione sulla questione nucleare”.

    Dopo la vittoria epocale di Narendra Modi, il candidato nazionalista del Bjp, alle elezioni in India la settimana scorsa, su Forbes Gordon G. Chang ha scritto che il più grande sconfitto delle elezioni è la Cina. Modi è un vecchio amico di Pechino, come governatore dello stato del Gujarat è stato in Cina quattro volte, nell’ultima, nel 2011, Modi ha ricevuto gli onori che di solito il cerimoniale del governo cinese attribuisce a un capo di stato, lui ricambiava con biglietti da visita rossi e scritti in cinese. Fino a pochi giorni fa a Modi, accusato di violenza settaria, era vietato l’ingresso negli Stati Uniti, e la Cina ne ha approfittato per stabilire relazioni proficue. Nonostante questo, la sua elezione non può essere una buona notizia per Pechino. Le due promesse fatte dal premier in campagna elettorale, crescita che torna a due zeri e India che torna forte nel mondo, sono entrambe pericolose. Un’India che esprime le sue potenzialità, con una popolazione più giovane di quella cinese e un sistema democratico e decentralizzato, più adatto ad accogliere l’economia di mercato, rischia di mettere in pericolo il dominio cinese nella regione. Questo senza contare le dispute territoriali di confine, di cui da governatore Modi non doveva preoccuparsi, ma che potrebbero diventare un tema importante ora che è premier eletto da una base dalla forte tendenza nazionalista. Il Modi premier sarà diverso dal Modi governatore, è difficile che alla prossima visita lo si vedrà ancora distribuire biglietti da visita in cinese.

    In un commento pubblicato su Project Syndicate a fine aprile, Koichi Hamada, professore emerito di Economia a Yale e consigliere economico del premier giapponese Shinzo Abe, ha usato la metafora dell’alieno per spiegare cosa sta succedendo in Asia. “Se un alieno atterrasse oggi in Asia orientale, troverebbe una regione caratterizzata da una rapida trasformazione economica, da dinamiche geopolitiche complesse e da profonde, storiche animosità”. Spiega Hamada che forse vedere una regione da quella prospettiva, quella dell’alieno, è esattamente ciò che dovrebbero fare i leader per garantire le dinamiche positive, e fermare quelle più pericolose. Prosegue Hamada: “Il nostro ospite alieno molto probabilmente atterrerà nel più grande paese dell’Asia orientale, la Cina, dove tre decenni di incredibile crescita economica hanno sollevato milioni di persone dalla povertà e trasformato la società cinese. Tuttavia la Cina mantiene la sua tradizionale visione del mondo sino centrica, che sembra desiderosa di imporre ai suoi vicini. Infatti la Cina aumenta le sue risorse militari e sta compiendo passi sempre più audaci per affermare il proprio dominio sulle rotte marittime in tutte le direzioni – generando ansia e ira tra i suoi vicini”. Hamada ha le idee chiare anche sul Giappone, “che la Cina ha recentemente superato come seconda economia più grande del mondo”. Qui il nostro alieno “potrebbe trovare un paese più interessato a proteggere il tenore di vita dei suoi cittadini” ma anche “desideroso di ristabilire se stesso come paese completamente indipendente, libero dai sensi di colpa e dagli obblighi derivanti dalla Seconda guerra mondiale”. Così la Corea del sud, che “sta lavorando per superare un passato doloroso, essendo stata il campo di battaglia sia per le guerre sino-giapponesi che per quelle russo-giapponesi”. Ma la frattura tra Tokyo e Seul, per Hamada, è un problema anche per gli Stati Uniti: “Diminuita la capacità dell’America di fornire una leadership globale, deve contare più che mai sui suoi alleati” per garantire che gli affari regionali e globali coincidano con i suoi ideali e i suoi interessi. “Se l’alieno prendesse tutte queste informazioni e avesse una certa conoscenza della teoria dei giochi (almeno una conoscenza generale dei suoi usi nella valutazione dei conflitti), capirebbe subito che tutti gli obiettivi dei paesi interessati – siano essi territoriali o relativi alla narrazione storica – non possono essere pienamente soddisfatti contemporaneamente”. Per Hamada “spetta ai politici e ai diplomatici spostare i paesi dai vicoli ciechi di svantaggio diffuso a quel tipo di risultati reciprocamente vantaggiosi”. “E’ una costante della politica che soltanto i falchi e i nazionalisti riescono a produrre risultati di questo tipo. Basti pensare all’apertura di Richard Nixon alla Cina nel 1972, o la risoluzione di Charles de Gaulle nella guerra della Francia in Algeria. Forse solo dei leader come Abe, il presidente cinese Xi Jinping e il presidente sudcoreano Park Geun-hye”, tre leader considerati indubbiamente molto patriottici, “possono fare quello che serve per trasformare i giochi a somma zero nell’Asia dell’est in politiche di vantaggio comune”.

    di Giulia Pompili e Eugenio Cau

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.