Un botto in procura. A Milano

Salvatore Merlo

Fra liti e dossier, implode il santuario di Tangentopoli e si sfilaccia il pool di pm che fu addestrato da Borrelli come una falange inscalfibile. Il caso Bruti Liberati vs Robledo, il ruolo della solista Boccassini e altre crepe

    Accanto all’ingresso dei testimoni un drappello di avvocati discute. Alcuni di loro parlano in tono concitato d’irregolarità e di un ufficio, quello della procura, che non funziona più. “Adesso bisogna anche stare attenti a un sorriso, a una stretta di mano, a un gesto di confidenza scambiato con un pm. Se parli con uno, poi gli altri ti guardano male”. E un anziano avvocato dai denti gialli, la giacca frusta, una sigaretta spenta penzolante dal labbro inferiore si rifà con calma alla storia e all’esperienza: “Se ci fosse stato Borrelli non sarebbe successo niente di tutto questo”. Nei ricordi il tempo è un sentimento, non una misura. E tutti, avvocati e magistrati, giudici e pubblici ministeri, sanno cos’era la procura di Milano, cioè una falange che si muoveva e colpiva come un sol uomo, era il gruppo di togati che ha abbattuto il sistema della Prima Repubblica, piegato il terrorismo: una squadra di quaranta, poi ottanta, infine quasi cento magistrati governati con carisma da capi riconosciuti per autorevolezza, prima Francesco Saverio Borrelli, poi Manlio Minale. E tutti sanno cos’è diventata oggi: il procuratore aggiunto che non parla con il procuratore capo, i dipartimenti che non collaborano tra loro ma si accusano l’un l’altro di “confondere” e “intralciare” le indagini sull’Expo. Nelle carte consegnate al Csm si racconta d’indagini “parallele” condotte da un dipartimento della procura alle spalle di un altro, si fa riferimento a “surreali doppi pedinamenti”, a sovrapposizioni che “potrebbero recare gravi danni alle indagini” tuttora in corso. Dunque magistrati contro magistrati. Edmondo Bruti Liberati contro Alfredo Robledo, Robledo contro Ilda Boccassini e contro Francesco Greco. Si tratta di persone che la sinistra italiana (e non solo) ha, in un certo senso, decorate vive. E ciascuno di loro si muove con i suoi laudatori sospetti ed estimatori corrivi nelle redazioni dei giornali, un’umanità ribollente da stadio o da concerto, dove ciascuno racconta una verità diversa, perché le storie e le ricostruzioni non collimano se non per un aspetto: il risentimento.

    Nelle parole dei protagonisti di questa vicenda sfilacciata coincide soltanto la grammatica, ciascuno di loro esprime infatti un desiderio di rivincita. Comunque sia, il duello tra Bruti Liberati e Robledo, tra il procuratore e il suo vice, tra Robledo e Boccassini, non è naturalmente un duello fra persone, “nulla di personale” dicono infatti i protagonisti, anche se, come sempre, è con le gambe delle persone che alla fine camminano le cose. E vale dunque il vecchio dilemma di Marx che, malgrado la sua grande scienza, non sapeva bene dire se è l’Uomo che fa la storia o se è la Storia che fa l’uomo, e anche noi non sappiamo se è Robledo che fa l’esposto a Bruti Liberati o se è la necessità di un esposto, di una denuncia per irregolarità, che fa di Robledo un nemico di Bruti Liberati. Certamente alla fine sono loro, loro due in carne e ossa, che si scontrano, anche se il duello non è aperto ma si combatte dentro la piramide del potere giudiziario, nel ministero, al Csm, in procura e nei corridoi del Palazzo di giustizia.
    E c’è chi vede solo trappole in questa giungla ma c’è pure chi, beatamente ingenuo, non ne vede alcuna. Milano non è una procura qualsiasi, ma è forse la più importante d’Italia, è quella che persegue Silvio Berlusconi, è quella che indaga sull’Expo e sulle infiltrazioni della criminalità organizzata in Lombardia. “Di tutto ha bisogno il sistema giudiziario tranne che di delegittimazione”, dice Michele Vietti, il vicepresidente del Csm, mentre la vicenda si presta a qualsiasi tipo di retropensiero e di strumentalizzazione, con la magistratura organizzata più che mai divisa in correnti, alle prese con le nomine direttive in città importanti, a Torino, a Salerno, a Bari, e con una campagna elettorale dagli esiti più che mai imprevedibili, con il crollo della corrente di Magistratura democratica (Md) alle primarie del Csm e con l’avanzata, nella politica nazionale, del Movimento cinque stelle di Beppe Grillo, già pronto a chiedere la vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura che scadrà a luglio.

    Della tempesta che scuote i vertici della procura i semplici sostituti non conoscono che la cronaca pubblica, ma pure percepiscono l’agitazione diffusa, il conflitto tra capi e vicecapi, una specie di febbre, lo scontro fra polarità opposte che colpisce a tratti anche il comune mortale, “perché qui” – dicono – “l’aria è diventata irrespirabile”. Il pomeriggio del 25 marzo un gruppo di agenti della Guardia di Finanza si apposta di fronte a un bar del centro, lavorano per Alfredo Robledo, indagano sulla storia dell’Expo e lo fanno parallelamente al pool antimafia di Ilda Boccasini. Si preparano a un pedinamento. Sono in borghese, in attesa. Dopo qualche minuto l’attenzione degli agenti è attratta da una coppietta, un uomo e una donna che si tengono per mano, a pochi metri dal luogo del pedinamento. I finanzieri li osservano, i due hanno un’aria famigliare, sembrano altri agenti in incognito. Dopo un po’ uno dei sottufficiali esplicita il dubbio: “Ma non è che sono colleghi? Mi sembrano quelli della sezione di polizia giudiziaria della procura. Quelli che lavorano per la dottoressa Boccassini”. Scriverà Bruti Liberati nei suoi rilievi al Csm: “Solo la reciproca conoscenza del personale che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni al lavoro investigativo”. Risponderà Robledo: “Non è mai avvenuto nulla di tutto ciò”. La Guardia di Finanza, infine, darà una terza versione ancora. Rimane il mistero. Ed è ormai un corteo di veleni che segue e insegue la Giustizia con i suoi maestri di cerimonie, e con le sue mille verità, davvero degne di una possente, impenetrabile tessitura da thriller poliziesco. E nei corridoi del Palazzo di giustizia, i sostituti procuratori, officianti di una cerimonia non meno antica e rituale della messa, siano essi più vicini a Bruti Liberati, alla Boccassini o a Robledo, ripetono tutti la stessa cosa: “Così non funziona. Non può andare avanti. E’ tutto un pasticcio”. Ecco, appunto: il veleno nella coda, a prescindere dalle ragioni di ciascuno. La deflagrazione della procura di Milano è uno di quei drammi dove si annida l’incanto della frivolezza, l’abbandono della logica in favore delle analogie incongrue, della magica ambiguità. Dunque si racconta di un’altra sovrapposizione, un altro difetto di coordinamento, su indagini in corso: un’inchiesta segretissima avviata dall’antimafia nell’aprile del 2012 e coassegnata a Boccassini e Robledo malgrado – sostengono in procura – c’entri poco con la mafia, cioè con la delega di Boccassini, e molto invece con la corruzione, cioè con la materia di Robledo. E così un anziano magistrato, forse uno dei più famosi d’Italia, mi indica il corridoio vuoto del quarto piano, qui al Palazzo di giustizia di Milano, a pochi metri dallo scalone che riesce a essere lugubre anche nel più lieve pomeriggio d’inizio estate: “Vedi, vedi che non c’è nessuno. Prima non era così. Stavamo tutti qua, fino alle otto della sera e anche più tardi. Si entrava nell’ufficio dell’uno e dell’altro. Si parlava. I personalismi e le invidie esistevano, ma venivano ricomposte dall’interno”. Era il loro modo di stare vicini, il loro modo di fare clan. Erano ferocemente leali tra loro.

    Adesso al Palazzo di giustizia regna uno strano silenzio preoccupato. Il nucleo storico dei magistrati milanesi si è spaccato, ma non c’è un ordine, i capannelli sono minuscoli, sono rivoli, si sta ciascuno per conto proprio e la maggior parte dei sostituti non prende nemmeno posizione. Tutti parlano, ma nessuno vuole comparire in un articolo di giornale. Soprattutto i giovani, che per lo più fanno spallucce, esprimono fastidio per un clima che complica il lavoro. Ma chi ha memoria storica dice che con Borrelli, o con Minale, cioè i predecessori di Bruti Liberati, non si sarebbe arrivati a tanto. “I personalismi e le invidie ci sono sempre state. Ma venivano ricomposte, con l’elasticità e la durezza dei capi”. A settembre del 1991 Borrelli cacciò Ilda Boccassini, detta l’infuocata, per via della sua cultura investigativa coraggiosa sino all’audacia temeraria: la mandò via dal pool che si occupava della criminalità organizzata. Nel suo provvedimento Borrelli scriveva che “la collega ha dimostrato una mancanza di controllo nervoso, una carica incontenibile di soggettivismo, una mancanza di volontà di porre in comune risultati, riflessioni, intenzioni”. E insomma Boccassini giocava da sola, indagava senza informare il diretto superiore Armando Spataro. Aveva cercato di escludere i colleghi, proprio come sembra stia succedendo in questi giorni, e come pare sia accaduto anche nell’indagine sull’affaire Ruby, che è l’origine vera del conflitto interno alla procura: Robledo sostiene spettasse per competenza al suo dipartimento, che si occupa di corruzione e pubblica amministrazione, e non all’antimafia di Boccassini.

    Tecnicamente bravissima,  adorata dalla polizia, nervosa e sempre sul punto di scattare, Ilda Boccassini viene considerata “difficile da gestire”. Dicono infatti: “Borrelli sapeva trattarla. Oggi non c’è più il domatore”. Per tutta la vita è andata soggetta a moti di stizza, come ad altri va il sangue alla testa o come certe persone cadono in preda alla malinconia. Nei giorni successivi alla strage di Capaci, dopo la morte di Giovanni Falcone, si rivolse così a Gherardo Colombo, suo collega del pool di Mani Pulite: “Gherardo, anche tu diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? L’ultima ingiustizia Giovanni l’ha subìta proprio dai giudici milanesi che gli hanno mandato una rogatoria senza allegati”. Ma ciò che la rende sospetta di alterigia, e quindi talvolta malvista, è la sua incapacità di mimetizzarsi e di adattarsi, di stabilire intese, di collaborare. “Il metodo del lavoro di squadra è sempre stato la nostra forza, qui a Milano. E’ un sistema che abbiamo inventato noi”, dicono in procura i più anziani.
    Boccassini invece, che pure ottiene risultati e condanne, lei che è considerata una fuoriclasse, vive un compiacimento padronale per le cose che fa, talvolta un po’ satura di se stessa. Tutti vogliono occuparsi delle inchieste più gratificanti, più popolari, quelle mediatiche. Anche Robledo, che è un elegante magistrato di sessantaquattro anni, campano di origine ma milanese per cultura, carriera e vita privata. Anche lui, come altri, è lusingato dall’attenzione dei giornali, si fa intervistare in televisione da Nicola Porro e da “Piazza Pulita”, ed è garbatamente narciso. Dunque succede che in procura, tra magistrati dalla biografia e dalla carriera imponente, ci si contenda le inchieste più importanti. “Ma sta al capo della procura far rispettare le regole. E reprimere le voglie matte”. Così adesso spiegano che Bruti Liberati non è Borrelli, e che anzi asseconda la dissidenza solitaria di Boccassini: “Si è completamente appoggiato a lei, fa le conferenza stampa con la polizia alle spalle, cose che con Minale non accadevano. E certo, Boccassini gli porta risultati notevoli, ha inchiodato Berlusconi. Ma così ha fatto anche saltare in aria l’ufficio”.

    Bruti Liberati appartiene alla razza di quelli che prima di esprimere un’opinione, anche sull’argomento più innocente, osservano l’interlocutore per cercare di capire qual è la sua. “E’ affetto da quietismo istituzionale”, disse una volta Peppe D’Avanzo. Non affronta mai di petto un ostacolo, e di solito le sue manovre sono a lunghissimo termine. Così, quando tre anni fa il fascicolo Ruby carambola sotto il naso di Ilda Boccassini, che lo trattiene all’antimafia, malgrado gli strepiti di Alfredo Robledo – “è roba di pubblica amministrazione, è roba mia” – il procuratore della Repubblica non fa una piega, non dirime, lascia che sia. Anzi. Secondo la versione maliziosa di corridoio preferisce che se ne occupi proprio la Boccassini perché conosce i fortissimi rapporti della collega con la polizia, e non vuole – lui che è “affetto da quietismo istituzionale” – che l’indagine Ruby coinvolga il questore di Milano. “Difatti – spiega un magistrato – venne scelto il reato di concussione, che oltre a essere più grave e consentire un uso abbondante delle intercettazioni, individua nella polizia una vittima di Berlusconi. Avrebbero anche potuto indagare per abuso d’ufficio. La differenza è che la polizia sarebbe diventata corresponsabile, le pene molto più basse. E senza intercettazioni”. E insomma Borrelli e Minale sapevano gestire il lavoro dei pm, avevano strutturato la procura su decisioni condivise, secondo un rapporto solidale e forte fra tutti i sostituti. Dopo l’esperienza di Mauro Gresti, che negli anni Ottanta gestiva l’ufficio all’antica, a Milano, con Borrelli prima e con Minale dopo, si era lentamente costruito un metodo. Un esempio dal punto di vista anche organizzativo, persino ideologico, negli anni della cosiddetta rivoluzione italiana, quella vicenda di energia popolare e di strumentalizzazione, di vitalità morale e di focoso moralismo, con il suo carico di emergenza, esagerazione, ed esagitazione che faceva dire a Piercamillo Davigo: “Noi siamo i migliori”.

    Un sistema che, nel bene e nel male, è saltato con Bruti Liberati. Spiega Guido Salvini, che a Milano ha fatto per moltissimi anni il gip, occupandosi delle Br, del rapimento di Abu Omar, di Piazza Fontana: “Bruti Liberati non ha mai personalmente condotto alcuna indagine di rilievo. Ha storicamente alle sue spalle soltanto una carriera di politico della magistratura, impegnato nell’Associazione nazionale magistrati”. E insomma, dicono i colleghi, Bruti Liberati è un politico che non riesce a gestire l’ufficio e la sua squadra di magistrati “stelle”, e così attorno a lui sono cresciuti l’invidia e il risentimento.
    Robledo, che non appartiene al gruppo dei favoriti, che non è nemmeno della stessa corrente di Bruti e Boccassini, nel tempo ha preso a lamentarsi, ad annotare ogni cosa, per quasi tre anni. Ne è derivato per lui un genere di dissidenza solitaria che rappresenta una patria morale separata per chi si trova a disagio in quella reale, una ridotta ideale alla quale il malumore serve da muro di cinta. Così il magistrato invia lettere al suo superiore, e ai colleghi, nel corso dei tre anni di muto conflitto interno alla procura: lascia sempre tracce scritte, prepara un memoriale che alla fine condensa in un esposto inviato il 16 marzo al Csm, forse dimenticando che solo il silenzio e la disciplina conferiscono un che di misteriosa grandezza anche alla Verità. E da questo punto in poi cambia tutto. Boom! D’improvviso i pm di Milano si trovano immersi in un universo spersonalizzato, dove le parole di tutti i giorni sono come monete fuori corso, dove i fatti più quotidiani si traducono in formule oscure. Ed è come fossero tutti prigionieri di una stessa morbosa ossessione: una vita di clan contrapposti. Robledo non poteva non sapere che nel giro di qualche settimana, o di qualche giorno, per effetto della sua denuncia, tutti loro sarebbero stati travolti da un’invasione mediatica, istituzionale, pubblica e privata. Le loro vite esposte. E che in molti si sarebbero anche compiaciuti di fronte alla caduta d’un gruppo di magistrati così importanti. Poteva fare diversamente? E perché non ha denunciato prima le irregolarità?
    L’assegnazione del fascicolo Ruby risale al 2011. Forse non l’ha fatto per carattere, per un ritegno poi travolto da improvvisa insofferenza. Chissà. C’è anche chi intravvede trame oscure, complicati disegni, fantasiosi arabeschi che riguardano la vita correntizia della magistratura organizzata, quel sistema di partitini che non sono più legati a ideologie, mode culturali, pensiero, ma assomigliano più a lobby di potere personale, scollegate da progetti che non siano soprattutto di spartizione. Quest’anno si assegnano, e sono state assegnate, procure importantissime: Firenze, Bari, Salerno, Torino. E dall’interno del Csm, tra i laici, si mormora d’un patto d’acciaio tra la sinistra di Area e Unità per la costituzione, “da far saltare”, anche con l’elezione, pochi giorni fa, di un indipendente nella posizione di segretario generale del Csm. Chissà. Milano è forse la procura più importante d’Italia. E adesso Bruti Liberati potrebbe essere rimosso, o forse – dopo la valutazione dei suoi primi quattro anni da dirigente, a luglio – potrebbe anche ritirarsi, optare per la pensione, che non gli appare più come qualcosa di vago e di lontano, ma uno sbocco logico, quasi immediato. Magistratura indipendente, quella che una volta era la corrente della destra, sembra spalleggiare Robledo, contro Magistratura democratica, la corrente di Bruti Liberati. Ma certo sono illazioni, linee perfettamente dritte in un mondo tendente all’obliquo, alle sfumature, alle zone grigie. Ed è tutto evanescente, una sorta di incubo oscuro, oscuramente dilatato, a tratti baluginante, l’incubo del potere e delle sue trame. Rimane la maestà in rovina della procura di Milano, con i sostituti, la base, che chiedono soltanto di poter lavorare in un ufficio normale, in un ambiente sereno. L’amore e l’odio non si spengono, ma al contrario fermentano e avvelenano persino i sostituti procuratori più defilati, con la loro violenza. “Il potere giudiziario non è licenza di narcisismo”, mi dice l’anziano avvocato dai denti gialli, con aria saputa. Ha spento la sigaretta sulla gradinata di fronte al Palazzo di giustizia. Sopra le nostre teste campeggia questa scritta: “Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere alterum non laedere, suum cuique tribuere”, vivere onestamente, non recare danno agli altri, attribuire a ciascuno il suo.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.