La tirannia del Luogo Comune

Salvatore Merlo

Si sa come vanno le cose: si comincia con l’amico del popolo, con i sanculotti e la presa della Bastiglia e si finisce sempre con un avvocato a capo dello Stato, con un uomo di legge tagliateste. E’ la rivoluzione francese, è la tragedia della Storia che nella sua versione all’amatriciana però finisce con un’intossicazione di chiacchiere e pernacchie, con la candidatura blindata di Antonio Di Pietro al Mugello nel 1997, oppure con una bella festa del Vaffanculo, con la promessa d’un tribunale del popolo presieduto via internet da Gianroberto Casaleggio, un cappellino da baseball al posto della toga.

    Si sa come vanno le cose: si comincia con l’amico del popolo, con i sanculotti e la presa della Bastiglia e si finisce sempre con un avvocato a capo dello Stato, con un uomo di legge tagliateste. E’ la rivoluzione francese, è la tragedia della Storia che nella sua versione all’amatriciana però finisce con un’intossicazione di chiacchiere e pernacchie, con la candidatura blindata di Antonio Di Pietro al Mugello nel 1997, oppure con una bella festa del Vaffanculo, con la promessa d’un tribunale del popolo presieduto via internet da Gianroberto Casaleggio, un cappellino da baseball al posto della toga. Scriveva Vitaliano Brancati, nel 1947: “La nostra società è quasi sempre conformista, ma in modo particolare quando s’atteggia a rivoluzionaria. Da trent’anni a questa parte, le rivoluzioni italiane consistono in un colpo di mano per mettere sul trono un tirannico Luogo Comune”. E quando scrive queste parole, nel suo “Diario romano”, Brancati ha quarant’anni, la guerra è finita da poco e così anche il regime. E insomma lo scrittore non immagina nemmeno Beppe Grillo e le sue masse d’insultatori, il “vaffanmerkel” e la democrazia digitale, Tangentopoli e Di Pietro, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, la rivoluzione liberale e quella dell’Italia che “cambia verso”. E non conosce nessuno dei mille spasmi con cui il suo paese ha continuato a trascinarsi in avanti. Eppure li presagisce. E’ dell’Italia contemporanea che sembra parlare Brancati, cioè delle sue eterne rivoluzioni, fatte d’energia popolare e strumentalizzazione, vitalità morale e focoso moralismo, con il loro carico d’emergenza, esagerazione, ed esagitazione plebea.

    Il tirannico Luogo Comune di Brancati era l’abominevole sensualità dei nazionalismi, dei militarismi, degli imperialismi “ai quali il popolo soccombe nel modo più penoso”. E anche allora c’era l’esigenza d’essere rivoluzionari, e dunque profondamente, tirannicamente conformisti. Finita tragicamente la rivoluzione fascista, nel 1947 Brancati pensava con terrore al comunismo, ma osservava anche un paese d’opportunisti travestiti da puri e rivoluzionari: “Si sa che in questo momento i costumi degli italiani sono bassi: la sconfitta, la miseria, il cinismo lasciato dalla tirannide, il numero pauroso di anime perdute incarnate in assordanti moralisti”. E poiché la crudele betoniera del tempo non cessa mai di rigirare e rimescolare i suoi poveri ingredienti, ecco ancora oggi la voglia matta di far saltare l’Italia nei cerchi di fuoco, di rivoltare la nazione con la spada (o con un rutto), di purgare (gli altri). Ecco Beppe Grillo, con i suoi Di Battista e Di maio, Taverna e Sarti, sempre le stesse masse spumeggianti, che adesso tuttavia ondeggiano su internet al ritmo cadenzato d’un vaffanculo che si fa programma di governo, febbre cosmica che si dilata, si distende, si espande assolvendo dalle sue pigrizie un popolo capace di trasformare la paura privata in sguaiatezza pubblica.

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    “Questa è una rivoluzione felice. Io sono felice. Prenderemo il 92 per cento. Poi ci pensiamo noi”, dice Grillo. E la rivoluzione che sognano, o di cui vaneggiano, e comunque parlano i grillini, è materia vaga e incerta, difficile da capire e definire, ma certamente non è la dolce trasgressività estetica di un aspirante statista moderato. Dunque chissà, forse sorriderebbe di sufficienza Brancati, se solo sentisse Grillo urlare “adesso andiamo al governo noi. Vinciamo noi. E poi li processiamo tutti perché uno vale uno”. Eccolo, eccolo – direbbe Brancati – ecco il tirannico Luogo Comune, ecco, “la formula che è droga gratissima ai cervelli stanchi”, ecco un altro dei nostri geni della piazza, la versione più scombiccherata, eppure evoluta, del ricorrente sogno italiano di poter fare a meno della politica, ecco la faccia ruspante della rivoluzione italiana numero 2014, ecco l’amatissimo gestore del Luogo Comune, cauto nella vita e poeticamente sguaiato sulle scene.

    Brancati trascorse il resto della vita a pentirsi non d’essere stato fascista, ma d’aver commesso col fascismo “uno dopo l’altro tutti i peccati che richiede un completo tradimento alla cultura e alla civiltà”. E con il suo orecchio finissimo, con la fatica e la contrazione di chi cammina controvento, avvertiva con terrore l’immortale brontolio del conformismo rivoluzionario italiano. Era attratto da De Gasperi “perché non è un eroe, non è un capo, non somiglia a nessuna statua. E’ un uomo perfettamente grigio che non annuncia rivoluzioni”. Poi aggiungeva, dimesso: “Un tipo d’uomo che dispiace agli italiani”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.