Il cardinale espiatorio
Dal colletto sempre un po’ troppo largo, la testa di Sua Eminenza si sollevava verso l’alto, come sorridente testuggine. Così in foto. Così in realtà. Così nel ritratto, dovuto al pennello della pittrice olandese Elisabeth Cyran, oltre che alla generosità della banca Carige, che adesso figura nell’episcopio di Genova. Un po’ l’essere salesiano, un po’ il carattere, il cardinale Tarcisio Bertone pareva sorridere sempre. Ridere, meglio. E persino in curia – dove quasi sempre il ridere prelatizio è più simile a singulto smorzato, fruscio di labbra, battito di ali di passero: hi-hi-hi-hi-hi…
Dal colletto sempre un po’ troppo largo, la testa di Sua Eminenza si sollevava verso l’alto, come sorridente testuggine. Così in foto. Così in realtà. Così nel ritratto, dovuto al pennello della pittrice olandese Elisabeth Cyran, oltre che alla generosità della banca Carige, che adesso figura nell’episcopio di Genova. Un po’ l’essere salesiano, un po’ il carattere, il cardinale Tarcisio Bertone pareva sorridere sempre. Ridere, meglio. E persino in curia – dove quasi sempre il ridere prelatizio è più simile a singulto smorzato, fruscio di labbra, battito di ali di passero: hi-hi-hi-hi-hi… Aveva invece una bella larga risata, il prete cardinale Bertone, del titolo di Santa Maria Ausiliatrice in via Tuscolana di Santa Romana Chiesa, risata che dalla Terza Loggia saliva, s’inerpicava sempre più in alto, poteva giungere fino ai piccioni lassù sul cupolone. Non era un diplomatico, il cardinale, che pure il governo della chiesa guidava – e siccome diplomatico non era, ancor più da uomo e da prete rideva. Sempre l’aria felice, pure quando vezzosamente era fotografato mentre parlava al cellulare. Magari capace di gareggiare, con arguzia che al riso si associa, con la prontezza di Benedetto XIV – il Benedetto di duecentocinquanta anni fa, il Papa Lambertini, prima di quello dei giorni nostri cui ha legato ascesa e rapida discesa, protagonista della ricerca che al giovane Bertone procurò il dottorato in Diritto canonico: un monsignore lo andò a trovare per perorare la sua promozione, facendosi forte della pessima idea di un sonetto dedicato a Sua Santità. “Sull’altar della speranza, son riposti i miei pensieri…”, attaccò quello. Rapidamente concluse il saggio Papa: “… dove stanno, per usanza, due minchion di candelieri!”.
Ecco, così. Un cuor contento, si sarebbe detto, Sua Eminenza – letizia salesiana che quasi pareggiava quella francescana: tanto a voler discutere del terzo o quarto segreto di Fatima come a dibattere del ventinovesimo o trentesimo o trentunesimo scudetto della sua amatissima Juventus. Il trentaduesimo no – ecco, ne avrà certo gioito nei giorni scorsi il porporato tifoso, questo è sicuro, ma la risata da mesi e mesi sembra cosa rara. Nemmeno Pirlo solleva, dove corsi e ricorsi vaticani abbassano. Perché sorte impone e contingenza dispose. Forse – e qui è stato un fiume, l’inchiostro necessario per dar conto di ciò – perché è arrivato un Papa che ancor più rumorosamente di Sua Eminenza ha preso a ridere: e ogni risata sua pareva togliere fiato all’umano sollazzo cardinalizio, e all’altezza della letizia francescana ha portato la finora più ignorata letizia gesuita. Così – stando alle cronache: che hanno sempre, si sa, un invitante filo del fumo di Satana – qualche risata si spense. Persino qualche più smorto sorriso, nelle file secondarie che dietro le ampie spalle bertoniane si assiepavano, tra i minchioni e i candelieri, di colpo appassì sulle labbra. E tra storia e quotidianità, dentro la gloria del mondo che sempre passa, Tarcisio cardinale Bertone – già arcivescovo metropolita di Genova, prima ancora di Vercelli, Abate perpetuo di S. Siro, di S. Maria Immacolata, di S. Gerolamo di Quarto, Legato Transmarino della Sede Apostolica, ecc. ecc. – si è trovato a mutarsi mediaticamente nel perfetto Cardinale Espiatorio.
Che non meno del biblico capro, tra l’incenso e l’incedere delle tonache, nella penombra s’intravede. Le cose nuove, adesso, sul vecchio cardinale si abbattono. L’uomo di chiesa, meglio: l’uomo di stato della chiesa, quello che per anni e anni è stato considerato una sorta di vice Papa, è finito tra le fauci voraci della cronaca, in una quotidiana penosa vallata di Giosafat. Magari non sempre la virtù cardinale della prudenza ha esercitato (del resto, chi può sempre farlo?), così che alla fine di tutto – quando ogni “gloria” mondana tace – è all’inizio di tutto che sembra di tornare, al giovane don Bertone che all’Università Salesiana insegnava il trattato “De Poenitentia”. E la pur faticosa ammissione di certi errori (“Ho dato sempre tutto, ma certamente ho avuto i miei difetti e se dovessi ripensare adesso a certi momenti agirei diversamente”) è solo certificazione di un mondo che si è messo a correre, non misura di una distanza che è possibile colmare. E’ lì, adesso, Sua Eminenza: buono per le vignette del Fatto, le pagine di cronaca, tra altrui intercettazioni e altrui rivelazioni, quel groviglio di affanni che dal torrione di Niccolò V, presidio della scarsa sacralità dello Ior, conduce alle confidenze del capo segreteria ministeriale, milioni di qua (magari a sostegno delle edificanti produzioni cinematografiche di Ettore Bernabei, “Geremia” non meno di “Don Matteo”, l’appropriata “Apocalisse” soprattutto, così da allietare serate nei conventi e pubblico di Rai Uno) e milioni di là – che hanno trascinato a fondo, pare, persino l’ordine salesiano, mentre Sua Eminenza di “truffa” parla, e come truffato ai magistrati si è palesato. La poco accorta gestione della congrega lefebvriana, negli anni passati, con tanto di vescovo negazionista – pure questo, adesso, va sul conto di Bertone, pure quel cupo vescovo Williamson. Per tacere del sommo disastro, quel volare alto e rapace del Corvo dentro i Sacri Palazzi. C’era una volta un Papa ora emerito, Benedetto XVI, che contro tutti e tutto il suo segretario di stato difendeva, pure quando gli altri porporati ne chiedevano la testa, forse pure l’autorevole Ruini, e lo ha raccontato apertamente il cardinale Meisner di Colonia: “Andai dal Papa e gli dissi: ‘Santità, deve far dimettere il cardinale Bertone! E’ lui che ha la responsabilità, come sarebbe nel caso di un governo secolare’. Mi ha guardato e mi ha risposto: ‘Ascoltami bene! Bertone rimane! Basta, basta, basta!’. Dopodiché non ho più affrontato l’argomento”. E c’è adesso un Papa, Francesco, che Benedetto abbraccia, ma che pure nulla fa per nascondere freddezza e distanza dal suo antico segretario di stato – l’indispensabile gli è riservato, nient’altro. Ma l’indispensabile, nel cuore vaticano che di simboli si nutre, meglio di ogni altra cosa è sottolineatura del nulla. Anche se poi, certo, che altro si può dire?, “io sono in sintonia con il Papa, mi sento tranquillo”. Ma intanto scrivono i giornali: “La caduta agli inferi del cardinale…”. Come se fosse Lucifero, il porporato.
Nessuno vuole più Bertone. “Basta, basta, basta!”: l’autorevolissimo scudo che ne difese la sorte e che tutto lo illuminò, pare mutato nel suo esatto opposto, che tutto oscura. Sono lingue diverse che parlano – e quella di Tarcisio Pietro Evasio, da Romano Canavese, dentro le Sacre Mura, che una volta al suo passaggio parevano inchinarsi, risulta adesso lingua morta, incomprensibile geroglifico. Ebbe colpe, forse non tutte sue, il cardinale – ma il vento che soffia oggi nelle vele della chiesa è maestrale che sfida e mette in fuga l’antico suo curiale scirocco. L’anno scorso, sul Corriere della Sera, Alberto Melloni, che pure non deve amarlo molto, misurava le sue colpe e dava conto della gratuità di certe accuse: “Il che spiega ma non giustifica i semplicismi usati oggi contro di lui: non dissimili da quelli parimenti sgradevoli usati al pensionamento di Sodano nel 2007”. Corsi e ricorsi, riecco. Sic transit ecc. ecc. – la sorte molto umana di troppo umani uomini di chiesa, come il batuffolo di stoppa che brucia sopra la canna d’argento, e che il cerimoniere ripete per tre volte, ad ammonimento, a ogni nuovo Pontefice. Sic transit, ecc. ecc. – ognuno e ogni cosa, e ciò che pareva se non opportuno almeno possibile, ora impossibile e inopportuno appare: quasi come la grottesca adunata di figurine sul tetto di un palazzo vaticano, a festeggiare la santificazione di Roncalli e Wojtyla con ostie e mozzarelline del buffet, da satollare anima e corpo e da provocare bruciori di stomaco a Papa Francesco. “Fidem custodire concordiam servare”, dice il motto episcopale di Bertone – e se la fede fu custodita, e certo della fede sua nessuno può mettersi a dubitare, fu la terrena fortuna che prese il bivio sbagliato: cambiò mappa, stradario, orizzonte. Cambiò Papa. E il vice Papa virtuale si ritrovò Cardinale Espiatorio – sbagliò gesti, sbagliò parole. Ma forse, nulla lo stesso sarebbe cambiato: pure con ogni gesto esatto, e ogni parola precisa alla virtù della prudenza associata. E paradosso dei paradossi, mentre un potente salesiano s’inabissa, un altro salesiano s’innalza: Sua Eminenza honduregna Rodríguez Maradiaga, che dal confratello Sua Eminenza Bertone più diverso non potrebbe essere, ed è anzi Maradiaga che persino più del Papa cristianamente azzanna i polpacci del potere curiale che fu.
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Perciò: sorte e fortuna (la fede è altra cosa, si sa). E niente meglio di quel ritratto destinato all’episcopio spiega come si mutò Bertone nel Cardinale Espiatorio. Ritratto che fu, certo a buon ragione – ogni suo predecessore ne aveva avuto uno – voluto dalla Carige e consegnato dal presidente Giovanni Berneschi, giusto ier l’altro mandato ai domiciliari: “E’ come se fosse tutta la città a regalare questo quadro al suo cardinale”. E Bruno Viani, che una biografia dell’arcivescovo ha scritto (“Tarcisio Bertone, il cardinale del sorriso”), con adeguata ispirazione sottolineava che “è bene dire che il cardinale Tarcisio Bertone e la Banca Carige si sono empaticamente trovati in sintonia” – e va da sé, sempre e solo a maggior edificazione delle anime e delle opere di bene, fossero ospedali o fabbriche in crisi, e di questo, solo di questo, “se i muri delle banche potessero parlare”, ah parlassero i muri!, avrebbero da dire. Ché è risaputo: “Per ottenere dei risultati servono impegno finanziario e cuore”, e chissà quale diretta eco con don Bosco: “Con le opere di carità ci chiudiamo le porte dell’inferno e ci apriamo il paradiso”. Seppure adesso è il segretario della Cei, monsignor Galantino, a invocare: “Lasciate che crollino le chiese e i saloni, ma non chiedete soldi ai politici in campagna elettorale”, e il Santo Padre in persona vuole pastori e “non lupi assetati di soldi”, e avverte che san Paolo “non aveva un conto in banca”, quasi evocativo, l’evangelico procedere, della brechtiana fondazione di una banca, crimine supremo, mentre paterne ispirate randellate sui “preti untuosi, sontuosi e presuntuosi” cala. Quel ritratto di S. E. l’Arcivescovo Bertone, che ora illumina qualche salone dell’episcopio, è perfetta rappresentazione dell’uomo: la mani giunte, il sorriso esatto, la croce che s’intuisce preziosa, la mantellina color porpora, la veste d’impeccabile stiratura. Paterno e autorevole – ciò dice il pennello.
Con quel sapore di antico – di antico diventato appena, nel giro di mesi, vecchio inservibile. Ma più del ritratto, a riprova di come l’orizzonte muta e i cuori adesso tumultano, c’è l’intervista a Bertone di un paio di anni fa a Famiglia Cristiana: i giorni dello Ior, del Corvo, del dolore che forse piegò Papa Ratzinger. Bertone offre il suo giudizio, le sue spiegazioni – “non ho alcun segnale di coinvolgimento di cardinali o di lotte fra personalità ecclesiastiche per la conquista di un fantomatico potere”, un po’ poco, un po’ scarso, ma ciò che colpisce è la reazione dei fedeli/lettori, registrata nel sito del settimanale cattolico. Già allora, ruggendo reagivano: “La gerarchia della chiesa che chiede perdono? Non riesco proprio a immaginarla”, “Evidentemente il Cardinale Bertone confonde la ‘Roccia’ (Cristo) con la ‘pietra’ (potere secolare della Chiesa Romana)!”, “Questo ineffabile Bertone, difensore dell’indifendibile e profeta di falsità…”, “La foto che pubblicate è emblematica secondo me: il volto umile ma solare del S. Padre e quello spavaldo del Card. Bertone”, “Che personaggio questo Bertone. Il pudore e la verità non sa dove stiano di casa…”.
All’incrocio dei venti, si è trovato Bertone. E su un territorio scoperto. Le mura leonine come quelle di Gerico, con crepe e varchi. Espiare, allora. Cambiare. Sacrificare. Capro espiatorio – nella Bibbia se ne incontrano a ogni pagina. Cardinale Espiatorio – se ne incontrano, nella storia del Vaticano. E forse non somiglia, ora, la sorte di Bertone a quella di qualche suo illustre potentissimo predecessore, pure esso segretario di stato di papi ormai trapassati o al tramonto: così per Antonelli (fu con Pio IX), così per Rampolla del Tindaro (fu con Leone XIII), così per Merry del Val (fu con Pio X? Il giro di ruota. Il cambio di passo. La mutazione di politica. Un incarico onorifico. Certe volte una nunziatura spersa in Camerun o in Guinea equatoriale. A motivo di fragile consolazione, mesi fa, fu registrato l’aneddoto su don Bosco che il Papa gesuita raccontò al cardinale salesiano, quando il santo allertò i suoi ragazzi che si avvicinavano a un cespuglio di rose sulla presenza di spine acutissime: “Chi guarda dall’esterno vede solo le rose, mentre don Bosco e i discepoli che camminano all’interno sentono le spine”. Fu lode al martirio mediatico di Sua Eminenza, quella del Pontefice? O piuttosto fu annuncio del passaggio tra i rovi che allora solo iniziava? Gli sarà tornato in mente, in questi giorni, a Bertone? Magari mentre riflette sulle sue memorie che ha in animo di scrivere, vagando per il suo vasto appartamento – che quella fu davvero (i settecento metri apparsi sui giornali, i trecentocinquanta dal diretto interessato misurati) la miccia che rese incandescente la griglia su cui Bertone è finito adagiato. Pure il País, che sulla magione di Sua Eminenza molto scrisse (scrisse pure che Bergoglio era “rosso d’ira”, mentre il Monde lo raccontava “furioso”), sottolineò come tutto prima fosse “assoluta normalità”, un principe della chiesa, ancora più se Camerlengo della stessa, convenientemente riparato – prima del Papa a Santa Marta, prima che il suo successore Parolin scegliesse una sorta di umile pertugio. Si è difeso, il Cardinale Espiatorio – scrivendo ai giornali delle sue antiche diocesi, Vercelli e Genova, come a mettersi al riparo dei giorni che furono dalla tristezza di quelli che sono: “L’appartamento spazioso, come è normalmente delle residenze degli antichi palazzi del Vaticano, e doverosamente ristrutturato (a mie spese)…”. Ma due parole errate, dicono, Sua Eminenza usò: la “presunta ristrettezza” degli alloggi di Sua Santità – ove forse voleva sottolineare lo scandalismo mediatico, ma dove a molti sembrò di vedere quasi uno sberleffo clericale rispetto alla lode generale per quella scarsa metratura.
Eppure, ben altra sorte avrebbe potuto avere il cardinale Bertone. “Salesiano verace, appassionato di sport, amante del canto, dotato di una bella voce impostata, Bertone è atipico come figura ecclesiastica. E’ più informale, più libero nel linguaggio, più accessibile rispetto al tipico cardinale italiano” – scrisse e lodò, al momento della sua nomina, il Corriere della Sera. Anni fa sollevò pure l’entusiasmo di Beppe Grillo (ce n’è ancora testimonianza nel blog del comico, con apposita foto), dopo un incontro a discutere, pensa tu, di energie rinnovabili. “Ho incontrato due anni fa a Genova il cardinale Tarcisio Bertone in una udienza privata. Un signore alto, con gli occhi piccoli e scrutatori, modi spicci e determinati da manager di una multinazionale. Una persona attenta, curiosa del futuro.
Parlammo di energie rinnovabili di cui lui era entusiasta. Mi fece un’ottima impressione. Era da poco stato nominato segretario di stato. Non era ancora un candidato Papa. Mi disse della sua volontà di usare in Vaticano i pannelli solari per il riscaldamento, cosa che in seguito fece. Un prete tosto, duro e affilato come un rasoio. Fui persino tentato di chiedergli consigli per i miei investimenti finanziari” – di solito, per un genovese, il massimo della fiducia. Empatia che Sua Eminenza corrispondeva, perlomeno sul rinnovamento energetico: “Beppe Grillo, nel suo piccolo, è un esempio che potremmo seguire”. Ha fatto il telecronista di certe partite, il cardinale. Ha lodato la birra fresca. Ha sperato di allestire in Vaticano persino “una squadra di calcio di grandissimo valore in modo da essere all’altezza di Roma, Inter, Genoa e Sampdoria”, l’occhio attento e calcisticamente esperto verso certi allievi sudamericani dei seminari, “se prendessimo tutti gli studenti brasiliani delle nostre università pontificie potremmo fare una magnifica squadra”. Lodò Benigni che recitava il paradiso dantesco: “Vergine madre figlia del tuo Figlio…”. Ha scritto per Tuttosport e Gazzetta dello Sport. Ha cantato “Io vagabondo” dei Nomadi. Ha tenuto esposto nella Sala dei Trattati il pallone con cui l’Italia vinse i mondiali. “La mia juventinità…”, ogni tanto ricorda. Ché, all’oratorio di Valdocco di sicuro fu reso edotto, “il demonio ha paura della gente allegra”. Sic transit, ecc. ecc.
Ora è il Cardinale Espiatorio. Tarcisio – come il giovinetto martire, lì il pensiero sarà corso più volte. Ma pure questo Sua Eminenza Tarcisio Bertone, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, doveva saperlo. “Guai a chi lavora aspettando le lodi del mondo: il mondo è cattivo pagatore e paga sempre con l’ingratitudine” – così avvertiva don Bosco. Il salesiano lo sapeva da sempre. Il cardinale lo ha di sicuro appreso.
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