Populista a chi?

Angiolo Bandinelli

Marco Valerio Lo Prete, sul Foglio dello scorso 15 maggio, introducendo il ragionamento del politologo inglese Matthew Flinders, annota che “l’avanzata dei populisti in occasione delle elezioni europee del 25 maggio è un assunto praticamente indiscutibile in ogni talk-show o inchiesta giornalistica che si rispetti”. E’ così, consentiamo. Ma con qualche chiosa, forse non solo nominalistica.

    Marco Valerio Lo Prete, sul Foglio dello scorso 15 maggio, introducendo il ragionamento del politologo inglese Matthew Flinders, annota che “l’avanzata dei populisti in occasione delle elezioni europee del 25 maggio è un assunto praticamente indiscutibile in ogni talk-show o inchiesta giornalistica che si rispetti”. E’ così, consentiamo. Ma con qualche chiosa, forse non solo nominalistica.

    Il “Dizionario di Politica” di Norberto Bobbio e Nicola Matteucci definisce il populismo come un movimento politico per il quale “fonte precipua d’ispirazione e termine costante di riferimento è il popolo considerato come aggregato sociale omogeneo e come depositario esclusivo di valori positivi, specifici e permanenti”. Quel prestigioso testo mostra diffidenza nei riguardi del fenomeno perché, osserva, il populismo “è più distante dal socialismo che dal fascismo”. La puntualizzazione mi pare almeno sospetta, infiltrata di ideologia novecentesca. Per un minimo di prudenza, sarà bene ricordare che certi moti, certe ondate di furore populistico verificatisi in varie occasioni in Europa o in America hanno avuto un qualche referente anche in positivo. Negli Stati Uniti – forse il paese in cui il tasso di sfiducia nella “politica politicante” è più diffuso, alto e persistente – vi sono partiti, forze politiche dichiaratamente “populiste” ma perfettamente adeguate a esprimere politiche di governo complesse, coerenti, adeguate e condivisibili. E qui, a casa nostra, Silvio Berlusconi riuscì a canalizzare positivamente gran parte di una protesta sociale che già era vistosamente “anticasta” e populista (lui si
    presentò, appunto, come l’antipolitico).

    Il populismo, insomma, può sufficientemente essere definito come un “modo” di rapportarsi delle masse popolari (o della “massa”) nei confronti della (o delle) élite e delle istituzioni: il populista si appella direttamente al popolo, o all’opinione pubblica (o reciprocamente) scavalcando la mediazione partitica, parlamentare, istituzionale. Non però, in partenza o nelle sue conseguenze, un fenomeno fatalmente negativo: è o può essere una forma alternativa di narrazione politica. Oggi, forse, tale forma anomala ma non negativa di “bipolarismo” è venuta a mancare, sembra domini un populismo senza referenti o ancoraggi. Ma qui occorre fare un piccolo passo indietro.
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    Nell’autunno del 1993, Radio Radicale offrì ai suoi ascoltatori un programma molto anomalo, anzi eccezionale, di grande interesse sotto molti punti di vista: quello politico/sociologico come quello culturale/antropologico. Fu noto come “Radio parolaccia”: cominciato per caso, venne gestito da quella emittente con consumata perizia, così da farne un caso degno di attenzione e di studi specifici. Purtroppo, come rimarcarono i suoi dirigenti, non ci fu un “moralista”, un “sociologo”, un “linguista” che si diede la briga di analizzarlo a fondo. Di che si trattava? I microfoni, aperti come sempre al dialogo degli ascoltatori di programmi essenzialmente politici, vennero inondati da una profluvie di parolacce, di insulti e – come denunciò il Garante per la radiodiffusione e l’editoria Giuseppe Santaniello nella contestazione formale a Radio Radicale “per violazione della Legge Mammì” – di “bestemmie scurrili e frasi offensive per la dignità delle persone”, eccetera. L’emittente mise in azione trenta segreterie telefoniche che raccolsero centinaia di migliaia di telefonate contenenti “il più sconvolgente turpiloquio radiofonico che si sia mai dato sentire”, disse un giornalista intervistando Marco Pannella. Radio Radicale quadruplicò gli ascolti.

    Un anno prima era scoppiata Tangentopoli, ovvio ipotizzare che l’ondata di rabbia impotente e furiosa che le telefonate esprimevano si sarebbe trasformata in qualcosa di direttamente politico. Nel gennaio 1994 Berlusconi – lo abbiamo sopra ricordato – “scendeva in campo”, certamente per raccogliere tutto o in parte lo scontento montante, il suo tentativo fallì – possiamo oggi dirlo persino con qualche amarezza – per cause molteplici. Come si fa a non vedere che l’attuale ondata “anticasta” e “anti Europa” era già tutta in quell’episodio, che quelle telefonate alla radio pannelliana precorrevano i Twitter e i blog di cui si nutre il nostro grillismo o anche le vampate iconoclaste di Occupy o di Wikileaks?

    Forse occorre essere più prudenti: non sono sicuro che l’ondata di consensi per i “partiti anti establishment euroscettici e arrabbiati” possa esser definita semplicemente – e con toni negativi – una ondata “populista”. Mi pare semplificatorio. Indubbiamente i moventi che spingono “i cittadini europei” a “mandare un segnale” ai partiti dell’“establishment” hanno tutto l’aspetto di essere “l’ultimo modo rimasto all’elettore per fare capire ai partiti politici che la loro ‘offerta’ è diventata indigeribile”. Ma l’ondata di sfiducia dilaga ovunque, l’Italia diventa un fenomeno tra gli altri e insieme agli altri va compreso. Forse si tratta di un fenomeno di più vasta portata: come se ci trovassimo dinanzi a una crisi generalizzata di fiducia nello stato e nelle sue aspettative. Le aspettative, magari, di quello stato di diritto che è la necessaria forma storica delle aspirazioni e dei contenuti di ogni democrazia, senza le quali, appunto, la democrazia non c’è o non c’è più. E infatti, accanto alle definizioni e constatazioni circa il “populismo” rampante si insinuano, un po’ isolate, previsioni di una vera e propria “crisi della e delle democrazie” che investe quanto meno l’occidente politico, da una parte e l’altra dell’Atlantico, diciamo.

    Stando al politologo inglese Matthew Flinders, la crisi populista attuale è responsabilità non delle élite o di eletti inadeguati al compito, quanto piuttosto degli elettori, di un pubblico la cui “aspettative e domande nei confronti del sistema politico sono divenute talmente dirette, intense e irrealistiche che il ‘fallimento’ della democrazia è praticamente assicurato”. Fallimento della democrazia – ci permettiamo di chiedere – o di alcune forme della democrazia, fattesi obsolete? Certamente, l’accavallarsi delle “aspettative e domande” non dimostra consapevolezza delle responsabilità e dei limiti della politica, ma il politico non può buttarle tutte nel cestino con aria infastidita e l’accusa pronta e bruciante – “E’ solo populismo” – o dirottarle fornendo risposte fasulle, ingannatrici, semplicemente consolatorie. La “democrazia del monitoraggio”, cui Flinders attribuisce la responsabilità forse maggiore in questo dilatarsi di “aspettative e domande”, è un fattore reversibile, da controllare e manipolare a piacimento? Qualcuno ha mai pensato di proibire il telefono o la radio, che pure dilatarono enormemente i confini dell’informazione e certo furono strumento, se non causa, di un analogo dilatarsi di domande e di una quantità di eventi storici anche di primo piano? Che sia invece “razionale” proprio l’esplosione di sfiducia dei vary “Occupy”, di fronte ad una subdola irrazionalità “istituzionale” non ancora percepita come tale – o magari volutamente difesa – dalle dominanti élite politiche? Il momento che stiamo vivendo richiede semplici aggiustamenti o invece reclama rivolgimenti epocali?

    Infine, una osservazione dall’apparenza paradossale: certi risentimenti antieuropei non potrebbero essere, in definitiva, i più attivi (anche se inconsapevoli) promotori di una – o della – auspicabile svolta istituzionale europea? Lo ha notato Ilvo Diamanti sulla Repubblica. A noi pare evidente che nessuna risposta più o meno riformatrice che si presenti come circoscritta nell’angusto ambito dei singoli e diversi stati nazionali accolti nella abborracciata costruzione continentale sarebbe valida. Lo sappiamo in molti, anche se nessuno lo grida o ne fa una bandiera politica: dal tema delle migrazioni etniche a quelli dell’economia o dello stato di diritto, giù giù fino al capitolo (apparentemente secondario) della cultura, nessun problema è risolvibile nell’ambito nazionale. Inconsapevolmente, questi antieuropeisti esigono esattamente il contrario di quello che sembra mobilitarli. La protesta autieuropea dice con chiarezza che il problema da affrontare è non la scomparsa dell’Europa ma l’assenza di Europa. Il dramma della sua assenza politica, che lascia senza controllo e guida la “zona grigia tecnocratica” contro la quale si scaricano “le tensioni con l’opinione pubblica”, per citare ancora Flinders.
    Come dire: un Nuovo Ordine Mondiale non è sicuramente auspicabile, nuovi ordini mondiali sono, forse, necessari.

    L’intervista al politologo inglese Matthew Flinders, intitolata “Populismo espiatorio”, è sul sito web del Foglio a questo indirizzo: http://www.ilfoglio.it/soloqui/23335. Qui invece l’intervento di Carmelo Palma sullo stesso tema: www.ilfoglio.it/soloqui/23390