Figlie e meraviglie
Il giorno che suo padre torna a casa e le dice, con gli occhi accesi di orgoglio e di attesa: “C’è un regalo bellissimo”, lei comprende la grandezza del divario. Tra il mondo di suo padre e il suo, tra l’idea che suo padre ha di lei, Gelsomina, la primogenita, e quella che lei, adolescente, sta costruendo di sé. Il cammello in giardino, legato a un corda, il regalo bellissimo, la ricompensa per essere una figlia brava e forte, la gioia nello sguardo del padre e la delusione, ma piena di tenerezza, in quello della figlia.
Il giorno che suo padre torna a casa e le dice, con gli occhi accesi di orgoglio e di attesa: “C’è un regalo bellissimo”, lei comprende la grandezza del divario. Tra il mondo di suo padre e il suo, tra l’idea che suo padre ha di lei, Gelsomina, la primogenita, e quella che lei, adolescente, sta costruendo di sé. Il cammello in giardino, legato a un corda, il regalo bellissimo, la ricompensa per essere una figlia brava e forte, la gioia nello sguardo del padre e la delusione, ma piena di tenerezza, in quello della figlia. Un passo oltre la rabbia. E’ lui il bambino, adesso, ed è lei che deve proteggerlo. Nel film di Alice Rohrwacher che ha vinto il Grand Prix a Cannes, “Le meraviglie”, una ragazzina cresce e la sua idea di felicità non è più quella di un cammello che bramisce in giardino, nella campagna che i genitori hanno scelto come mondo, nella libertà che è anche la prigione da cui scappare, o almeno in cui fare entrare la realtà: le contraddizioni (che quando sono nostre non ci appaiono mai tali), le cose nuove, le merendine e la televisione, la canzone di Ambra a “Non è la Rai”, che è il momento magico delle sorelle grandi, con la mano sul cuore, gli occhi che brillano, e se il padre le vedesse adesso forse direbbe “che stronzate”, borbotterebbe qualcosa in tedesco, qualcosa in italiano, e direbbe che è ora di lavorare, il miele va smielato, il secchio va cambiato e non deve cadere nemmeno una goccia. E la sua vita, quella che ha scelto per tutti quanti, lontano dai soldi, dalla città, dai diserbanti che avvelenano le api, dalle cose un po’ più facili e leggere che quattro bambine potrebbero desiderare. E’, qualunque esso sia, il mondo dei genitori che provoca nei figli la voglia di costruirsene un altro, diverso, magari opposto, lontano. In base a quel mondo, che a un certo punto non può non sembrarci sbagliato, prendiamo le nuove misure del nostro.
“Odiavo gran parte delle cose che diceva, soprattutto se le pronunciava con quella voce vibrante e infervorata dalla convinzione”, scrive Alice Munro di sua madre, nell’ultima raccolta di racconti, “Uscirne vivi”, pubblicata da Einaudi. Si prendono le misure del nuovo mondo passando anche attaverso il fastidio per quello vecchio, per la sacca da golf che la madre teneva in un angolo della sala da pranzo, senza avere mai giocato a golf, ma che spiega la speranza per una vita diversa, in cui loro potessero trasformarsi in gente capace di concedersi svaghi, come il golf, le cene eleganti, con persone che non li ritenessero socialmente inferiori. Alice Munro ragazzina prova fastidio per le speranze deluse di sua madre, per il tono di voce troppo alto, per le parole fuori luogo come uno squillo di tromba, per i boccoli che si ostina ad acconciarle ogni mattina (e che lei disfa già nel tragitto verso la scuola). Per non avercela fatta, o non del tutto. Succede, durante la costruzione di sé, di sentirsi come un cammello in giardino, profughi dentro la propria vita, senza riconoscere nessuno. Si cercano alleati, anche immaginari, e non ci si può accorgere che quel senso di estraneità, anche dolorosa, è essenziale per uscire dal recinto di buone intenzioni, o di egoismo, o di ingenuità, e diventare tutti interi. Scappare fa bene. Anche per provare, finalmente, tenerezza per chi ha solo cercato di fare la cosa giusta, e magari non ci è riuscito. La cosa giusta nel film di Alice Rohrwacher è un mondo il più possibile lontano dalla modernità, con le mani dentro le arnie delle api, e il letto trascinato fuori dalla casa su cui dormire tutti insieme. Eccezionale, faticosissimo, non sempre lieve, non sempre comprensivo. Utile per arrivare, per contrarietà, a capire che la misura esatta non esiste, e soprattutto cambia sempre. Passiamo dalla rabbia alla tenerezza, dalla ribellione alla cura, dalla fuga al ritorno, e quando è troppo tardi per mettere uno accanto all’altro i nostri mondi, per aprire la porticina tra il recinto della nostra famiglia e il nostro e tenerci dentro anche i cammelli, la tivù, le cose proibite, le cose mai dette e mai notate, passiamo il resto del tempo a cercare di ricostruire, superare. “Non tornai a casa per la sua ultima malattia e nemmeno per il suo funerale”, scrive Alice Munro di sua madre. Aveva due bambine piccole, il viaggio era costoso, suo marito disprezzava le formalità. Ma non era colpa del marito: anche a lei sembrava una formalità. Il funerale di sua madre, la donna che aveva occupato ogni angolo della sua vita per molto tempo, passi, voce, odore di borotalco, sonnellino del pomeriggio, capelli raccolti, abiti speranzosi, balli perduti, appendicite, non era più così centrale, così inevitabile. Tutto il posto era già riempito da qualcos’altro, e si trova sempre una giustificazione, poi, per i nostri atti mancati. “Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo”. Ci perdoniamo. Fatichiamo più a perdonare gli altri, i cammelli in giardino, la distrazione, la tivù maledetta che avevamo escluso dalla nostra vita, il mondo che non possiamo tenere fuori ancora a lungo.
[**Video_box_2**]C’è, in ogni famiglia normalmente imperfetta, disfunzionale, felice e infelice insieme, uguale solo a se stessa, la presunzione inconsapevole di poter sostituire il mondo. Di essere, lei stessa, mondo. Con le regole, i rifiuti, la diffidenza, le idee sugli altri. Nel film di Alice Rohrwacher la zia hippy accusa il padre di voler costruire un muro attorno alle sue figlie, per farle vivere come lui, orso arrabbiato con i cacciatori, arrabbiato con il turismo, arrabbiato con la tivù, arrabbiato con le regole a cui deve uniformare la sua azienda famigliare, arrabbiato anche con una lingua che non conosce fino in fondo.
Forse lui vorrebbe anche che le sue figlie, soprattutto la primogenita, fossero arrabbiate quanto lui, e che fossero anche un po’ più maschi, un po’ più soldati, un po’ più innamorate di quel loro proteggere le arnie con i corpi durante i temporali. Anche il padre di Natalia Ginzburg in “Lessico famigliare” avrebbe voluto più entusiasmo per quelle passeggiate in montagna la mattina all’alba con scarpe chiodate, dure e grosse, calzettoni di lana, passamontagna, occhiali da ghiacciaio col sole che batteva a picco sulla fronte e il divieto di fermarsi negli chalet a mangiare la panna perché era “roba da negri”, così come roba da negri in montagna erano le scarpe leggere da tennis, i cappucci per la pioggia, le sciarpette al collo. E i figli erano “dei salami”, “dei poltroni” e “dei negri”, ed è attraverso queste differenze, questa impossibilità di specchiarsi l’uno nell’altro che il mondo entra dentro le case e le scuote, e dopo molti anni ci si sorprenderà a dire “salame” esattamente a quel modo, e a provare nostalgia per le scarpe con i chiodi e il passamontagna di lana, per la faccia rossa e gonfia spalmata di una crema gialla. A implorare: “Babbo, posso fare qualcosa?”, come nel film “Le meraviglie”, perché le cose che non ci piace fare servono ad avere voglia di scappare ma anche a riconoscerci, a sentire che lì dentro esistiamo, anche quando non siamo felici, anche quando non ci sentiamo normali. Quando mia figlia, otto anni, dice che le piace molto leggere i libri e che ha una notizia bellissima da darmi, ha finito “Pollyanna”, e intanto freme per gettarsi sui videogiochi, so che ha letto “Pollyanna” solo per farmi contenta, tre pagine alla volta, e forse non leggerà mai più un libro in tutta la vita, e chiuderà i libri nei bauli in soffitta, ma intanto “Pollyanna” resterà il nostro libro, il suo primo vero libro, quello che io credevo, con ostinazione infantile, che le avrebbe aperto il mondo dei libri (invece ha cominciato “Yolanda, la figlia del corsaro nero” e ha deciso che è molto brutto, ma io ho già pronto “Il giardino segreto” di Frances Burnett, come il padre di Gelsomina aveva pronto il cammello, e se non basterà “Il giardino segreto” non importa, “Pattini d’argento” è l’asso nella manica). Questa ricerca continua di un filo che ci tenga stretti, a volte troppo stretti, dentro gli sbagli di cui non ci accorgiamo o che ci piacciono troppo, questa impossibilità di fare le cose giuste anche quando sappiamo che sono sbagliate è come il titolo di un romanzo molto bello, uscito dieci anni fa, “Un complicato atto d’amore”, di Miriam Toews (Adelphi): la storia di una ragazzina di sedici anni che vive sprofondata nelle praterie canadesi, ma su una strada statale, in una comunità religiosa mennonita, talmente piena di regole deprimenti che si rischia di morire soffocati di infelicità inespressa, di struggimento per peccati mai commessi. O di scomunica, quella cosa dopo cui si diventa un fantasma, e nessuno può più parlarti, nemmeno i genitori, il marito, i fratelli. Però la sua famiglia è felice, almeno per un po’, fino a che resiste tutta intera, e ascolta musica di nascosto, e a lei da piccola piace addormentarsi nel suo letto respirando l’odore dell’erba appena tagliata, ascoltando le voci della sorella grande e della madre che ridono in cucina, e i rumori del padre che armeggia in giardino. Ci sono momenti perfetti, prima che le cose diventino troppo complicate.
Prima che il mondo entri dalle finestre mentre qualcuno prova a chiuderlo fuori dalla porta, e tutto cominci a sbattere e a fare rumore, e lasciare lo scompiglio e andare da un’altra parte (“Pur di non vivere qui andrei ai confini della terra. Ma preferirei New York”) sembra l’unica possibilità. Andare in un posto senza mennoniti, preghiere, polli a cui tirare il collo, divieto di trucco e di ballo, gente che ti guarda negli occhi per cercare Satana, coperte da confezionare per i missionari. E’ naturale voler fuggire da una comunità così assurda, da regole impossibili, però se quello è il posto dove si è stati felici insieme è più complicato. Ma eravamo felici o facevamo solo finta? O siamo stati felici fino a quando ci siamo accorti che esistono altri mondi e abbiamo cominciato a desiderarli, a non sopportare più il nostro? La madre della sedicenne di questo romanzo sembrava felice, ma in lei c’era come un fremito sotterraneo, qualcosa di feroce, di imprevedibile, “come una sega in una torta di compleanno”.
Andava verso la vita a braccia aperte e rendeva l’esistenza di tutti, dentro quel mondo ossessivo e silenzioso, più allegra e impudica. Una volta in chiesa il prete faceva delle domande e i fedeli dovevano rispondere sempre in coro “Gesù Cristo”, ma la figlia maggiore, Tash, rispondeva “John Lennon” un istante prima che il coro dicesse Gesù Cristo e la madre sembrava divertirsi anche mentre fingeva di essere arrabbiata, felice quando vedeva che le figlie lasciavano entrare il mondo e John Lennon. Allora in quel posto assurdo, “la sottosetta più sfigata a cui si possa appartenere a sedici anni” (è il luogo reale, esistente, in cui Miriam Toews ha vissuto fino a diciott’anni) c’era tutto quello che serviva per essere contenti: una madre in camicia da notte sexy che leggeva gialli, voleva imparare a guidare la motocicletta, sorrideva e metteva in tavola scatolette di carne e in chiesa una volta finì nei guai per avere infilato un paio di romanzi d’amore nelle casse con le coperte per il Nicaragua, un marito pazzo di lei, mezzo dentro e mezzo fuori dal mondo, due figlie che crescevano e scoprivano l’impossibilità di vivere dentro un recinto. Qualunque sia il recinto, anche il più innocuo, comodo, foderato di buone intenzioni, libertario, gentile, vorremo distruggerlo. Farlo innervosire, contestarlo, riderne, dargli la colpa di tutto. Scappare. Come Alice Munro, come Miriam Toews, come i personaggi di “Un complicato atto d’amore”. Scappano tutti, uno dopo l’altro, quando capiscono che non possono più restare insieme senza distruggersi, e allora non ha senso. La sorella maggiore con la scritta “Jesus?” sulla maglietta, la madre con il fremito sotterraneo e quello straziante, ostinato senso di speranza per il futuro. Restano, per un po’, un padre confuso e una ragazzina arrabbiata. Ma adesso che anche lei è libera di andarsene, ridere di un posto strambo e crudele, andare finalmente a New York, o almeno a Montréal, mandare al diavolo quella gente triste, con addosso orrendi abiti di poliestere, che passa il tempo a provare contrizione, adesso arriva la tenerezza. Per il padre che si sente perduto e sta seduto su una sdraio a contemplare la strada. Per quello che sono stati, quando sono stati insieme, cerchio d’acciaio con i dischi nascosti nel seminterrato, con tutte le minuscole trasgressioni che trasformano una casa in un luogo avventuroso, in un momento eccezionale anche dentro i recinti. La tenerezza può arrivare troppo tempo dopo, sotto forma di ricordi, e anche di gratitudine: se siamo scappati, è merito del recinto che ci ha dato la forza, per contrarietà, di cercare qualcos’altro, di avere lo sguardo di chi ha desiderato tanto arrivare lì. Oppure la tenerezza si può provare subito, sempre, guardando con amore il mondo che ci sta stretto: Gelsomina, nella campagna umbra, prova tenerezza per quel padre che la vorrebbe più uomo e sempre bambina, bambina come lui, come lui desiderosa di un cammello. E lei vede il suo dolore, l’impossibilità di cambiare, di ospitare il mondo, di capire i desideri delle sue figlie, e fa un passo in più. E’ un complicato atto d’amore, quello di perdonarsi. Di accettare le contraddizioni anche quando non sono le nostre. Diciamo che non ce le perdoneremo mai. Però poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.
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