Speciale online 15:30

Etihad ha bisogno dell'Italia per superare paure e costrizioni europee

Alberto Brambilla

Dell’accordo tra Alitalia e Etihad sappiamo tutto e non sappiamo nulla. Oggi il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, prova a mettere un punto fermo sugli esuberi richiesti dal vettore degli Emirati arabi uniti in cambio del salvataggio dell’ex compagnia di bandiera: saranno 2.500, dice Poletti che ha visto la lettera con le richieste degli emiratini (non 2.600 o 2.800 come da indiscrezioni). Bene, un dato credibile c’è, nella totale assenza di chiarezza sulle cifre, ad esempio, sui conti di Alitalia (il bilancio 2013 e quello dell’ultimo trimestre non sono stati approvati).

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    Dell’accordo tra Alitalia e Etihad sappiamo tutto e non sappiamo nulla. Oggi il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, prova a mettere un punto fermo sugli esuberi richiesti dal vettore degli Emirati arabi uniti in cambio del salvataggio dell’ex compagnia di bandiera: saranno 2.500, dice Poletti che ha visto la lettera con le richieste degli emiratini (non 2.600 o 2.800 come da indiscrezioni). Bene, un dato credibile c’è, nella totale assenza di chiarezza sulle cifre, ad esempio, sui conti di Alitalia (il bilancio 2013 e quello dell’ultimo trimestre non sono stati approvati). Al netto di ciò, anche per districarsi tra i numeri ballerini soffiati da fonti sindacali, aziendali e anche governative, c’è un dato politico interessante da sottolineare. Certo, Alitalia ha bisogno di Etihad per non fallire. Ma è vero anche che Etihad ha bisogno dell’Italia per completare una strategia di lungo termine che non riguarda solo gli investimenti nell’aeroporto di Fiumicino o il riuscire ad aumentare il traffico sul suo hub di Abu Dhabi. Finanza e operatività c’entrano nulla. Gli emirati hanno bisogno di Roma per accreditarsi presso le istituzioni europee e sperare di convincere alcuni paesi membri – Germania, Gran Bretagna e pure la Francia – ad ammorbidire, col tempo, la loro posizione intransigente sulle partnership con i concorrenti mediorientali – visti come una “minaccia” devastante – e, in prospettiva, rivedere quelle costrizioni legali che di fatto vietano a una compagnia extraeuropea di controllarne una continentale, a prescindere dalle quote azionarie possedute ma solo in forza della capacità di influenzarne la governance. Il ragionamento è semplice. Lo fanno gli editorialisti di Reuters Breaking Views, rubrica ospitata quotidianamente sull’International New York Times: “La principale contropartita di un patto con Alitalia è politica. Salvando un’icona nazionale, Etihad acquista ‘capitale politico’ a Roma. L’ascesa delle compagnie del Golfo è vista come una minaccia da quelle europee che stanno facendo pressione lobbistica per un intervento istituzionale. Fare squadra con Alitalia vuol dire che Etihad può sperare di avere dalla sua parte il terzo più importante paese membro dell’Eurozona. Questo vale il rischio”. Il rischio è [**Video_box_2**]quello cui Etihad va incontro consapevolmente, come fa spesso: la compagnia guidata da James Hogan, foraggiata con i petrodollari dell’emirato, che ne è il proprietario di fatto, continua a guadagnare passeggeri ed è famosa per comprare dei “bidoni” europei (copyright del Times) come ad esempio la tedesca Air Berlin (comprata nel 2011, ristrutturata, ricapitalizzata, dà più dolori che soddisfazioni). Alitalia non fa eccezione: avrà bisogno di capitali, mezzi, investimenti. Il gioco vale la candela perché il gioco, appunto, è molto più ampio. Cambiare le regole internazionali è difficile – “mooolto improbabile”, dicono in coro gli analisti di settore – e nel caso serviranno anni. Resta il fatto che di fronte alla volontà dei vettori di aggregarsi, anche in modi poco ortodossi – vedi Alitalia-Etihad ma anche la più grande low cost Asiatica AirAsia che cerca di riunire in un solo marchio delle sussidiarie – le regole globali, forgiate rispondendo anche a vari protezionismi nazionali, sono messe in discussione dalla necessità di ridurre i costi e andare a caccia di profitti, seppur magri. S’inserisce in questo sommovimento anche la dichiarazione (un po’ sibillina) del ceo della Iata, Tony Tyler, che ieri ha auspicato l’aumento delle low cost iscritte alla International Air Transport Association che al momento riunisce 200 vettori globali: “Io vedo solo delle compagnie aeree”, ha detto lunedì durante una conferenza a Doha, come a dire che dal suo punto di vista non ci sono pregiudizi di sorta di fronte ai mutamenti del mercato.

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    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.