Prometeo a Viale Mazzini

Se Renzi possa cambiare la Rai prima che in Rai si travestano tutti da Renzi

Salvatore Merlo

Maurizio Mannoni lo dice con un accento di neghittosità, con quel distacco ironico che gli uomini di sinistra hanno forse soltanto a Roma: “Renzi vuole cambiare la Rai? Bene. Io sono contrario allo sciopero”, dice il conduttore del Tg3. “Ma il rischio è che lui voglia cambiare un’azienda che intanto all’improvviso, inaspettatamente, con flessuosità serpigna, assume le sue stesse fattezze, cioè diventa renziana, più di Renzi, una specie di mostro che comincia ad assomigliare sempre più al presidente del Consiglio, una ‘Cosa’ che gli diventa persino complice.

    Maurizio Mannoni lo dice con un accento di neghittosità, con quel distacco ironico che gli uomini di sinistra hanno forse soltanto a Roma: “Renzi vuole cambiare la Rai? Bene. Io sono contrario allo sciopero”, dice il conduttore del Tg3. “Ma il rischio è che lui voglia cambiare un’azienda che intanto all’improvviso, inaspettatamente, con flessuosità serpigna, assume le sue stesse fattezze, cioè diventa renziana, più di Renzi, una specie di mostro che comincia ad assomigliare sempre più al presidente del Consiglio, una ‘Cosa’ che gli diventa persino complice. E poi a quel punto Renzi che fa? Abbatte la sua immagine riflessa? Diventa tutto complicatissimo”. E insomma la Rai che si prepara allo sciopero dell’11 giugno contro la spending review imposta dal presidente ragazzino è come la sabbia che si infila dovunque, è come l’argilla che assume tutte le forme amate: è materia proteiforme. “La Rai è corruttibile nell’anima ma non nello stile”, dice Carlo Freccero. E dai piani alti, anzi altissimi di Viale Mazzini, già s’odono voci flautate e liturgiche, parole di melassa: quasi il canto furbissimo d’un mondo incapace di contrizioni e sfide. “Somos todos renzianos”, dicono, lì dove da sempre ci si adegua alle spire contraddittorie della vita politica con un soffio di svolazzante classicità, cioè nel consiglio d’amministrazione, fra i direttori di rete, tutt’intorno alle stanze del sempre più solo Luigi Gubitosi, il periclitante direttore generale. Eppure “forse stavolta è diverso dal passato”, dice Franco Simonetti, caporedattore di “Linea notte”, decano dei giornalisti di Rai3. E Simonetti spiega, con amorevole sarcasmo nei confronti della sua azienda, d’un mondo che è il suo ma che pure non lo è, che “i dirigenti potranno anche diventare renziani. Ma la novità è che Renzi se ne frega di loro. Non gliene importa niente. Dunque spero che cambi qualcosa. Lo sciopero che vorrebbe fare l’Usigrai è sbagliato, il servizio pubblico non è un feticcio. La Rai va salvata. Anche con i metodi bruschi di Renzi”. Ed ecco Giancarlo Leone, direttore di Rai1: “Questo è uno di quei momenti storici per l’azienda dove un vincolo legislativo può diventare una straordinaria opportunità per ripensare se stessi”. E insomma Renzi, alla Rai, è già una presenza emotiva e ingombrante.

    [**Video_box_2**]Il presidente ragazzino è il Prometeo di Viale Mazzini, scompagina solidarietà sindacali e corporative, agita gli eterni sogni trasformistici dell’intendenza, del mandarinato Rai, di quegli uomini sempre presenti e reattivi a tutte le manifestazioni dello spirito politico: pieni di buona volontà, saltellano dal salotto di Berlusconi a quello di Prodi, da quello di D’Alema a quello di Renzi, come tordi sulle siepi. “Ma davvero a me stavolta sembra una cosa diversa”, dice Massimo Giletti, un po’ osservatore della politica, un po’ conduttore di “Domenica In”. Spiega: “Renzi è uno di sinistra che va contro i sindacati, anche in Rai. Da un lato Renzi porta la sua guerra ai poteri parrucconi e sindacali dentro la tivù di stato. E questo è l’aspetto culturale della sua novità. Dall’altro, con un fare un po’ bullesco ma efficace, Renzi fa capire di voler mettere a posto gli sprechi interni all’azienda Rai. E questa è invece la sua battaglia interna. E magari ci riuscisse davvero. Io per esempio non sciopererò mai. Questo sciopero è conservatore”. E così Giletti fa anche qualche esempio: “A Sassari abbiamo una sede di 900 metri quadrati per soli sette dipendenti. Abbiamo una ridondante doppia sede di produzione in Sicilia e in Calabria. Abbiamo 13 mila dipendenti, ma non produciamo nulla in casa. Compriamo tutti i format televisivi da fuori. Qui in Rai si alternano sprechi a immobilismo. Qualcosa ora deve succedere”. Ma è possibile riformare l’immutabile eternità di foresta che domina la Rai?

    Dirigenti e impiegati, una vita in Viale Mazzini, infilano il pass nella fessura e si tuffano nel palazzo come in uno specchio. E loro amano e disprezzano questo edificio dove è impossibile aprire le finestre perché il costruttore non ha previsto la boccata d’aria. E dove non è più possibile spostare le pareti e modificare gli interni come vorrebbe l’originaria struttura “modulare” perché si è scoperto che tra un piano e l’altro c’è l’amianto. Nessuno dunque può abolire una stanza o spostare una parete così come nessuno può cambiare un direttore. Tutto è fermo. Immobile. “Ma chissà”, sospira Simonetti, “io ci spero. Quindi non sciopero”. E Mannoni: “Le sacche di spreco e di cattiva gestione ci sono”, dice. “Lo sanno tutti. E’ per questo che lo sciopero grida vendetta”. Ma poi riacquista il suo scetticismo sornione: “La Rai per Renzi è come il Senato? Da rivoltare come un calzino? Boh. Può darsi. Ma è da quando sono in Rai, trent’anni, che aspettiamo Prometeo, il titano che ci liberi dal giogo della lottizzazione”. E ancora nun s’è visto.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.