Vita di Tito

Edoardo Rialti

Per l’occhio umano vedere non è un atto imparziale, una comprensione istantanea del tutto. Fanciulla, cavallo, mosca, vi si imprimono con una violenza che precede ogni riflessione. Così è anche per i sogni e le fantasie più segrete. Perché le ossessioni del cuore, scoperte, balzano fuori accecando la vista, e ogni altra traccia di vita sprofonda nel buio”. Sono queste le immagini e i pensieri che accompagnano la scalata di uno sguattero, Ferraguzzo, che dai recessi umidi e fumanti delle cucine raggiunge il mare di tetti grigi del castello dei suoi padroni, i conti De’ Lamenti. Un’immagine, questa, che già contiene la sua progressiva, lenta, studiata, salita al potere, per sovvertire un ammuffito ordine millenario e inaugurare il nuovo mondo della scaltrezza e dell’audacia personale. Ma qualcuno si mette sulla strada di Ferraguzzo. E’ un bambino, il legittimo erede della casata, che si sente soffocare da quei corridoi e quei saloni, e che pure avverte al contempo un misterioso richiamo, un’ultima indefinibile responsabilità.

    Per l’occhio umano vedere non è un atto imparziale, una comprensione istantanea del tutto. Fanciulla, cavallo, mosca, vi si imprimono con una violenza che precede ogni riflessione. Così è anche per i sogni e le fantasie più segrete. Perché le ossessioni del cuore, scoperte, balzano fuori accecando la vista, e ogni altra traccia di vita sprofonda nel buio”. Sono queste le immagini e i pensieri che accompagnano la scalata di uno sguattero, Ferraguzzo, che dai recessi umidi e fumanti delle cucine raggiunge il mare di tetti grigi del castello dei suoi padroni, i conti De’ Lamenti. Un’immagine, questa, che già contiene la sua progressiva, lenta, studiata, salita al potere, per sovvertire un ammuffito ordine millenario e inaugurare il nuovo mondo della scaltrezza e dell’audacia personale. Ma qualcuno si mette sulla strada di Ferraguzzo. E’ un bambino, il legittimo erede della casata, che si sente soffocare da quei corridoi e quei saloni, e che pure avverte al contempo un misterioso richiamo, un’ultima indefinibile responsabilità.

    Si potrebbe provare così a condensare la fosca trama di “Tito di Gormenghast”, primo volume della trilogia di Peake Mervyn che adesso Adelphi ripubblica in versione tascabile, quella di Anna Ravano, poi proseguita da Roberto Serrai, che dimostra il grado di vertiginosa bellezza cui può arrivare una traduzione (546 pp., 22,10 euro). I libri del poeta e ammirato illustratore di Charles Dickens iniziarono a essere pubblicati nel 1946. Sono gli stessi anni di altri nomi importanti del fantastico britannico – William Golding, George Orwell, John Ronald Reuel Tolkien – e in effetti “Tito” potrebbe essere definito un “Signore degli anelli” scritto da Franz Kafka. L’idea portante è il rapporto “dentro-fuori” il castello di Gormenghast, così vasto da non essere mai stato interamente percorso da qualcuno, con i suoi riti estenuanti e le fastose tende divorate dalle tarme. Un castello abitato da malinconici conti intenti a leggere e sospirare, matrone dal seno poderoso, circondate da un mare di gatti e con uccelli che nidificano nei boccoli rossi; e poi verbosi dottori, zitelle che si scaldano al minimo complimento, docenti così impolverati che hanno persino dimenticato che cosa insegnano, servi devoti così legnosi che le giunture scricchiolano a ogni movimento, preti catarrosi. Un grande affresco alla Victor Hugo, dove l’ironia feroce si accompagna a un pathos altrettanto intenso, polarizzato dalla figura del machiavellico servo Ferraguzzo e dai tormenti del giovane Tito. Il protagonista infatti, che pare sempre sul punto di spezzare l’antico ordine del palazzo avvertito come un peso insopportabile, non riesce mai del tutto a recidere il proprio legame con la vita del castello, pena la perdita della sua stessa identità, e così si trova a combattere sia l’ambizione manipolatrice di un singolo dal grande carisma, sia le moderne contraffazioni di una scienza sinistra.

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    Peake lottò col Parkinson, e non fu in grado di completare la storia del castello di Gormenghast. Tuttavia ci sono libri che comunicano una determinata “qualità”. Libri che non si leggono solo per come vanno a finire. “Tito di Gormenghast” è certamente uno di questi. L’antitesi resta insanata, e, al pari del “Prometeo” di Eschilo, non riusciamo a vedere se e come sarebbe stato possibile conciliare il desiderio di indipendenza e autenticità con il richiamo delle proprie origini. Ma proprio come nell’innocenza perduta del “Signore delle Mosche”, nella satira della “Fattoria degli animali” o nella dantesca “guerra del cammino e della pietà” del “Signore degli anelli”, anche questo mito grottesco ha influenzato un certo modo di leggere il nostro tempo. Come notò C. S. Lewis, “il mondo che ci viene presentato è, con spaventosa e fertile distorsione, il nostro –  un mondo al tempo stesso trionfante e miserabile, e che, avendo perso le sue radici, dubita di averle mai avute se non nella fantasia, incapace di individuarne di nuove… il tutto reso con una prosa che talvolta ti colpisce come una mazza e talvolta ti accarezza come l’ala di una farfalla, contribuisce alla costruzione di un mondo che alcuni vorranno dimenticare appena letto. Non ci riusciranno”. Ogni vero racconto è anche uno specchio. Siamo tutti un po’ Gormenghast.