Chi guiderà l'Ue?
Juncker è debole ma si dimena così: “Mai in ginocchio dagli inglesi”
L’uomo che ha governato un Ducato grande come la provincia di Ancona per dieci anni si sente ringalluzzito quando si tratta di andare in battaglia contro la gloriosa Gran Bretagna
“Non mi inginocchierò davanti agli inglesi” per avere il posto di presidente della Commissione. L’ex primo ministro del Lussemburgo, Jean-Claude Juncker, ha rilanciato lo scontro con il premier britannico, David Cameron, nella corsa per succedere a José Manuel Barroso alla testa dell’esecutivo comunitario. In una riunione a porte chiuse del Partito popolare europeo, giovedì, Juncker si è lamentato del trattamento che gli riserva la stampa britannica – “Junk Juncker” (Juncker spazzatura) era il titolo di un editoriale del rispettabile Times – e dell’assedio dei tabloid alla ricerca di fattacci sulla sua vita privata, come ha raccontato Ian Traynor sul Guardian.
L’uomo che ha governato un Ducato grande come la provincia di Ancona per dieci anni si sente però ringalluzzito quando si tratta di andare in battaglia contro la gloriosa Gran Bretagna. Di fronte alla minaccia di Cameron di uscire dall’Unione europea, ha spiegato all’esercito degli europarlamentari del Ppe, sarebbe “sbagliato se cedessimo ai britannici su questo”. Ma Juncker non aveva fatto i conti con un giovane primo ministro di un paese fondatore che, forte del 40 per cento alle elezioni europee, si è messo in testa di poter “cambiare l’Europa” e la sua vecchia classe dirigente. Quando Juncker parlava al Ppe, Matteo Renzi l’ha scaricato limitandosi a spiegare che “nessun candidato ha ottenuto la maggioranza” e che l’Europarlamento non può imporre i suoi “diktat”. Il piano di Renzi, ancora tutto da riempire di contenuti, è stato improvvisato giovedì mattina negli incontri con Cameron e la cancelliera tedesca Angela Merkel, che la sera prima si erano visti nella residenza dell’ambasciatore britannico a Bruxelles per un ultimo vano tentativo di mediazione di Juncker. Alcuni governi dovrebbero preparare un documento con il programma dei prossimi cinque anni, pieno di crescita e con poca austerità, nominando una donna come “candidato di consenso”. La direttrice del Fmi, Christine Lagarde, e la premier socialista della Danimarca, Helle Thorning-Schmidt, sono le favorite. Sarebbe un’offerta che l’Europarlamento difficilmente potrebbe permettersi di rifiutare.
Nella battaglia con Juncker, Cameron si gioca la sua sopravvivenza politica. Una sconfitta metterebbe in dubbio la rielezione nel 2015. Una vittoria metterebbe a tacere gli euroscettici dell’Ukip e dei Tory. Il trattato sta dalla sua parte: nessuna regola obbliga i leader a nominare Juncker. Ma niente obbliga l’Europarlamento ad accettare il candidato dei governi. Dopo aver promesso ai cittadini che avrebbero eletto indirettamente il presidente della Commissione, l’Aula di Strasburgo alzerà la voce. Tuttavia, Juncker non convince nemmeno l’Europarlamento. Alcuni criticano il suo stile di vita (troppe sigarette e gin tonic). Altri si interrogano sulla sua resistenza fisica. Altri ancora ricordano che alla presidenza dell’Eurogruppo era un peso piuma: durante la crisi ha parlato al telefono una sola volta con l’allora segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, contro le 58 telefonate della coppia Trichet-Draghi alla Bce. Così anche l’Europarlamento potrebbe infine mollare Juncker.
La portavoce della Commissione ha chiarito che i leader non sono obbligati a prendere una decisione entro il Consiglio europeo di fine mese. Il G3 formato da Merkel, Cameron e Renzi avrà più tempo per redigere il programma e trovare il successore di Barroso. Un aiuto è arrivato da Tony Blair, rispuntato dopo le europee per criticare Cameron sul referendum, ma dandogli ragione sulla necessità di ridurre i poteri dell’Ue. Blair ha mandato in radio Peter Mandelson a perorare la candidatura di Lagarde e dell’ex direttore dell’Organizzazione mondiale del commercio, Pascal Lamy. “Non sono candidata, ho già un lavoro”, ha detto ieri Lagarde: “Intendo completare il mio mandato”. E’ la stessa frase che usava Dominique Strauss-Kahn prima dei fattacci del Sofitel di New York, mentre preparava la corsa all’Eliseo. Quando si guida il Fmi, non si può dire di avere altro per la testa, pena le dimissioni.
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