Squillo di manette, ed ecco il ritorno dei morti perdenti. Fini e Di Pietro

Salvatore Merlo

Uno dice “sono pronto a ricandidarmi”, l’altro dice “sarò l’allenatore della destra”, i capelli radi, la pelle tirata dall’età, quello sempre più gonfio, questo sempre più secco. Ed entrambi vanno in televisione, maneggiano il vocabolario impolverato della destra legalitaria, ciascuno incapace di sbarazzarsi, come il cane di Pavlov, dei suoi riflessi condizionati, ciascuno incapace di fare i conti con la crudeltà del tempo che passa. Così gli dicono “inefficienze” e loro, come un tempo, rispondono “carabinieri”. Gli dicono “ingiustificato tenore di vita” e loro subito “disfarsi”.

    Uno dice “sono pronto a ricandidarmi”, l’altro dice “sarò l’allenatore della destra”, i capelli radi, la pelle tirata dall’età, quello sempre più gonfio, questo sempre più secco. Ed entrambi vanno in televisione, maneggiano il vocabolario impolverato della destra legalitaria, ciascuno incapace di sbarazzarsi, come il cane di Pavlov, dei suoi riflessi condizionati, ciascuno incapace di fare i conti con la crudeltà del tempo che passa. Così gli dicono “inefficienze” e loro, come un tempo, rispondono “carabinieri”. Gli dicono “ingiustificato tenore di vita” e loro subito “disfarsi”. E poi “ministero”: “mani pulite”, “legge”, “ordine”, “voti”. Vivono una vita di rievocazioni e di recuperi. E certo forse l’Italia è sempre la stessa di vent’anni fa, corruzione e manette, guardie e ladri, gaudente immoralità e furore moralista, l’Expo come i Mondiali d’Italia Novanta, il Mose di Venezia come il Pio Albergo Trivulzio.

    Italia, pentita sempre cangiata mai. Eppure, in questo gioco d’ombre, in questo crepuscolare déjà-vu, è straordinario e insieme commovente osservare anche il ritorno sulle scene dei vecchi Antonio Di Pietro e Gianfranco Fini. “I desideri non invecchiano / quasi mai / con l’età”, cantava Battiato. Eccoli dunque, Fini e Di Pietro, Di Pietro e Fini, come due arzille glorie del cinema muto, riapparsi a salmodiare coi medesimi stilemi d’un tempo, le stesse smorfie, le stesse immagini, le stesse idee, mentre il mondo, intanto, forse non è migliore, ma pure è ormai a colori e ha scoperto il Cinemascope e il Dolby surround, c’è il giubotto di Matteo Renzi, la barba sudata di Beppe Grillo, e c’è pure il cappellino da baseball di Casaleggio.

    Così l’ex pm, ad “Agorà”, a un certo punto si consegna al suo repertorio più consumato, guarda dentro la telecamera, indovina persino i tempi comici, come nei bei giorni, e dunque recita, sicuro dell’applauso, del successo con il pubblico, è il suo cavallo di battalia: “E che c’azzecca?”, dice. Ma stavolta nessuno ride, l’applauso non parte, il conduttore nemmeno s’accorge del siparietto, e lo sguardo di Di Pietro si fa improvvisamente remoto, perso come quello degli anziani ai giardinetti, forse l’ombra d’una malinconica consapevolezza, per un attimo, lo sfiora. Ed ecco Fini, che in semi clandestinità ormai rilascia un’intervista ogni due giorni. E anche lui ovviamente vuole promuovere delle assemblee, ma pure lui si muove come un vecchio tricheco escluso dal branco: “Voglio rivolgermi agli elettori delusi per chiedere loro quali idee hanno per ricostruire la destra”, dice. “La destra va rinnovata”, aggiunge. E insomma a questa ritualità mesta si attengono entrambi con vera passione, con ammirevole zelo partecipativo, come se tutto fosse sempre nuovo, fresco, appena cominciato. E sia Di Pietro sia Fini vogliono “rinnovare”, e anche questo è un dettaglio spietato e rivelatore. Perché “rinnovamento” significa letteralmente “reintegrazione di ciò che è stato consumato o esaurito” e addirittura secondo il Grande Dizionario del Battaglia è “il risorgere di un sistema politico”.

    [**Video_box_2**]Così Di Pietro suona la carica dal sottoscala della politica dov’è precipitato: “Siamo forti in Molise, Abruzzo, Sardegna e Basilicata”, addirittura. “Voglio costruire una nuova Idv. Con umiltà”, aggiunge. E davvero si assomigliano terribilmente lui e Fini, che intanto vagheggia la ri-destra, la ri-An, come si potesse davvero risalire lungo la vertiginosa parete del tempo. Ed è tutto un resuscitare, un tirare via le ragnatele, una crudele illusione. Intervistato, Fini, si schermisce, persino, come dovesse coprire chissà quali ambizioni segrete, quali trame occulte, quali gloriosi orizzonti, forse gli stessi di quando era un Principe alla corte del Cavaliere. Quando, tanto più tesseva la sua tela di potere, quanto più doveva negare la sua legittima pretesa al trono. “Il mio tentativo non si basa su primarie per la leadership”, spiega. “Penso a primarie per il programma”, aggiunge con un’umiltà di cui certo i suoi innumerevoli seguaci gli saranno grati. Eppure in questo torrido riproporsi, in questo incongruo rullare d’antico rinnovamento non c’è solo l’ennesima commedia all’italiana, l’eco caricaturale del linguaggio dei primi anni Novanta, scomparso ma non ancora morto. Sul volto stanco di Fini e Di Pietro battuti dalla storia, da Grillo, da Renzi, e persino da Berlusconi, nell’innaturale e straziante ritorno ai più cupi bassifondi della politica di un ex magistrato dalle mani pulite e di un ex Sovrano della destra, c’è l’Italia che non riesce mai a chiudere la storia di nessuno, spenna le vicende di ciascun protagonista fino alla decomposizione, senza mai sigillare, finire, superare.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.