Un'estate in Montaigne
Ai tempi di Socrate, Platone e Aristotele, la filosofia si faceva anche chiacchierando a lungo, seriamente, ironicamente e con impegno in piazza e sotto i portici. Il pensiero sapeva essere parlato e peripatetico. Perfino la metafisica, la filosofia dei principi primi, pur presupponendo esperienze mentali difficilmente verbalizzabili e oggi inconcepibili, poteva essere materia di discorsi conviviali. Gesù ha fondato l’eucarestia, il più sublime dei sacramenti, durante una cena, la sua ultima. Il linguaggio della filosofia veniva inventato parlando e discutendo. Poi per secoli e fino a oggi quel linguaggio è stato rimasticato ritualmente.
Ai tempi di Socrate, Platone e Aristotele, la filosofia si faceva anche chiacchierando a lungo, seriamente, ironicamente e con impegno in piazza e sotto i portici. Il pensiero sapeva essere parlato e peripatetico. Perfino la metafisica, la filosofia dei principi primi, pur presupponendo esperienze mentali difficilmente verbalizzabili e oggi inconcepibili, poteva essere materia di discorsi conviviali. Gesù ha fondato l’eucarestia, il più sublime dei sacramenti, durante una cena, la sua ultima. Il linguaggio della filosofia veniva inventato parlando e discutendo.
Poi per secoli e fino a oggi quel linguaggio è stato rimasticato ritualmente. Oggi esistono filosofi le cui pagine sono un intarsio di citazioni, a volte corredate di oneste virgolette, altre volte occultate e pronunciate per creare effetti magnetici di autorità e carisma. Filosofi che quando parlano filosoficamente, più che parlare recitano la parte del filosofo. Qualche volta non parlano neppure. Emettono più pause che parole. Secondo il loro maestro, l’orco della Selva Nera, conversare, dialogare, discutere è “chiacchiera”, mentre il vero filosofo “sentenzia”.
Secondo l’opinione di qualche amico affettuoso, dovrei vergognarmi di pensare nel momento in cui leggo i giornali. Piuttosto, secondo loro, dovrei studiare cose serie, alte o solide. Credono che si diventa importanti e seri studiando autori importanti e seri e trascurano che gran parte delle riflessioni di autori oggi considerati classici erano dedicate a cronache, personaggi, opinioni del loro tempo e circostanze assai contingenti. Come lo scrittore, il filosofo è bene che descriva, esamini, interpreti il modo di pensare, lo stato mentale dei suoi contemporanei, tenendo a mente, pro memoria, qualche precedente storico.
Leggo sulla Lettura - Corriere della sera (la leggo molto!) due articoli, uno di Emanuele Trevi, uno di Alessandro Piperno, li metto a confronto e devo ricordarmi un fatto: che la tradizione filosofica è divaricata fra esoterici e dialogici, sublimi e umili, puri e mescolati, ironici e apodittici. Così, sulle pagine di un giornale, ho davanti a me da un lato una via e dall’altro l’altra.
Trevi apre così il suo articolo: “Parola di filosofo: le classifiche dei libri più venduti sono ‘infami’ (‘sì, infami’, ribadisce). Osservate dalle alture spirituali che sono la dimora abituale di Giorgio Agamben, molte altre cose, come è facile intuire, potranno apparire ancora più detestabili ed inutili (…) Anche per questo la lettura dei saggi raccolti in ‘Il fuoco e il racconto’ (edizioni Nottetempo, ndr) equivale a un atto salutare di liberazione. Ebbene sì, proprio perché sappiamo che la vita è breve, e i suoi possibili significati sempre incerti e caduchi, tanto vale concedere a se stessi le maggiori ambizioni, e puntare dritto nella direzione delle cose supreme”.
Questo l’incipit. Vediamo la clausola: “La festa è finita: bentornati nella stagione dei premi letterari, dell’ultimo giallo del vecchio maestro, della nuova saga familiare della giovane promessa. Ma una domanda sorge spontanea: che ci impedisce di restare lassù, in compagnia di Agamben? Ce l’ha ordinato il medico di essere più stupidi di lui?”.
Mettiamo da parte i nomi di Trevi e di Agamben. Andiamo al nocciolo etico e gnoseologico della faccenda. Restare in alto e diventare più intelligenti o scendere in basso e tornare a essere stupidi come siamo? Il filosofo che vola alto non scrive sui giornali (anche se in Italia le eccezioni sono molte). Il filosofo che vola alto non ce la farebbe proprio a volare basso. Ma il giornalista culturale che vorrebbe salire in alto e restarci, se lo vuole dovrebbe farlo. Anche perché, se rimane giornalista e gira la pagina in cui dice quello che vorrebbe, di pagine ne compaiono due intere occupate da “infami” classifiche dei libri più venduti.
[**Video_box_2**]Mi chiedo: possibile che chi nutre pensieri così alti non sappia che se si va davvero in alto si vede che fra alto e basso non c’è differenza e tutto dipende dall’attenzione che dedichi a qualunque cosa? “Humility is endless”, suggeriva misticamente e cristianamente T.S. Eliot.
Nell’articolo accanto arriva Alessandro Piperno a rimediare. Parla infatti di Montaigne, così ironico, mescolato, impuro e votato alle contingenze. “Montaigne” (Piperno comincia così) “è il santo patrono degli scrittori confidenziali (…) è il primo grande moralista che non conosce la sentenziosità dei suoi epigoni. Per questo lo sentiamo così affettuosamente vicino. Ci piace il tono disinvolto, lo stile blasé che lui stesso definisce ‘indisciplinato, scucito, audace’. Non sorprende che l’anno scorso un libro di Antoine Compagnon, che raccoglieva alcune lezioni su Montaigne scritte per la radio France Inter, sia diventato un best seller in Francia” (lo ha ora tradotto Adelphi con il titolo “Un’estate con Montaigne”).
Che paese, la Francia! Che popolo i francesi! Che pubblico infiammabile! E’ il paese delle vie dirette e delle svolte repentine. Lo stesso Compagnon, nato all’ombra di Roland Barthes, che rovinò se stesso ammalandosi di teoria e semiologia, ora è noto per aver scritto un libro che denuncia i guai della teoria.
Prima, niente pensiero senza teoria. Oggi, ritorno a Montaigne, l’inventore del saggismo moderno e dello stile di pensiero umile, un classico francese che se i sacerdoti della French Theory avessero letto all’inizio degli anni sessanta, il mondo si sarebbe risparmiata una esasperante perdita di tempo.
Dunque, grazie a Compagnon, i francesi riscoprono Montaigne proprio quando i nostri filosofi più internazionalmente noti risultano attraenti perché eredi di teorici al quadrato come Foucault, Deleuze, Derrida.
Scoprire Montaigne sembra facile. Imparare da lui richiede però una cosa non facile: conoscere se stessi almeno un po’, filosofare ad altezza uomo e spremere qualcosa di intelligente dalle stupide circostanze della vita e qualcosa di stupido dalle supreme alture dello spirito.
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