Festa grande a Paperopoli
Pare che solo tra i piccolissimi non sia così, ma provate a chiedere a chiunque, dai dieci anni in su, se ama di più Topolino o Paperino. Il plebiscito è per il secondo, è chiaro.
Pare che solo tra i piccolissimi non sia così, ma provate a chiedere a chiunque, dai dieci anni in su, se ama di più Topolino o Paperino. Il plebiscito è per il secondo, è chiaro. Se il topo hollywoodiano in scarpe e guanti gialli primeggia, pontifica, sgomina nemici e conquista allori – almeno nella versione consolidata dagli anni Trenta, definitivamente perbene e dimentica delle zingarate degli esordi – il papero scalzo in giubba da marinaretto si dimostra umano, fin troppo umano, e dunque irresistibile nella sua perenne inadeguatezza: nevrotico, maldestro, sfortunato, di volta in volta frenetico o pigro – ma in realtà fatica terribilmente nello sforzo di non far nulla – e preso sottozampa da chiunque. Anche dai nipotini Qui, Quo e Qua che un giorno gli sono piombati in casa, spediti da una cugina che dei tre frugoletti non ne poteva più. Paperino, lo sappiamo tutti, cercherà di allevarli con inesistente autorità e scarsità di mezzi. Memorabile, a questo proposito, una striscia degli anni Sessanta in cui zio e nipoti si dividono un unico fagiolo in quattro, tenendosi poi la pancia come se avessero fatto una scorpacciata.
Paperino è l’umiliato e offeso, il papero qualunque, il perdente seppellito di debiti, il bersaglio di ogni tipo di soperchierie. Un Giobbe irascibile e starnazzante, le cui sfuriate non spaventano nessuno. Regolarmente destinato a lavori umili, faticosissimi e sottopagati, come lucidare giorno e notte le monete dello zio ricchissimo e avaro, il magnate Paperon de’ Paperoni (in originale Scrooge McDuck, di dickensiana ispirazione). Lui invece è generoso ed è pure americano, quindi sa che domani è sempre un altro giorno. A renderlo così amato è probabilmente quella speranza infantile e dissennata di farcela comunque, contro tutto e tutti, mai impallidita in ottant’anni di esistenza e di accanimento della sorte.
Giusto ottant’anni fa, infatti, il 9 giugno del 1934, Donald Duck, che in Italia sarebbe diventato Paolino Paperino e poi Paperino e basta, debuttò in un cartone animato prodotto dalla Disney e intitolato “The Wise Little Hen” (l’esordio nelle strips sui quotidiani sarebbe invece avvenuto il 16 settembre dello stesso anno). Tendenzialmente scansafatiche fin dagli albori, lo vediamo fingere un gran mal di pancia per non dover aiutare la chioccia saggia a seminare e poi a raccogliere il granturco. Nel metterne a punto la caratterizzazione, Walt Disney gli scelse come data di nascita un venerdì 13 marzo, a significare che non avrebbe mai potuto contare su una buona stella. All’inizio è un papero vagamente selvatico, dall’indole anarchica, che vive su una chiatta ancorata a uno stagno e condivide tratti di strada e di avventura con Topolino (Mickey Mouse) e Pippo (Goofy).
Nell’anno in cui nasceva Paperino, il presidente americano Roosevelt aveva da poco lanciato il New Deal, mentre il paese combatteva contro le conseguenze della Grande depressione. Sei anni prima, nel 1928, alla vigilia della crisi del secolo e nell’ultimo scampolo degli anni ruggenti, al neonato Mickey Mouse era toccato rappresentare l’atteggiamento positivo e vincente nei confronti della vita, all’insegna di una spensieratezza consolatoria per tempi difficili. Donald Duck, invece, arriva quando le illusioni si sono già infrante. E’ un figlio della penuria, della fame, della disoccupazione di massa. Molto prima di Kerouac, è il vagabondo “on the road” che non sa la mattina quello che metterà nel becco entro la sera, ma non si perde mai d’animo. Quel Paperino primitivo lo vediamo fisicamente diverso e più allungato, rispetto a quello definitivo, che prenderà forma grazie al disegnatore Al Taliaferro. Leggiamo in “Paperino, una vita a fumetti. 80° anniversario” (appena pubblicato dalla Disney): “Il collo di Donald Duck si accorcia fino a dimensioni normali; il becco rientra vistosamente, perde l’aspetto appuntito e acquista larghezza e solidità. L’intera figura è riproporzionata spostando il centro di gravità più in basso, e il pennuto ora mostra un simpatico posteriore piumato ben sporgente”. Se l’aspetto di Donald Duck cambia nel tempo, la sua voce cinematografica resterà invece per sempre quella, inconfondibile e gracchiante, di Clarence Nash, che lo doppierà per mezzo secolo in tutte le lingue, italiano e cinese compresi. Marco Giusti, nel suo “Dizionario dei cartoni animali” (Vallardi), racconta che Nash era “operaio di una centrale del latte, attore radiofonico a tempo perso, ma incredibile imitatore di uccelli”.
E’ però con Carl Barks, il vero artefice dell’immenso successo della dinastia dei paperi disneyani, che il personaggio di Donald Duck acquista la sua fisionomia compiuta. Quando nel 1935 arriva a Hollywood, assunto dalla Disney come disegnatore incaricato dei disegni intermedi dell’animazione, Barks era un trentaquattrenne dell’Oregon già reduce da un primo divorzio, deciso a dedicarsi al mondo dei cartoon dopo qualche esperienza come vignettista dilettante. Diventò presto, soprattutto grazie alle sue sceneggiature, “Duck Man”, l’Uomo dei paperi. Alla sua fantasia – nutrita di classici avventurosi e di collezioni della rivista National Geographic – si devono le gag più strepitose, le avventure più mirabolanti e soprattutto la crescita della grande famiglia dei pennuti disneyani, con la nascita di nuovi caratteri che disegnano una genealogia fatta soprattutto di parentele collaterali o acquisite: zii, prozii, nipoti, cugini. Tutti cittadini di Duckburg (Paperopoli), altra invenzione di Barks.
L’Uomo dei paperi si sentirà sempre responsabile del suo personaggio e della coerenza del suo comportamento. Il suo Donald Duck non è più o non è più soltanto il cittadino medio, stressato dalle noie della vita quotidiana (insonne per una goccia che cade ossessivamente dal rubinetto o sopraffatto dagli elettrodomestici che dovrebbero aiutarlo e invece lo dominano). Il Paperino di Barks è “il prototipo dell’uomo comune che, con spirito aperto e, perché no, indomito, va incontro a un mondo di (dis)avventure meravigliose che supera anche grazie all’appoggio sempre più necessario della famiglia” (citiamo sempre da “Paperino, una vita a fumetti”). In questo senso, lo scherzoso parallelo che l’economista Luigi Zingales ha fatto in un’intervista al Foglio, lo scorso 2 maggio, andrebbe corretto. “L’America è il paese di Topolino, cioè del topo intelligente e indaffarato – ha detto Zingales – mentre l’Europa è il continente di Paperino, quindi del nipote simpatico ma fannullone che può contare sullo zio ricco”. Non è esattamente così, almeno per quanto riguarda il Donald Duck made in Usa. Lo studioso di fumetti Stefano Priarone spiega che “il Paperino di Barks si ingegna in decine di lavori diversi e talvolta insoliti (il venditore di organi a vapore, l’accordatore di campane, il venditore di frullini), e accompagna spesso lo zio Paperone nella sua ricerca di tesori ai quattro angoli del globo. Non è affatto il perdigiorno oberato dai debiti di tante storie di produzione italiana: è bravissimo in tutti i lavori che fa, ma si lascia prendere la mano, vuole strafare ed è per questo che spesso fallisce. Soprattutto nelle storie italiane degli anni Cinquanta e Sessanta, vediamo il cugino Gastone vincere sempre grazie alla sfacciata fortuna che lo assiste, al contrario di quanto capita a Paperino. Ma per Barks, che crede nel valore del lavoro e disprezza la fortuna non meritata, questo non era possibile” (e alzi la mano chi riesce a trovare simpatico l’azzimato Gladstone Gander, cioè Gastone, creato da Barks come contraltare odioso di Donald Duck).
Ma l’Uomo dei paperi a un certo punto divorzierà dal Paperino cinematografico. Avvenne nel 1942, quando gli studios disneyani intensificheranno l’uso di Paperino nei cartoni animati della propaganda bellica. Uno dei corti di cui è protagonista (in origine intitolato “Donald Duck in Nutzi Land”, poi ribattezzato “Der Fuehrer’s Face”) nel 1943 vincerà l’Oscar nella sua categoria. Strepitoso per invenzione e animazione, mostra un Paperino né eroico né combattente, ma semplicemente tedesco, schiavo a una catena di montaggio di armi per Hitler. E’ solo un incubo, per fortuna, da cui il papero si sveglia, ben felice di ritrovarsi americano e di vedere sul comodino una statuetta della libertà, che bacia con sollievo. Il successo del Paperino di guerra fu senza precedenti, e Donald Duck divenne il più richiesto dai soldati americani e alleati per i loro stemmi (tra questi, anche quello di lord Louis Mountbatten). Ma Barks – che non era d’accordo con l’ormai esclusivo uso di propaganda di Paperino – nell’agosto del ’42 prenderà a pretesto una sinusite da aria condizionata per lasciare il desk cinematografico Disney, dal 1939 trasferito nel quartier generale di Burbank. Da allora, Barks (morto quasi centenario nell’agosto del 2000) lavorerà esclusivamente ai fumetti su carta.
Se le storie di Barks-Duck Man rimangono la pietra angolare del corpus paperinesco, anche in Italia ne è stato scritto un capitolo di tutto riguardo. Basti pensare all’invenzione (italiana in tutti i sensi) di Paperinik. Ovvero, la rivincita segreta del papero pasticcione che diventa super eroe. Mentre nel numero speciale di Topolino (il 3054) edito dalla Panini Comics per gli ottant’anni di Paperino, lo vediamo che, inviato come rappresentante dello zio Paperone a un convegno di commercianti di ferramenta, si ritrova per sbaglio protagonista di una conferenza di filosofi: ancora una volta, il Paperino che è (o che ci piacerebbe fosse) in ognuno di noi.
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