Sberleffo alla livornese
Siccome mio padre era paracadutista, alla Folgore, di comunisti a Livorno non ne ho conosciuti tanti. Forse, adesso che ci penso, nessuno.
Siccome mio padre era paracadutista, alla Folgore, di comunisti a Livorno non ne ho conociuti tanti. Forse, adesso che ci penso, nessuno. Ci tornassi in questi giorni penso che faticherei a conoscervi dei grillini perché i grillini di oggi sono figli carnali o eredi spirituali dei comunisti di ieri e pertanto sono invisibili a chi cerca di vedere il bello in tutte le cose, quindi perfino in Livorno. Che non è brutta perché così l’hanno sempre voluta vedere i pisani e gli altri maledetti, malevoli toscani da Giusti a Campana a Malaparte, per non dire del ferocissimo anonimo che per primo disse “se il mondo fosse un culo, Livorno sarebbe il buco”, ma perché tale l’hanno resa gli americani: “Devastata dai bombardamenti, al termine della guerra conservò poche case intatte” scrive Piovene nel “Viaggio in Italia”. Non mi sovviene, ad esempio, una sinagoga più squallida della sinagoga di Livorno: ecomostro postbellico, per un cristiano è un mezzo gaudio verificare che negli anni Sessanta non solo i vescovi, anche [**Video_box_2**]i rabbini persero la trebisonda, se non la fede, inginocchiandosi alle mode architettoniche degli atei. Non mi sovviene nemmeno una città dove ho mangiato così male a parte un poncino alla Cantina Nardi, che però fu un bere e non un mangiare, ma la colpa chiaramente è degli indigeni a cui mi rivolsi: che scemo, non si chiedono indirizzi alla gente del posto, la gente del posto non sa mai nulla del posto. Perché la gente del posto prima di essere “del posto” è “gente” e quindi carne da Tripadvisor, bocche da scarafaggiai qualità/prezzo, tutti probabili elettori di Filippo Nogarin, nerd spaziale e aerospaziale, amante del brutto a cominciare dalle pale eoliche e perciò nuovo sindaco di Livorno. E’ una città urbanisticamente e politicamente capovolta, Livorno. Mentre Pizzarotti è sindaco di Parma a dispetto del suo prezioso centro storico, del suo Battistero, del suo Teatro Farnese, del suo Parco Ducale, e in rappresentanza di periferie anonime come i sindacheschi maglioncini, Nogarin è grillescamente adatto al decumano bombardato mentre risulta incongruo fuori dal centro, in quel viale Italia, lungomare “verde, ampio, orgoglioso”, che è una delle meraviglie del bel paese di cui porta il nome. Non c’entra nulla il neosindaco con i Bagni Palmieri dipinti da Giovanni Fattori, coi Casini d’Ardenza che sono un Royal Crescent di Bath però luminoso e sul mare, con l’Accademia Navale, la Terrazza Mascagni, la Baracchina Rossa, e figuriamoci con la Antignano dei macchiaioli, con la Calafuria del “Sorpasso” di Dino Risi… Detto questo, ho due spiegazioni artistiche circa la vittoria dell’antiartistico Nogarin. La prima me la fornisce Vittorio Matteo Corcos, ebreo livornese giustamente convertito, “peintre des jolies femmes”, ritrattista mondano, amico e forse emulo di Boldini e De Nittis: le sue signore col cappellino, i suoi gentiluomini in abito di lino possiedono lo stile di chi preferisce andare al mare piuttosto che, volgarmente, a votare. La Livorno corcosiana, dunque, domenica aveva di meglio da fare che compiere un dovere costituzionale. A votare, ed ecco la seconda spiegazione, c’è andata invece la Livorno ciampiana, ma non nel senso di Carlo Azeglio bensì di Piero, cantautore maledetto morto nell’80, labronico del tipo portuale e quindi alcolico e rissaiolo, il cui capolavoro si intitola “Adius” e contiene nel finale il primo e più grande vaffanculo della storia della canzone italiana: “Ma vaffanculo. Ma vaffanculo. / Sono quarant’anni che ti voglio dire… ma vaffanculo. / Ma vaffanculo te e tutti i tuoi cari. / Ma vaffanculo”. Chiaramente qui lo chansonnier ce l’ha con una donna ma quando una canzone funziona una volta funziona sempre, anche in contesti diversi, ed è con queste parole in mente che domenica scorsa, nel segreto dei seggi, gli elettori livornesi si sono rivolti al partito unico che li governava da quarant’anni e più.
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