Hai qualcosa tra i denti
Che nel suo libro Hillary Clinton annunciasse la candidatura presidenziale per il 2016 era piuttosto improbabile persino per una donna prevedibile come lei.
Che nel suo libro Hillary Clinton annunciasse la candidatura presidenziale per il 2016 era piuttosto improbabile persino per una donna prevedibile come lei. “Hard Choices”, secondo le prime rivelazioni (il libro esce oggi negli Stati Uniti), è il memoir di una statista: pochi scoop, poche vendette, molti incontri internazionali, molte precisazioni. Hillary non sembra affatto una che forse, chissà, probabilmente riproverà a correre per la Casa Bianca dopo il disastro del 2008: Hillary sembra che presidente lo sia già stata, ha organizzato un “book tour” che soltanto suo marito e George W. Bush, due ex presidenti, si sono concessi. E’ questa la sua forza ed è questa la sua debolezza: l’esperienza solida sempre più raffinata mista all’abitudine, a una presenza ventennale, in evoluzione, ma con il marchio di fabbrica clintoniano che, insomma, ormai lo conosciamo. Può una moglie andare dal marito, dopo decenni di matrimonio, e proporgli un’avventura nuova, diversa da quel che c’è stato finora, rivoluzionaria, sexy come non l’aveva mai vista, ed essere credibile? Ecco, questa è l’hard choice di Hillary, e vista così sembra una partita già persa. Ma se c’è una cosa, nel marchio clintoniano, di cui nessuno dubita è che Hillary non è una che si perde d’animo, e il suo libro è stato scritto per dimostrarlo: sarà finita soltanto quando lo decido io.
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A furia di sentire Bill Clinton, ex presidente degli Stati Uniti, ripetere che secondo lui “House of Cards” è una serie tv magnifica, s’è finito col pensare che Frank Underwood con sua moglie Claire siano la versione televisiva del clintonismo. Ambizione, pianificazione, spietatezza, rischi, tradimento, la coppia di potere pronta a qualsiasi nefandezza pur di affermarsi, se si guarda bene nel passato dei Clinton ci sono pure dei cadaveri come in tv, morti improvvise di ex amici travolti dagli scandali, quanto basta per far eccitare (vanamente) gli avversari politici. Bill scherzando con Kevin Spacey, che interpreta Underwood, ha detto: “Sono sempre stato accusato di aver ammazzato qualcuno e di averla passata liscia, però Spacey lo fa in quindici minuti!”. Ma tra un commento, una battuta, una kermesse, una celebrazione della serie tv e un’altra, un incontro da Starbucks per prendere un misero caffè decaffeinato, Bill Clinton ha detto una frase assassina, riportata dallo stesso Spacey: “Adoro ‘House of Cards’, il 99 per cento di quel che accade è vero, ma c’è un 1 per cento tutto sbagliato: non puoi mai far passare una riforma [**Video_box_2**]dell’istruzione in così poco tempo”. E’ bastato un attimo perché al posto di “istruzione” ci si infilasse “sanità”, è bastato un attimo che si tornasse a una delle hard choice più disastrose della storia del clintonismo, l’Hillarycare, è bastato un attimo per ritrovare negli archivi della famiglia clintoniana tutto il lobbismo spietato che l’allora first lady praticò per far passare la sua riforma senza riuscirci – e dopo quell’attimo s’è pensato che ancora una volta il ruolo di Bill, nel futuro di Hillary, è tutt’altro che pacifico. Non è che il principale ostacolo alla presidenziabilità di Hillary è proprio Bill? In fondo “House of Cards” dà istruzioni chiare: lei sacrifica tutto per lui (gliela fa anche pagare cara, va detto), lui per lei non sacrifica niente. Ma forse Bill è soltanto, per la prima volta in vita sua, geloso.
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L’uomo protagonista di “Hard Choices” non è Bill, è Barack Obama. L’ex avversario poi diventato capo e poi ancora di più, stretto confidente, è la star dell’ultima parte della vita della Clinton. Se Hillary ha potuto restaurare la sua immagine dopo la disfatta delle primarie del 2008, lo deve all’attuale inquilino della Casa Bianca, che le ha offerto il posto di segretario di stato, un’alleanza di fatto, e la possibilità di lasciarsi le brutture del passato alle spalle comportandosi, scrive Hillary, come “due ragazzini a un primo appuntamento bizzarro, che bevono sorsi di chardonnay”. Ora che la Clinton ambisce a prendersi quel che Obama le ha negato nel 2008, deve riuscire in un altro esercizio di equilibrismo: mostrare fedeltà al suo ex capo e allo stesso tempo indipendenza, perché si sa che il tocco magico di Obama è finito per sempre, pure i democratici a mid-term sono disperatamente alla ricerca di un modo per prendere le distanze dal presidente intossicante senza farsi troppo notare da lui (per evitare ritorsioni, non per altro). Hillary prova la strada della sincerità – due fonti diverse hanno confermato a Politico che il libro è stato rivisto dalla Casa Bianca prima della pubblicazione – ripercorrendo gli anni al dipartimento di stato scandendoli crisi via crisi (paese per paese, anche: l’organizzazione del libro meriterebbe un’analisi psichiatrica) e provando a trovare di volta in volta una mediazione: abbiamo avuto delle discussioni, siamo stati in disaccordo su alcune questioni, ma il presidente è lui e io rispetto le scelte che ha fatto, pure se io le avrei fatte diverse. Di solito la politica estera non è grandemente affrontata nelle corse presidenziali, a meno che alcuni terroristi non abbiano tirato giù due torri nella tua città più cool e a meno che un candidato non sia stato segretario di stato. Obama fa di tutto per non parlare di quel che accade fuori dai confini americani, un po’ perché non gli interessa, un po’ perché non ci capisce niente, un po’ perché viene massacrato da ogni parte, ma Hillary avrà il mondo a disposizione per raccontare quel che è diventata, e quel che sarà (e non alzate gli occhi al cielo, la politica estera non è la noia che vi vogliono vendere, come ha scritto Bob Kagan nel saggio pubblicato di recente su queste pagine: “Il tentativo di influenzare il comportamento delle persone anche nelle questioni domestiche è già abbastanza difficile. Influenzare gli altri popoli e le altre nazioni senza limitarsi ad annichilirli è la più difficile delle azioni umane. E’ anche nella natura intima della politica estera, così come nelle questioni umane in genere, che tutte le soluzioni ai problemi portino solo più problemi. Questo è sicuramente vero per tutte le guerre. Nessuna guerra finisce in maniera perfetta, anche quelle con gli obiettivi più chiari e limpidi”).
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La Siria sarà la cicatrice dell’obamismo. Comunque andrà, nei confronti del popolo siriano s’è consumato il più grande tradimento strategico dell’America degli ultimi anni. La Siria significa 130 mila morti in tre anni, l’utilizzo delle armi chimiche da parte del regime di Assad che ha piegato la propria popolazione con il sarin, con le “barrel bombs” e con la fame, la trasformazione di un paese che in medio oriente citavano come esempio di pluralismo in un campo di battaglia tra islamisti, sciiti e sunniti che si scannano, mentre i ribelli ignorati dall’occidente non sono stati messi in grado di sopravvivere alla ferocia degli altri. Hillary sa che parlare di Siria non sarà mai facile, soprattutto quando non puoi dire che Obama ha sbagliato – volutamente – tutto. Ecco che allora l’ex segretario di stato dà la sua versione: “I problemi così complessi raramente hanno una soluzione giusta. Anzi proprio quel che li rende così perfidi è che ogni opzione appare peggiore di quella successiva. Dopo un po’ è così che la Siria ci è apparsa”, scrive Hillary secondo l’anticipazione della Cbs. Racconta di essere tornata da un viaggio nella regione convinta che l’addestramento e il rifornimento di armi dei ribelli siriani moderati fosse il modo migliore per contrastare Bashar el Assad. “I rischi dell’azione e dell’inazione – scrive Hillary – erano alti, ma il presidente Obama era più incline a mantenere la situazione com’era senza un passo così significativo come le armi ai ribelli”. La proposta del segretario di stato non ha avuto seguito. “Nessuno ama perdere un dibattito, e non piace nemmeno a me. Ma era una decisione del presidente, e io ho rispettato la sua scelta”.
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Hillary è l’autrice del “reset” con la Russia, quel pulsante rosso schiacciato assieme al collega di Mosca, Sergei Lavrov, che avrebbe dovuto cancellare fraintendimenti per gli anni a venire (sul bottone tra l’altro c’era una scritta non corretta, Hillary scrive che quello non fu un gran giorno per “le abilità linguistiche” degli Stati Uniti). Com’è noto, la strategia non ha funzionato granché, ma Washington ha faticato a reindirizzare la propria azione, e anche adesso è difficile dire quale sia l’obiettivo finale di Obama. Stando al Wall Street Journal, esiste un memo scritto da Hillary prima di lasciare il dipartimento di stato all’inizio del 2013, nel quale raccomanda vivamente di rivedere la politica del “reset” perché molti elementi fanno pensare che la Russia abbia fatto tutto tranne che lavorare a un “reset” con gli americani. Obama, che è secondo la definizione devastante del New Yorker “un realista riluttante”, non ha raccolto il consiglio di Hillary, ha lasciato che Vladimir Putin prendesse la guida di molte iniziative diplomatiche – la più sciagurata è, ancora una volta, quella siriana – e soltanto dopo che Mosca si è mangiata la regione ucraina della Crimea ha iniziato a reagire con veemenza e sanzioni.
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Resta Bengasi, che se mai Hillary arriverà a candidarsi alla Casa Bianca sarà la sua nuova Monica Lewinsky, ben più noiosa e ben più pericolosa. Secondo chi ha letto “Hard Choices”, l’unica parte in cui il tono della Clinton è sulla difensiva è proprio quella in cui le aspettative sono più alte: che cosa è davvero accaduto nell’attacco al consolato americano a Bengasi, in Libia, l’11 settembre del 2012, la notte in cui è morto il diplomatico Chris Stevens? Hillary spiega di aver dato istruzioni di sicurezza precise prima e durante l’attentato, facendosi consigliare da chi era più competente di lei, “non sono tenuta a sapere se un muro sta cedendo o deve essere rinforzato”, ha detto nell’intervista organizzata dall’Abc, è proprio per questo che esistono gli esperti. Ma non è tanto il fatto che il palazzo fosse attaccabile, il punto: il punto è che, una volta sotto attacco, non è stato fatto tutto il possibile per salvare i diplomatici e poi si è negato il fatto che gli allarmi di un attentato imminente erano stati lanciati, e con una certa insistenza, da tutto il personale libico. Hillary ha già testimoniato davanti al Congresso, nel gennaio del 2013, sulla questione, e proprio in quell’occasione ha usato una carta che non le è congeniale: ha pianto. La morte di quelle persone “è il più grande rimpianto” di tutto il mandato al dipartimento di stato (così come il voto a favore della guerra in Iraq è stato un errore, “plain and simple”) e nel libro Hillary scrive: “Ero io responsabile della sicurezza della mia gente, e non ho mai sentito quella responsabilità più profondamente come quel giorno”.
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Hillary che piange non s’è vista spesso. Ma come sempre accade a quei politici che vogliono cercare di “umanizzarsi” (ricordate Mitt Romney?), l’umanità ti si ritorce contro. Perché in quel gennaio del 2013 Hillary si stava anche riprendendo dalla trombosi che l’aveva colpita poco prima e che aveva fatto ricordare a tutti che la ex first lady, ex senatrice, ex segretaria di stato avrà nel 2016 sessantanove anni. E’ vecchia, ha problemi di salute gravi, si mette a piangere in pubblico. Le foto di Hillary senza trucco, gonfia e con l’aria persa hanno fatto il giro del mondo, con i repubblicani pronti a infierire: vi pare che questa donna possa guidare un paese come gli Stati Uniti? Se poi ci si mette l’ansia da rottamazione che ha preso un po’ tutti, è chiaro che, al netto di qualsiasi altra remora o sospetto o rancore, il problema di Hillary è anagrafico. L’ostacolo è insormontabile, e allora la Clinton prova ad aggirarlo, dedicando nel suo memoir un capitolo a sua madre. Ora, della mamma di Hillary, Dorothy Howell Rodham, sappiamo già molto, sappiamo in particolare che se Hillary è rimasta con Bill nonostante la cornificazione compulsiva è perché sua mamma le ha sempre ripetuto che nella sua famiglia le donne non se ne vanno, non si separano, restano. Ma qui la mamma è usata in un’altra veste, che non ha soltanto l’obiettivo di umanizzare il robot clintoniano, ma piuttosto quello di idealizzare la figura della donna che sa cambiare ruolo. “Ora che sto diventando nonna – scrive Hillary ricordando che sua figlia Chelsea aspetta un bambino – penso molto a mia madre”, morta nel 2011. Vogue versione americana, sotto la direzione di Anne Wintour, ha pubblicato un estratto di questo capitolo sul numero di maggio, un’operazione perfetta per sincronizzare leadership, donne al potere, famiglia ed età avanzata. Con un programma per il futuro, elaborato il giorno del funerale: “Ho guardato Chelsea e ho pensato a quanto mia mamma fosse orgogliosa di lei. Mia mamma misurava la sua vita sulla base di quanto ci aiutava e poteva servire gli altri. Se fosse rimasta con noi, ci avrebbe sempre ripetuto di fare lo stesso. Mai adagiarsi sugli allori, mai andarsene, mai smettere di lavorare per rendere il mondo un posto migliore. Questo è il nostro ‘unfinished business’”.
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Michiko Kakutani ha recensito “Hard Choices” sul New York Times e ha spiegato che il libro è volutamente prevedibile e cauto perché non è stato pensato per creare scandalo. Ci sono tantissimi dettagli sugli incontri internazionali con tutti i leader della terra – con ironie collaterali, come quella volta che Putin ha invitato Bill ad andare a fare il censimento degli orsi polari – e pochi invece su quel che accadeva dentro l’Amministrazione. Perché Obama è l’uomo da salvare, e da cui ripartire, così come lui ha salvato, anni fa, Hillary. E ha continuato a farlo. Una volta le ha chiesto di uscire dalla sala dove stava per iniziare un importante meeting con leader stranieri. Hillary pensava di dover discutere di chissà quale progetto strategico. E invece Obama le disse: “Hai qualcosa tra i denti”.
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