Good job Obama in Iraq: lo Stato islamico si mangia pure Mosul
Da Aleppo, in Siria, a Mosul, in Iraq, il territorio è diventato tutto un enorme campo di battaglia unificato sotto il controllo di un unico gruppo sunnita, lo Stato islamico.
La foto in questa pagina spiega che da Aleppo, in Siria, a Mosul, in Iraq, il territorio è diventato tutto un enorme campo di battaglia unificato sotto il controllo di un unico gruppo sunnita, lo Stato islamico. E’ uno spazio senza più alcuna autorità che si estende per almeno 500 chilometri attraverso il vecchio confine nazionale tracciato da Sykes e Picot che ormai esiste soltanto sulla carta – ma si tratta di una stima prudente, perché si potrebbe anche mettere nel conto Deir ez Zor in Siria e Fallujah in Iraq. L’uomo nella foto è un comandante dello Stato islamico di etnia cecena, Omar al Shishani, arrivato a combattere ad Aleppo nel 2011: sta esaminando un veicolo blindato Humvee, donato dagli americani all’esercito iracheno alla fine della loro presenza nel 2011, catturato ora dallo Stato islamico in Iraq e subito portato al di là del confine – se quest’espressione ha ancora senso – in Siria. In questo spazio senza nazionalità, fazioni diverse attaccano lo Stato islamico: i curdi, al Qaida, il governo iracheno, i ribelli siriani e il governo siriano, senza però riuscire per ora a ridimensionarlo.
[**Video_box_2**]Ieri dopo cinque giorni di combattimenti lo Stato islamico si è ancora allargato a est in Iraq, ingoiando quasi interamente la città di Mosul. Il centro è a nord della capitale Baghdad di circa 360 chilometri ed è il secondo più grande del paese, con un milione e mezzo di abitanti. Gli scontri sono cominciati sabato e ieri c’è stato un crollo improvviso. Il governo locale è collassato, il governatore ha parlato mentre era in fuga verso una località segreta. L’esercito e le forze di sicurezza si sono ritirati, spogliandosi delle divise per non essere riconosciuti, lasciando indietro i mezzi anche blindati (come quelli poi finiti in mano a Omar il ceceno). Le reti satellitari arabe di mattina hanno faticato a dare la notizia, forse perché incredule, forse per non fare propaganda a favore dei jihadisti.
Lo Stato islamico (al dawla al islamiya) ha conquistato grandi parti nell’ovest e nel sud di Mosul, compresi il palazzo del governo locale, l’aeroporto internazionale, le prigioni, alcune banche. Più di duemila detenuti sono stati liberati e molti hanno ingrossato il gruppo degli attaccanti (lo Stato islamico nel 2012 annunciò una campagna per far evadere i compagni di prigione che ha funzionato molto per far risorgere il gruppo). All’aeroporto anche alcuni elicotteri e jet da guerra sono diventati bottino di guerra, non si sa quanto utile perché si ignora se ci siano piloti qualificati tra i ranghi dello Stato islamico – per ora è in dubbio. Circa centocinquantamila persone, molte a piedi, hanno abbandonato la città, per non essere prese in mezzo nei combattimenti.
Il Dawla è l’erede diretto del gruppo comandato da Abu Musab al Zarqawi, il giordano ucciso in un raid americano nel giugno 2006 – ma non è affiliato ad al Qaida, anzi ne è diventato nemico mortale. Gli Humvee un tempo americani catturati alle forze irachene saranno in parte riutilizzati proprio contro al Qaida in Siria – che usa il nome di Jabhat al Nusra – soprattutto nella regione di Deir ez Zor. L’idea alla base è la stessa, in comune ai due gruppi: la fondazione di un Califfato che applichi la sharia rigidamente, riporti i credenti allo splendore originario dell’impero, ignori i confini tracciati dagli occidentali e faccia da base per l’espansione militare e politica dell’islam (il loro portavoce, Abu Mohammed al Shami al Adnani, si riferisce frequentemente a Roma come obbiettivo simbolico e definitivo della guerra). Sul campo, questi pilastri ideologici si sono trasformati in una guerriglia spietata contro gli sciiti che governano a Baghdad e contro i sunniti che rigettano l’estremismo, che considera i civili come bersagli legittimi.
La disfatta di Maliki Ora c’è da vedere se Mosul resterà sotto il controllo dello Stato islamico. Un’altra città quattro volte più piccola, Fallujah, è stata presa a gennaio e da allora nulla è cambiato. I guerriglieri sunniti si sono trincerati dentro, la vita ha ripreso a scorrere nella normalità eccezion fatta per i bombardamenti del governo. Più a ovest, l’esercito ha quasi ripreso del tutto Ramadi, ma l’equilibrio sul campo è ancora incerto, potrebbe cambiare ogni giorno. E’ vero che lo Stato islamico ha addentato più terreno di quanto possa sperare di tenere sul lungo termine, ma riprendere Mosul completamente potrebbe essere difficile. Il primo ministro Nouri al Maliki ieri ha convocato il Parlamento per chiedere la dichiarazione dello stato d’emergenza (legge marziale) e ha invocato l’aiuto di tutti gli alleati, compresi gli Stati Uniti e l’Unione europea. Ha anche annunciato che tutti i cittadini che volontarimente intendono combattere contro il Dawla saranno armati dal governo. La caduta di Mosul è però un fallimento di Maliki, che in questi anni al potere non ha cercato il compromesso con i sunniti in minoranza, li ha trattati male, non ha rispettato gli impegno di assumerli nelle forze di sicurezza e ha soffocato con violenza inaudita le proteste. Se a questo si aggiunge che le forze di sicurezza sono in pessimo stato, poco motivate, inclini alla corruzione e alla diserzione e non a resistere di fronte ai raid dei guerriglieri, si capisce in parte perché l’apparato militare di Mosul si è dissolto in meno di una settimana. Ma quello di Maliki è un fallimento condiviso con l’Amministrazione Obama: l’inerzia su Siria e Iraq ha generato questo scenario. Gli iracheni chiedono droni americani in azione, come in Pakistan e in Yemen, e se continua così saranno accontentati presto.
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